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Perché leggere “Il cuore non si vede” di Chiara Valerio

 Una mattina, dopo sogni inquieti, Andrea Dileva si era svegliato nel suo letto, senza il cuore.

La sveglia suonava, la luce del giorno cresceva, i muri crepitavano di altri risvegli, su altri piani, sopra e sotto, ma lui e Laura continuavano a tenere gli occhi chiusi. Con le magliette di Harvard e senza mutande, si godevano la nudità sì ma con le spalle coperte dei loro quarant’anni. Non erano mai andati ad Harvard peraltro.  Nonostante entrambi avessero fatto ottimi studi.

Ma tutto questo, come altre mattine, non sarebbe stato detto e nemmeno pensato se Laura, i cui capelli gli solleticavano il naso inducendogli un sorriso, non fosse scattata a sedere con le gambe incrociate, come punta da un insetto. Andrea aveva inclinato la testa per seguire la carne bianca delle cosce correre verso l’oscurità umida e riccia, ondeggiante, che lo riportava ora sugli scogli assolati dove saltava da bambino. E tra i quali si aprivano fessure bordate di alghe e concrezioni oltre cui si sentiva il rumore del mare. In quei pomeriggi di corse avvertiva i compagni meno esperti di stare attenti, perché più di qualcuno ci rimaneva incastrato con tutta la gamba. Gridava apprensivo No, fermatevi, chissà cosa c’è dentro. A distanza di anni sapeva che quando non sai cosa c’è dentro, c’è acqua.

Senza chiederle la ragione dello scatto, aveva allungato la mano, e Laura, con un altro scatto, anzi un salto, era scesa dal letto e si era messa spalle al muro. Ma non come i ragazzi, con aria spavalda, la pianta del piede appoggiata in verticale e l’altra a terra, o le ragazze seduttrici, con le mani incrociate dietro la schiena all’altezza delle reni. Laura si era messa con le spalle al muro rivolgendo i palmi ben aperti alla parete, le braccia spalancate come le zampe di un geco. I gechi le facevano paura, e anche questo gli piaceva di lei. Qualcuno gli aveva raccontato che i gechi, che paiono appiccicati ai soffitti e alle pareti come figurine adesive – quante volte lo aveva fatto sulle porte dei bagni della scuola, anche con quegli adesivi spugnosi, spessi, che regalavano col sapone liquido a metà degli anni Ottanta e che lui spesso rubava, mentre la madre faceva la spesa -, i gechi, insomma, che paiono attaccati, in realtà vibrano velocissimi. Sono le vibrazioni che li tengono accosti come ventose a pareti, angoli e soffitti. Fermi e vibranti, come in effetti pareva Laura. Forse la storia delle vibrazioni era vera. Sul volto di Laura, intanto, uno sguardo sconcertato e interrogativo aveva trasfigurato l’allegria del risveglio, e la confidenza della seminudità aveva sottolineato quanto fosse spaventoso – per quello che aveva rilevato – il peso della testa sul torace. Sul volto di Laura, Andrea leggeva paura. E disappunto. La seminudità è terribile, è impossibile da condividere, ognuno è seminudo a modo proprio.

(C. Valerio, Il cuore non si vede, Torino, Einaudi, 2019, pp. 3-4)

Per la rappresentazione delle relazioni amorose nell’ipercontemporaneità

Il cuore non si vede di Chiara Valerio spinge fin dal titolo ad essere curiosi e, al contempo, increduli: l’invisibilità di un organo vitale induce a chiedersi dove si sia nascosto, il cuore, come sia possibile che non si veda, come possa essere divenuto un organo-fantasma. Perché è proprio questo a generare la reazione spaventata a scomposta di Laura nell’incipit: il fatto che ad Andrea non batta più il cuore e che, nonostante questo dato incontrovertibile attestato perfino dalle lastre che gli verranno fatte, lui continui a vivere. Anzi, a vivere a ad amare, a dividersi tra due donne: la sua compagna Laura, appunto, e Carla, a cui è legato da una relazione tenera e desiderante, ma casta.

Sta in questo nodo di relazioni affettive una possibile chiave di lettura che permetta di interpretare il senso di una storia inverosimile narrata, però, all’insegna del realismo: il mondo che viene descritto è il nostro, senza alcuna possibilità di richiamo al surreale o al fantastico. La rappresentazione che Chiara Valerio riesce a dare del triangolo d’amore al cui vertice sta Andrea è di grande efficacia per la capacità di penetrazione nelle sottili dinamiche interpersonali, tratteggiate non senza ironia.

Dileva è un uomo sensibile e colto, generoso nei sentimenti e attento nel suo porgersi agli altri: diviso tra due donne complementari e insofferenti l’una dell’altra, Laura e Carla finiscono per contenderselo senza più “vederlo”. Sono i piccoli gesti della quotidianità a far sentire Andrea trasparente agli occhi della compagna: il disordine che lei semina nella sua casa, il metodo con cui piega gli asciugamani, diverso da quello che gli è consueto. Uscito per smaltire un moto di insofferenza provato nel vederla alle prese con le salviette da bagno, Andrea riflette sull’insensatezza delle sue attenzioni amorose:

Seduto su un muretto, con le gambe allungate e le caviglie incrociate, alzando e abbassando la testa, voltandola a destra e a sinistra […] si era detto che i disattenti hanno il potere della realtà, occupano lo spazio con la loro disattenzione, impongono la loro presenza con le mancanze, mentre i troppo attenti tendono a scomparire, perché l’attenzione è invisibile e inodore e insapore, l’attenzione rende tutto scontato (p. 29)

Allo stesso modo Carla è troppo concentrata su di sé per chiedersi se Andrea sia felice: appagata da una presenza “a tempo” che accolga anche il figlio Simone, la donna nutre un sentimento non privo di attrazione, ma non si abbandona del tutto per paura di sminuire il loro rapporto a una banale relazione clandestina. Anche questo, dunque, è per Dileva un amore destinato all’incompiutezza: 

Carla lo voleva fino a un certo punto, e lui la voleva da un certo punto in poi. Dunque, per loro due, quel punto era l’unica possibilità. E, solita storia, non c’è bisogno di essere scienziati per sapere che sui punti non si costruisce niente. (p. 54)

Da qui il suo trasformarsi in un uomo “cavo”, portatore di organi-fantasma. In pochi giorni si dileguano cuore, polmoni, fegato. E, nonostante tutto, Andrea continua a vivere: può ancora camminare, ridere, parlare, fare l’amore. Tuttavia l’esistenza non è più la stessa, non tanto per le funzioni vitali in parte ridotte, quanto piuttosto perché il protagonista – e di riflesso le sue donne – si riempiono di domande di senso sulle scelte fatte mentre tornano alla ribalta desideri accantonati:

Certo, forse anche lui stava diventando un fantasma, la ferita sulla coscia non si stava rimarginando e glielo ricordava ogni volta che andava a pisciare, ma la sua mente correva a tutt’altro. A quando avrebbe avuto un figlio, a quando si sarebbe tolto Carla dalla testa, a quando avrebbe visto Cadice per la prima volta […] e poi altri desideri che però, a mano a mano che gli si presentavano, riconosceva come ricordi. […] Desiderava cose già fatte, i ricordi, insieme a cose da fare, le intenzioni. Nemmeno adesso, insomma, pensava alla morte. Pensava solo e soltanto alla vita. (p. 123)

Insomma, Chiara Valerio dà corpo a una rappresentazione delle relazioni amorose realisticamente in linea con il sentire contemporaneo: convinti di avere “le spalle coperte dei loro quarant’anni”, dei loro abiti buoni, delle loro professioni sicure, i personaggi si trovano, viceversa, svuotati dall’incapacità di darsi, una volta per tutte, all’altro.

Per l’accostamento analogico dei blocchi narrativi

Il romanzo, in terza persona, è costruito attraverso il montaggio di blocchi narrativi separati da uno spazio bianco: l’accostamento delle sequenze collega solo apparentemente quello successivo al blocco precedente. Infatti questa “promessa” viene regolarmente smentita nel giro di poche righe: il lettore è infatti costretto di volta in volta a risintonizzarsi sul personaggio al centro della nuova sequenza dal momento che il punto di vista adottato è mobile e ci permette di vedere la vicenda di Andrea  non solo tramite i suoi occhi, ma anche attraverso quelli di Laura, Carla e di una serie di comprimari tratteggiati con maestria (l’amica d’infanzia di Andrea, Angelica, anatomopatologa; Claudio, marito di Carla; Cristina, sorella di Andrea; perfino Roxana, la signora delle pulizie, ritratta con arguta simpatia).

I punti di forza di questa vivace struttura compositiva sono sostanzialmente due: innanzitutto è possibile tenere continuamente allacciati i ragionamenti dei molti personaggi – principali e minori – conferendo a ciascuno una personalità ben definita e un ruolo a suo modo determinante nella vicenda; inoltre risulta originale la gestione delle temporalità attraversate: gli andirivieni temporali risultano connaturati alle loro riflessioni che scaturiscono, per lo più, dalla vicenda dell’organo-fantasma. È il cuore scomparso a generare, paradossalmente, il ricomparire di ricordi, di desideri, di domande: in sostanza è una stranezza corporea a mettere in comunicazione i personaggi con la parte più profonda e meno materica di sé stessi.

Il pregio di questo romanzo sta dunque nel riuscire a mettere a sistema una riflessione sulle capacità – o forse sulle incapacità – relazionali dei nostri tempi mediante una costruzione narrativa in grado di generare un sapiente e rapido movimento che conduce verso una conclusione inaspettata, circolare e opposta rispetto all’incipit.

Per l’invenzione di un mito

La vicenda narrata diviene così, a tutti gli effetti, una sorta di mito contemporaneo che l’autrice aspira ad affiancare a quelli dell’antichità: l’organo fantasma è il suo monstrum, «termine con il quale i latini indicavano ciò che viola l’ordine naturale delle cose», come spiega Dileva a lezione, e Andrea è il suo demone.

È in quei passaggi che il protagonista – docente di greco ed esperto in mitologia –  sembra assumere la torrenziale loquacità di Valerio, la stessa modalità argomentativa, veloce e rabdomantica e pare incarnare, in qualche modo, il suo alter ego. È forse per questo che si possono leggere le spiegazioni del Professor Dileva ai suoi studenti come delle professioni di poetica indiretta che l’autrice dissemina, sottotraccia, nel romanzo:

In principio tutto era semplice e tutto era tre. Gli dei in alto, gli uomini in basso, in mezzo, in senso geografico e temporale, tra cielo e terra, tra l’eternità e il tempo, stavano gli eroi. […] A ogni modo, dove sono il brutto, il cattivo, l’orrendo e il deforme in questi mondi rigidi come i metalli o senza macchia come gli eroi? Dov’è lo strambo? Dove le sirene e i centauri? […] E così accanto al termine dio nasce il termine demone. L’etimologia sembra biforcarsi, dividere o illuminare, ma non si biforca affatto perché chi porta una fiaccola separa la luce dalle ombre, il visibile dall’invisibile. (pp. 35-36)

Per Chiara Valerio il mondo che gli antichi hanno spiegato attraverso miti eziologici e cosmogonici collettivi è dunque rappresentabile, nell’ipercontemporaneità, attraverso una sorta di mito “fisiologico” individuale e soggettivo che sembra indicare la strada verso una possibile forma di eudemonìa.

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