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Apocalittici, integrati, insegnanti. Promesse e timori nella nuova stagione della scuola digitale

Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini.

Italo Calvino, Lezioni americane, Visibilità

Abbiamo assunto una persona nel ruolo di commissario straordinario del cambiamento (…): ogni mattina dovrà decidere dove si insegnerà, e come, e quando. In un cortile, nel parco, sulla mongolfiera, a casa. Ovunque. Si inaugura il tempo di una flessibilità mai vista. (…)

Classe, materia e professore sono certezze invecchiatissime.

Alessandro Baricco, “la Repubblica”, 20 maggio 2020

La didattica a distanza, imposta dalle circostanze eccezionali che stiamo vivendo, ha riproposto in forma nuova temi di grande attualità nel dibattito sulla scuola. Nelle ultime settimane, l’attenzione dell’opinione pubblica si è appuntata sulle prospettive per il prossimo anno scolastico: stando ad indiscrezioni giornalistiche, interventi sui social, interviste, sembra che il Ministero voglia inserire le misure eccezionali che si renderanno probabilmente ancora necessarie in un più ampio quadro di norme stabili.

Nella congerie di voci di intellettuali, opinionisti, giornalisti che si sono pronunciati sulla questione, ho scelto di concentrare la mia attenzione quasi esclusivamente su due testi: l’appello proposto da Massimo Cacciari; la risposta della Ministra Azzolina.

Pur non potendomi esimere dall’affrontare temi abbastanza vari, rifletterò soprattutto sulla questione del rapporto fra apprendimento e tecnologie.

GIUDIZI E PREGIUDIZI

I due documenti citati illustrano efficacemente atteggiamenti culturali opposti, che a mio modo di vedere sono in parte basati su pregiudizi.

Nell’appello di Cacciari, si oppone nettamente la “tradizione” (parola-chiave del testo) a un’innovazione qualificata come “riduzione”. Il ragionamento è basato sull’antitesi, che ad un certo punto diventa esplicita, fra “educazione” (possibile solo in uno scenario tradizionale) e “istruzione”. Veicolo di questo riduzionismo è la tecnologia degli schermi, citata in accezione negativa: “modalità telematiche”, “tecnologie da remoto”, “monitor dei computer”, “distribuzione di tablet”. A questa diffusione si accompagna un peggioramento dell’apprendimento, metaforizzato con le immagini dell’appiattimento, dell’oblio, del superficiale ed allegro abbandono dell’eredità del passato, a vantaggio, invece, di un “meccanico apprendimento di nozioni”, dello “smanettamento di una tastiera”, della “sudditanza a motori di ricerca”.

Alla base di questa strategia argomentativa, si coglie una concezione piuttosto dogmatica del processo cognitivo, alla quale diede popolarità Giovanni Sartori, nel suo libro “Homo videns”. In un contesto storico differente dall’attuale, il testo discuteva l’uso delle televisioni commerciali nella propaganda politica. Nella prima parte (“Il primato dell’immagine”) vi si leggeva che l’homo videns è una degenerazione dell’homo sapiens, e che il “sapere per immagini” non è autentico sapere, ma al contrario ne erode la possibilità stessa di esistenza.

Questo preconcetto può essere definito “tradizionalismo antivisivo”, ed emerge spesso in argomentazioni fondate su una più o meno dissimulata laudatio temporis acti.

Nella risposta di Azzolina sono invece presenti due potenti stereotipi sui quali si fonda l’immagine pubblica del digitale.

Il primo è il notissimo “nativismo”, basato sulla convinzione che esista una specie all’interno della specie umana, caratterizzata dalla nascita in anni fortemente pervasi dalla disseminazione di strumenti tecnologici di diverso genere; la precoce familiarità e la costante disponibilità di questi strumenti fa sì che la specie nativa sia “naturalmente” incline ad apprendere e a relazionarsi attraverso schermi, monitor, tecnologie. La famosa definizione di Prensky si è diffusa in Italia soprattutto grazie a Paolo Ferri; in “Nativi digitali”, egli definisce i nativi “simbionti strutturali delle tecnologie”, che “navigano e condividono contenuti e sapere con i loro pari attraverso la rete”.

Sul fondamento dell’“individualità digitale” si afferma un’esigenza di profondo rinnovamento del sistema formativo, che in anni recenti si è tradotta nel Piano Nazionale Scuola Digitale, e nelle azioni didattiche che ad esso fanno riferimento. Per esempio, sul sito dell’associazione Paideia si leggono parole come queste: “la nuova cultura digitale e la diffusione di strumenti digitali in tutti gli ambiti della vita quotidiana stanno rivoluzionando la società. In quest’ottica, la scuola deve stare al passo con i tempi. (…) La tecnologia rappresenta una risorsa aggiuntiva in classe e apre la strada alla scuola del futuro: la scuola digitale”.

Prendendo a prestito una felice espressione di Shoshana Zuboff (“Il capitalismo della sorveglianza”), usata in un diverso contesto, definirei questo pregiudizio “inevitabilismo digitale”: in base ad esso, la digitalizzazione dei processi educativi viene presentata come un destino coerente con la progressiva digitalizzazione della vita (Internet delle cose).

Nella risposta di Azzolina a Cacciari, le tracce di questi pregiudizi sono evidenti, quando si fa discendere da un’asserzione assolutamente incontestabile (“il digitale è reale”) una serie di implicazioni debolmente motivate: “impariamo a parlare la loro (dei nativi, ndr) lingua, lavoriamo sulla media education”. Su questa base, si traggono deduzioni quanto meno discutibili sul significato storico dell’esperienza che stiamo vivendo: “abbiamo l’opportunità di portarci dietro un bagaglio di competenze (…) che in tempo di “pace” avremmo ottenuto in alcuni anni, invece che in pochi mesi”. Se ne trae addirittura un auspicio di solidarietà e condivisione, che ricorda da vicino il tono degli spot pubblicitari nazionalisti/ comunitari proiettati nei giorni della reclusione: “impariamo a vivere il digitale con complicità, non con estraneità”.

DISCUSSIONE DEI PREGIUDIZI

Le visioni definite in precedenza (tradizionalismo antivisivo, nativismo digitale, inevitabilismo tecnologico) sono state sottoposte negli ultimi anni ad una profonda critica, che è approdata a metterne seriamente in discussione i fondamenti teorici, e le conseguenza pratiche che ne deriverebbero nel campo dell’istruzione.

Si sono moltiplicati gli studi che evidenziano potenzialità e profondità della cultura visiva.

Questi studi si raccolgono in parte sotto la categoria generale di “media education”, in cui convivono felicemente un’anima più colta, che mira ad inserire con naturalezza l’alfabetizzazione mediatica nel contesto dei curricoli tradizionali (David Buckingham), ed una più spiccatamente pop, che lavora su contesti culturali allargati, e sulla contaminazione/ meticciamento fra la “cultura colta” degli adulti/ insegnanti e quella giovanile (l’idea di “cultura partecipativa” di Henry Jenkins).

Su altri versanti, la ricchezza del pensiero visivo, e la sua capacità di consentire nuovi approcci al sapere ha trovato compiuta espressione nelle ricerche filosofiche di W.J.T Mitchell (“Scienza delle immagini”), e in solidi studi interdisciplinari fra il campo delle ricerche umanistiche e quello delle neuroscienze (Guerra, Gallese, “Lo schermo empatico”).

Che l’homo videns sia degenerazione dell’homo sapiens è quindi affermazione molto opinabile: non si tratta di destini storici o biologici, ma di una concreta possibilità, che dipende soprattutto dalle scelte dei singoli, nel campo dell’educazione familiare, e del sistema educativo, nell’ambito dell’organizzazione scolastica.

Quanto al mito dei nativi digitali, gli studi sul rapporto fra media ed apprendimento sono così rigorosi che la confutazione del “nativismo” nasce al loro stesso interno.

In Italia, è opera soprattutto di Pier Cesare Rivoltella. “Neurodidattica. Insegnare al cervello che apprende” è il suo libro più noto sul tema. Sull’ipotetica genesi di una nuova specie di simbionti, a pag. 16 vi si legge questo passaggio:

Come Gary Marcus (2008), neuropsicologo della New York University, e John Medina (2009), biologo molecolare all’università di Washington, fanno osservare, occorrono centinaia di migliaia di anni perché cambiamenti realmente rivoluzionari si verifichino sul piano neuro anatomico. Certo, poi se si va a studiare il cervello dei nativi si possono riscontrare differenze dal punto di vista dell’organizzazione sinaptica in relazione al fatto che sono più esposti ai media, ma questo accadrebbe anche se parlassero francese invece che inglese, oppure se pur parlando inglese giocassero o meno a tennis. Inoltre occorre ricordare che vi sono anche persone anziane che con i computer si trovano perfettamente a loro agio e l’analisi della loro circuiteria cerebrale evidenzia un’organizzazione sinaptica non dissimile da quella dei nativi.

L’idea di una “natività digitale” ha quindi un valore esclusivamente metaforico, e non esistono due lingue/ logiche diverse (una dei “nativi”, l’altra dei cosiddetti “immigrati”, cioè genitori ed insegnanti). Esistono, invece, abitudini individuali e consumi mediali specifici, dei quali la riflessione pedagogica e le scelte dei docenti possono, in rapporto all’età dei discenti, alle materie insegnate, agli obiettivi delle attività, tenere conto. Si tratta però di ipotesi e processi educativi affascinanti quanto complessi, sui quali Gino Roncaglia ha scritto pagine molto chiare (“L’età della frammentazione”).

Un interessante esempio di sperimentazione, proposto dall’Università Cattolica di Milano proprio in occasione del “distanziamento didattico”, mostra il complesso intreccio fra ricerca teorica e lavoro quotidiano degli insegnanti.

Il terzo pregiudizio che, sulla scorta di Shoshana Zuboff possiamo definire “inevitabilismo”, è l’ideologia sottesa all’attuale assetto dominante del potere economico (in particolare nel campo della produzione di tecnologie di ricerca in rete). Questo pregiudizio si fonda da una parte sulla prepotente diffusione della domanda di strumenti tecnologici e di comunicazione, dall’altra sul ritardo dei legislatori nella formulazione di leggi che regolino i comportamenti e i diritti nel vastissimo campo del “digitale”. Se ne deduce la diffusa convinzione che le attuali pratiche di autoregolamentazione debbano valere come norma. Le regole imposte dalle autorità che potrebbero intralciare o rallentare le operazioni economiche e culturali delle multinazionali sono percepite come impicci, figlie di un modo vecchio di intendere il rapporto fra la legge e mercato.

In questa prospettiva, non si può discutere l’assioma secondo il quale “più tecnologia equivale a migliore qualità della vita”, anche nell’ambito della formazione delle persone.

Abbiamo già conosciuto forme di colonizzazione dell’immaginario di questo genere, descritte magistralmente da Serge Latouche in relazione a concetti come “crescita” e “sviluppo”. Come per lo “sviluppismo”, anche nel caso dell’educazione l’antitesi fra oscurantisti tecnologici chiusi all’innovazione, e tecnofili dinamici e aperti al nuovo che avanza risulta caricaturale: una buona scusa per non entrare nel merito dei problemi da risolvere.

LE QUESTIONI CRUCIALI

Se liberiamo il confronto dai preconcetti, i testi di Cacciari e Azzolina, pur nella loro brevità, chiamano in causa aspetti fondamentali della professione docente, variamente implicati nel ragionamento degli autori.

Si tratta, prima di tutto, di capire quali tecnologie siano effettivamente utili all’apprendimento, e in che misura e circostanze.

Sul tema, si registra da anni una discrepanza netta fra i risultati della sperimentazione e della ricerca scientifica, da una parte, e le decisioni del legislatore, dall’altra.

Nel libro “Senza educazione”, lo storico della pedagogia Adolfo Scotto di Luzio analizza i risultati ufficiali della più grande sperimentazione condotta fino ad oggi, “Cl@ssi 2.0”.

Constatandone il sostanziale fallimento, peraltro in larga misura ammesso anche dagli esperti ministeriali, formula considerazioni sconfortanti circa la scarsa serietà degli indicatori e la genericità degli esiti. Deduce inoltre che “prima di essere un oggetto conoscitivo, il tema delle tecnologie per l’apprendimento è dunque lo stereotipo che la cosiddetta società della conoscenza coltiva di se stessa: un mondo nuovo, di sconfinate possibilità, aperto alla colonizzazione e allo sfruttamento”. Denuncia il paradosso per cui, nel quadro delle indagini condotte a livello europeo sul rapporto fra tecnologie ed apprendimento “per valutare l’efficacia dell’introduzione del computer in un piano di studi, il criterio generalmente scelto dagli attori istituzionali è che un piano degli studi è tanto più efficace se contempla l’introduzione e l’uso dei computer” (pag. 73).

Senza avvertire l’esigenza di confrontarsi con giudizi autorevoli come questo, né di aprire un confronto partecipato sull’efficacia delle nuove tecnologie educative, nello stesso periodo (il libro è del 2015) il legislatore progetta quello che sarà poi noto come Piano Nazionale per la Scuola Digitale. Vi si legge che il piano “nasce da un’idea rinnovata di scuola, intesa come spazio aperto per l’apprendimento e non unicamente luogo fisico, e come piattaforma che metta gli studenti in grado di sviluppare le competenze per la vita. In questo paradigma, le tecnologie diventano abilitanti, quotidiane, ordinarie, al servizio dell’attività scolastica, in primis le attività orientate alla formazione e all’apprendimento, ma anche l’amministrazione, contaminando (…) tutti gli ambienti della scuola: classi, ambienti comuni, spazi laboratoriali e spazi individuali. Con ricadute estese al territorio.”

Il gruppo di esperti ministeriali sembra porsi in continuità con questa linea politica, quando enuncia per settembre un piano articolato in diverse azioni. Lo chiariscono le dichiarazioni di alcuni suoi collaboratori. In particolare, sono oggetto di discussione in questi giorni le parole del prof. Ceppi (che lavora nel Comitato di Esperti istituito dal Ministero), che annuncia per il nuovo anno “gli inizi di una scuola diversa”: in essa, “si andrà meno a scuola, ma si farà più scuola”, grazie ad una sorta di scolarizzazione delle case e dei territori. Questo modello “userà il tempo e non solo lo spazio – o meglio, la combinazione di queste due variabili”, e “nel tempo diventerà una modalità permanente”.

Viene grande attenzione alle condizioni in cui si realizza il percorso educativo, poiché ricominceremo l’anno scolastico in condizioni di precarietà. Con chiarezza, si afferma che un fattore di arretratezza della scuola italiana è costituito dalla sua “inadeguatezza dal punto di vista della strumentazione tecnologica”.

Tuttavia, a questa cura per gli elementi di contesto e ai fattori quantitativi, non si accompagna una riflessione approfondita sui risvolti culturali e professionali del tema.

Prima di tutto, dovremmo raggiungere un accordo semantico sul significato dell’espressione “lavoriamo sulla media education”?

La prima distinzione indispensabile per definire e perseguire efficacemente le finalità dell’alfabetizzazione in quest’ambito consiste nel distinguere “educazione con i media” e “educazione ai media”. Nel primo caso, si utilizzano i mezzi di comunicazione come semplici ausili per l’insegnamento in altri campi della conoscenza. L’educazione ai media costituisce invece, “parte di un settore autonomo nella teoria e nella pratica pedagogica”, come ci insegna David Buckingham.

Introdurre nuove strumentazioni tecnologiche, anche in forma massiccia, non significa di per sé “lavorare sulla media education”, e potrebbe addirittura non costituirne una premessa. Perché questo avvenga, occorre introdurre una nuova disciplina nel curricolo, il cui statuto epistemologico non è comparabile con altri che vi sono già presenti, sebbene la sua “anima” sia ovviamente interdisciplinare. Significa anche interrogarsi sull’utilità di strumenti e procedure tecnologiche non in termini generali, ma in relazione alle finalità e agli obiettivi specifici di ciascuna disciplina, argomento, obiettivo formativo: un processo culturale, insomma, complesso e graduale, non certo subitaneo.

Ammesso e non concesso che siano affrontati in modo approfondito, questi problemi culturali e didattici ne pongono altri, relativi alle diverse aree disciplinari, allo statuto di ciascuna materia, al rapporto fra esse in una prospettiva trasversale.

Credo siano questi gli interrogativi che spingono Cacciari a parlare di “messaggi … ben più che allarmanti”, e di “irreversibile liquidazione della scuola nella sua configurazione tradizionale”, e la ministra a rassicurare circa il fatto che “non c’è alcun modello distopico all’orizzonte”.

L’antitesi istituita nell’appello fra “il complesso processo dell’educazione” e la “dimensione riduttiva dell’istruzione”, e l’insistenza sul pericolo che un rinnovato investimento in tecnologia si traduca sostanzialmente in un “meccanico apprendimento di nozioni”, è a mio parere l’ultima formulazione del dibattito sulla didattica per competenze, e sul rapporto fra scuola delle conoscenze e scuola delle competenze.

Questa complessa interazione è definita con chiarezza nella Raccomandazione relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, trasmessa dal Consiglio Europeo il 22 maggio 2018: le competenze, sono infatti definite (a pag. 7) come “combinazione di conoscenze, abilità e atteggiamenti” (e di ciascuno di questi aspetti si fornisce una definizione sintetica molto chiara)

Tuttavia, ogni insegnante sa bene che il tema della didattica per competenze è delicatissimo, e si colloca al centro di una serie di questioni legate alle scelte professionali ed etiche più sentite: la ricerca di un equilibrio fra la trasmissione, indispensabile, dei fondamenti conoscitivi di ciascuna disciplina e l’esigenza di consentire un apprendimento critico e consapevole dei contenuti; la difficoltà di fare dialogare fra loro le diverse discipline in modo non superficiale, stante il quadro organizzativo molto rigido entro il quale ci troviamo ad agire; la forte pressione sociale e politica per una ragionata apertura della scuola al mondo esterno, e in particolare quello del lavoro.

Nella realtà quotidiana del nostro lavoro, esiste una tensione fra conoscenze e competenze. Analizzare gli effetti provocati, su questa tensione, da un insegnamento fortemente orientato all’utilizzo di tecnologie per l’apprendimento è operazione difficile, e richiede tempi lunghi.

Anche le “comunità disciplinari” all’interno della scuola – se posso definirle in questo modo – si interrogano sul sapere che la nostra tradizione culturale ci ha consegnato, per misurarne non solo la credibilità storica, la coerenza interna, i meccanismi sociali di validazione, ma anche dimensioni più ambigue e sfuggenti, sulle quali non a caso esiste un aspro confronto: cosa significa, ad esempio, che un sapere è utile, spendibile, pratico, permanente? Che cosa significano, nella pratica didattica, interdisciplinarità, multidisciplinarità, pluridisciplinarità?

È evidente che a un potenziamento della strumentazione tecnologica a disposizione dei docenti non si accompagnerà automaticamente un chiarimento di queste questioni. Potrebbe anzi accadere l’esatto contrario.

Cacciari pone infine, a conclusione della sua argomentazione, il tema dal rapporto fra la scuola e il lavoro, evidenziando una visione che si muove in direzione molto diversa da quella proposta nella normativa degli ultimi anni; ragiona infatti sulla separazione e sulla distinzione fra i due ambiti, non sul loro avvicinamento e integrazione.

Il tema è stato direttamente evocato in questi ultimi giorni da alcuni interventi che danno da pensare. Luca di Montezemolo, per esempio, auspicando una mobilitazione degli imprenditori per finanziare i processi di tecnologizzazione dell’istruzione, ha affermato che è importante mettere ogni bambino in condizione di “iniziare la competizione della vita dalla stessa linea di partenza”.

Questa fusione di principi costituzionali e ideologia liberista non può che suscitare perplessità, rispetto all’orizzonte etico-politico che la scuola è chiamata a interpretare in quanto luogo di elaborazione di valori civili e di identità personale.

UN CONTRIBUTO AL DIBATTITO

Dai testi sui quali ho lavorato emerge un comune invito alla collaborazione e al dialogo. Lo raccolgo, esprimendo alcuni dubbi.

Il primo è determinato da un’evidente scorciatoia logica: la convinzione che l’urgenza (la “guerra”, in metafora) abbia accelerato processi che si sarebbero comunque attuati (ma, in “pace”, in un tempo molto più lungo).

Mi chiedo se davvero si pensi che una soluzione nata e sviluppatasi in una situazione eccezionale, di impossibilità del normale “fare scuola”, possa diventare l’asse portante di una nuova normalità. Mi sembra, infatti, che la didattica a distanza non abbia risolto i problemi legati al rapporto fra tecnologia ed apprendimento.

Il secondo dubbio riguarda i tempi e la scansione del cambiamento, e il ruolo che ciascuno di noi docenti vi interpreterà. Condividendo l’idea che la scuola tradizionale non sia la migliore possibile, mi chiedo come si pensi di articolare il percorso di trasformazione. Temo infatti che l’esigenza politica di essere veloci possa ostacolare la partecipazione dei docenti ad un processo che invece deve vederli protagonisti.

Il terzo è legato alla specificità del campo verso il quale il rinnovamento della scuola sembra avviato: le tecnologie e le piattaforme per l’apprendimento.

Lo illustro con un esempio, tratto dal vasto campo del pervasivo marketing pubblicitario legato alla scuola: attraverso la campagna “Un click per la Scuola”, Amazon dona una piccola percentuale dei suoi guadagni, ottenendo in cambio il libero accesso ai dati personali di chiunque partecipi, e vedendosi riconosciuto automaticamente il diritto di costruire un profilo dei donatori e dei beneficiari, e di utilizzarlo per l’invio di pubblicità personalizzate.

A questo proposito, considerata l’estrema delicatezza dei beni etici, economici, giuridici in gioco, penso sia importante che la scuola pubblica si preoccupi seriamente di negoziare con le aziende condizioni di utilizzo rispettose dei principi della nostra Costituzione.

So bene che le risposte, a questi e ai mille dubbi delle/ dei docenti, non sono semplici. E non è semplice trovare una via davvero democratica per affrontarli.

Tuttavia, sarà proprio su questo terreno che si misurerà la portata del cambiamento.

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