L’agente letterario sì o no?
Gli agenti letterari, nel nostro paese, si sono diffusi con più forza soprattutto a partire dagli anni Novanta e per motivi ben precisi. Prima c’era solo il leggendario Erich Linder, che lavorò per l’Agenzia Letteraria Internazionale fin dal 1950. Non aveva rivali, a parte pochi concorrenti, ed ebbe l’innegabile ruolo di imprimere un’accelerazione negli anni sessanta/settanta, quando «il sistema editoriale stava completando il passaggio definitivo dall’artigianato all’industrialesimo».[1] Per lui, la produzione di libri non faceva parte di un otium disinteressato da sistema gentilizio, quanto di «un negotium, un lavoro produttivo qualificato, da inserire nel mercato librario e da remunerare in misura adeguata ai profitti che l’editore possa ricavare».[2] Una rivoluzione culturale, dunque, e per certi versi una bestemmia, nel tempio umanistico che ha sempre visto il letterato estraneo ai fini di lucro e ha imposto l’ideologia rentier del «vissi d’arte, vissi d’amore» anche alla civiltà urbano-borghese. L’egemonia di Linder era dovuta al fatto di operare, con criteri capitalistici internazionali, in un mercato ridotto ma d’improvviso aperto alle novità come quello italiano del secondo dopoguerra. Già nel ’58 amministrava settemila autori; nel ’79, diecimila. Sul suo tavolo si rovesciava una media di duecento titoli nuovi la settimana, ma i suoi principali clienti resteranno quasi sempre autori stranieri: nel novero degli italiani troviamo nomi come Leonardo Sciascia, Giorgio Bassani, Riccardo Bacchelli, Mario Soldati, Elsa Morante, Alberto Arbasino, Romano Bilenchi. Dunque parliamo di un agente letterario che operava soprattutto per la cosiddetta «editoria di cultura»[3] e per il mercato estero: era difficile, improbabile, che potesse rappresentare un autore esordiente o poco conosciuto in Italia, poiché il suo obiettivo era quello di vendere all’estero i diritti di autori nazionali affermati, mentre il vero scouting consisteva nella ricerca di autori stranieri da proporre sul mercato interno: qui, tutto all’opposto di quanto accadeva con gli autori nazionali, Linder lavorava coi meno conosciuti, visto che quelli affermati li trattava direttamente l’agente straniero con l’editore italiano. Fino ai sessanta le pratiche per l’acquisizione e la traduzione di opere straniere erano in generale lunghissime, macchinose, affidate esclusivamente agli editori – che di solito erano nel contempo proprietari, gestori, e direttori editoriali della casa editrice, tre funzioni oggi per lo più divise – e prive di grosse garanzie, per tutte le parti in rapporto. Poi arriva Linder e il cambiamento ha inizio. Con il portafoglio di autori internazionali che acquisisce man mano, ha la forza contrattuale per condizionare gli equilibri italiani. Arriverà a controllare il 7 % del mercato e perfino a stabilire i ruoli culturali di ciascun editore: la Mondadori per i best seller di grande livello, come Gallimard in Francia; Rizzoli per la letteratura medio-bassa; Adelphi ed Einaudi per le cose più raffinate; Feltrinelli per le pubblicazioni di sinistra. Otteneva il rispetto delle consegne, non sempre gradite, grazie al suo potere, ossia un misto di seduzione e deterrenza, che rendeva il suo ruolo non dissimile da quello che svolge oggi la promozione, e in parte la distribuzione: l’«editore ombra». Il settore, d’altronde, in Italia era costituito da tre o quattro grossi gruppi a conduzione familiare – ovvero compagini assai fragili anche in rapporto alla continuità d’impresa transgenerazionale, vecchio problema dell’imprenditoria italiana – in alcuni casi eredi di imprese economiche più floride, come i Feltrinelli; per il resto, lo popolavano famiglie di librai-stampatori-editori che avevano fatto fortuna con le bancarelle da ambulanti o le tipografie, come da tradizione lunigianese.[4]
Dall’altra parte della barricata non c’erano solo gli editori, ma anche un intero apparato di «letterati editori»[5] che costituiva il nucleo pensante di una trasformazione avvenuta un secolo prima, quando l’intellettuale borghese scoprì l’industria editoriale e vi individuò il mezzo per portare avanti la propria «missione letteraria» e non sfigurare davanti alla dignità del nobile, che col lavoro in generale non si sporcava, figuriamoci con un ripiego. Bisognava vivere di sola scrittura, per essere dei veri scrittori, e nello stesso tempo rinunciare alla «sirena del mercato» che ottunde «la musa dell’ispirazione», secondo la nota espressione crociana. Un bel dilemma. Che venne appunto risolto con un compromesso alla Papini: entrare nell’industria editoriale, magari fondando una casa editrice alternativa a quelle commerciali, sul modello Gallimard, e manovrare da lì.[6] Vittorini, Pavese, Sereni, Calvino, non sono solo i nomi di una stagione irripetibile della ricerca letteraria in Italia, ma anche l’emblema di un modo di «perseguire la missione» con altri mezzi di mantenimento, quelli editoriali. In questo ecosistema esilissimo, fatto di autosfruttamento, diritti mai pagati, autori e traduttori che vivono ai limiti della povertà, come nel romanzo La vita agra di Luciano Bianciardi, o che vivono di altri proventi perché dalle royalties dei propri libri non ricavano nulla, Linder si inserisce con la grazia di un carro armato. Lo scopo è nobile, nobilissimo: proteggere gli autori dalla posizione di potere dell’editore, sopperire alla difficoltà degli editori italiani nel vendere i diritti dei propri autori all’estero e aiutarli nella ricerca di nuovi titoli stranieri da vendere in Italia; garantire all’autore condizioni contrattuali favorevoli dal punto di vista economico e sotto il profilo della carriera letteraria. Il problema è che il potere, in questo modo, non passa dall’editore all’autore, ma dall’editore all’intermediario. Le competenze degli autori in fatto di industria editoriale, d’altra parte, non sono mai state il massimo, allora come oggi, e diventano pressoché inutili quando sei disposto ad accettare qualunque capestro pur di accedere alla pubblicazione presso un catalogo di rilievo. Dunque la rivoluzione, grazie a Erich Linder, riesce solo a metà: gli stessi editori inizieranno a consigliare agli autori di mettersi nelle sue mani per evitare controversie – il che dimostra la natura complementare, non dialettica, dell’agente letterario rispetto alle esigenze del mercato – e nel frattempo il potere decisionale di Erich Linder cresce in modo esponenziale: già nel 1955 coordinerà l’operazione, tra Mondadori ed Einaudi, diretta a scongiurare il tracollo finanziario di quest’ultima.[7] Di qui l’epiteto di «Metternich della letteratura».[8] Nel decennio successivo, raddoppia il numero di famiglie in cui si leggono libri e triplicano le spese per cinema, giornali e periodici. Sono gli anni del “boom economico”, che segna anche per il mercato del libro un incremento del 43,4 % solo dal ‘56 al ‘60.
Nel 1983, alla morte di Linder, la situazione è di nuovo in una fase di passaggio. All’estero è il momento delle multinazionali, che fanno incetta di grandi marchi «pur senza sapere esattamente cosa farne. E anche qui da noi il pericolo acquistava sempre maggiore attendibilità via via che s’infittiva l’avvento, nelle case editrici a conduzione familiare – ora a sconquasso societario – dei manager delle industrie che presumevano di salvarle».[9] Con l’ingresso dei manager nella gestione del conto economico editoriale, le strategie prevedono l’impiego sempre più spinto della pubblicità e quindi l’investimento sicuro sul nome noto e sul tema di successo – oggi, addirittura, propagandano il “quorum di sbarramento” per i soli libri da cinquemila copie in su di fatturato –, producendo così un’immediata contrazione dei margini di ricerca, che viaggiano da allora in avanti sempre più sulle frequenze dell’epigonalità e dell’omologazione. Il sistema editoriale, in quegli anni, è destinato a cambiare radicalmente. Pier Vittorio Tondelli si inventa e dirige la collana “Mouse to mouse” per Bompiani e lavora con Elisabetta Sgarbi alla rivista Panta, ma un progetto come le antologie di esordienti Under 25 riesce a realizzarlo solo con Transeuropa (gratuitamente, se si eccettua il regalo di un paio di Mac dismessi), e siamo nel 1986. Ora, Tondelli era figlio di piccoli commercianti, laureato al Dams, non aveva rendite e non faceva l’insegnante né il giornalista, anche se aveva tentato alcune collaborazioni: rappresenta una figura emblematica, per il suo desiderio di vivere di scrittura e per la sua nozione di impegno non ideologizzato, non diversa da quella di Luciano Bianciardi nei sessanta. Tondelli ha ripreso gli argomenti che di seguito trovate esposti anche in alcune celebri pagine di Camere separate (p. 93 e sgg. dell’edizione tascabile Bompiani), dove il protagonista, lo scrittore esistenzialista/proustiano Leo, si rimproverava per aver ottenuto determinati oggetti di cui si era circondato nel tempo vendendo la sua scrittura, le sue parole, a questa o a quella rivista, a questo o a quell’editore. Vi invito a (ri)leggerlo con attenzione perché riprende e risponde a polemiche cicliche. Potreste infatti divertirvi a incrociare questo brano di Franz Krauspenhaar del 2008 con quanto Tondelli sosteneva, ancora e ancora, al convegno di Ancona “Narratori ’90”:
«Poiché infine cos’ha voluto fare, questa nostra generazione, questo gruppo di narratori degli anni Ottanta? Credo, innanzitutto, che abbia voluto riscoprire la figura dello scrittore puro. Cioè la figura e il ruolo d’una persona che ha scelto di vivere scrivendo e che, in certa misura, vuole persino dar conto di tale scelta nei propri libri. Vivere, scrivere e raccontare. Vivere, scrivere e raccontare non certo ricercando posizioni di potere nei giornali, o all’interno delle accademie, dentro le nostre università… Vi sto parlando di una cosa che tutti voi conoscete. Vi sto parlando di questo scrittore più o meno giovane che innanzitutto sta cercando di mantenersi col proprio lavoro. Ebbene, questa a mio giudizio è una delle cose che ultimamente da più fastidio a una certa critica – gli ultimi del Gruppo 63 e alcuni altri ancora. Una certa critica che dice “dopo di noi il romanzo è morto!”, e alcuni altri che dicono “i veri romanzi del nostro Paese li sta scrivendo il Censis!” e non accettano, e non accetteranno tanto facilmente che dopo un paio di decenni da determinate prese di posizione, ci siano dieci o venti o trenta persone che guarda caso proprio riprendono a scrivere romanzi. Dieci o venti o trenta persone che, guarda caso, hanno anche un pubblico, non solo degli editori disposti a portare avanti il loro lavoro, ma anche un pubblico che li segue e permette loro di vendere dei libri, di provare a vivere di questo mestiere. Quando Sanguineti dice che per lui e i suoi amici del Gruppo 63 sarebbe stato un insulto scrivere anche solo una pagina da cui i produttori di Hollywood o Cinecittà avrebbero potuto trarre lo spunto per un film – con tutto che Sanguineti ha scritto un romanzo bellissimo come “Capriccio italiano” ed è un intellettuale che personalmente stimo… Ce ne sarebbero, voglio dire, di elementi su cui discutere. Questa nostra generazione, nel bene o nel male, persino nell’apparizione d’una certa fatuità, ha avuto il merito di rimettere in gioco l’idea del romanzo – una fra le tante o mille idee di scrittura romanzesca, noi l’abbiamo rimessa in gioco. I generi letterari, per esempio. La ripresa dei generi. Il noir, per esempio. Chandler e altri vecchi e ironici maestri ancora. Ossia ha rimesso in gioco una scrittura romanzesca volta a volta ironica, di citazione, oppure, tramite altri giovani narratori e amici che oggi vedo seduti in questa sala, una scrittura romanzesca d’impianto eminentemente realistico.»[10]
Per concludere, sprovvisto di una rete di protezione economica, politica o religiosa in caso di insuccesso o malattia, così Tondelli raccontava il suo modo di stare a galla nonostante fosse un autore affermato:
«C’è stato un periodo nella mia vita in cui era abbastanza consueto che una mattina prendessi un aereo, partecipassi a una conferenza e me ne tornassi a casa con un po’ di soldi. Lo stress era notevole, ma in caso di difficoltà funzionava. Ultimamente, a dicembre, sono stato a Marsiglia. Ho chiesto cinquecentomila lire per un mio intervento. La signorina che doveva curare l’incontro fra me e gli altri scrittori mi fece capire al telefono che forse non era il caso. Disse proprio questo: “In fondo essere pagati per parlare di se stessi…” Io replicai: “Lei non sa quanto mi costi e quanto poco mi interessi.” Lei disse: ”Proverò.” Il giorno dopo, la responsabile della libreria telefonò, dicendo che mi avrebbe dato il denaro e che comunque non le sembrava giusto negarlo agli scrittori che non l’avevano richiesto. E così tutti si sono trovati con questa somma, anche la coordinatrice. Dovrei fare il sindacalista, no? Penso che sia una forma di ipocrisia, di cattiva coscienza e di maleducazione pretendere un intervento spontaneo da parte di uno scrittore. Quello dello scrittore non è un lavoro che rende. E la miseria, la povertà non sono condizioni feconde per scrivere.»[11]
I problemi sono gli stessi di oggi e soprattutto la possibilità di vivere di scrittura rimane un fatto altrettanto raro e complesso. Ma Tondelli, per quel che qui importa, non aveva un agente letterario. Si è sempre affidato ai consigli del suo primo editor in Feltrinelli, Aldo Tagliaferri, con cui rimase in contatto, anche epistolare, all’incirca dal 1978 al 1989, quindi ben dopo il passaggio da Feltrinelli a Bompiani. Poi, negli anni novanta, anche la distribuzione si adegua al cambiamento industrialista, a partire dalle librerie di catena Feltrinelli, che sostituiscono la competenza del librario alla Romano Montroni con il turn over delle novità imposte dall’alto, secondo criteri economicisti.[12] Per chi, tra gli autori, abbia bisogno di rimpolpare gli esigui e incerti guadagni editoriali è sempre aperta la possibilità di collaborare con gli editori nella veste di direttori/curatori di collana e traduttori, ma questi spazi si vanno riducendo perché i grandi marchi preferiscono appoggiarsi sempre più a figure interne, allevate in house e meglio controllabili. Se insomma la distribuzione si allinea sul sistema della catena di montaggio delle novità, la produzione sviluppa il funzionariato editoriale, che è un tutt’uno con l’esigenza di specializzare le competenze e liberarsi di ogni mancipio intellettuale per guardare al mercato in piena autonomia. Per una forma di bilanciamento naturale – ossia per dare prestigio ai propri cataloghi e pescare nelle riserve abbandonate dai più grossi – le direzioni di collana si moltiplicheranno, invece, presso la piccola editoria di ricerca. Se ci fate caso, la situazione è ancora questa: solo la piccola e media editoria letteraria presenta ancora collane con una direzione, i gruppi editoriali più importanti hanno (ereditato) le collane ma con nessuna figura di prestigio al vertice. Gli autori, invece, si reinventano il più delle volte come maestri di scrittura creativa, conferenzieri, direttori di festival, personaggi tv, oltre a ricoprire le “vecchie”, tipiche mansioni del «letterato editore»: editor, traduttore, lettore di manoscritti, ufficio stampa e commerciale.
Negli ottanta, quando i salotti letterari han perso la loro forza di persuasione (e quindi di intermediazione) nei confronti degli editori – l’ultimo caso noto di cooptazione, in termini emblematici, è quello di Andrea De Carlo – le strade per accedere a una pubblicazione di rilievo sono cresciute di numero, ma anche di complicazioni. In primo luogo, il ruolo e la funzione dei salotti letterari si va spacchettando: da una parte c’è l’apprendistato letterario, che può avvenire grazie ai buoni uffici di un editor, di una rivista di autori, di una scuola di scrittura o di un agente letterario con le relative competenze; e poi c’è l’intermediazione editoriale vera e propria, che consiste nel trovare il contatto giusto per presentare il proprio lavoro a un editore: oggi questa funzione può essere svolta dal sistema sempre più diffuso delle pubbliche relazioni, dove un qualunque addetto ai lavori può rivelarsi il gancio per essere presi in considerazione. Gli spazi di pubblicazione sono amplissimi, al contrario di quanto si dice, rispetto al passato, e se è vero che il livello d’istruzione complessivo ha prodotto una forte concorrenza, il problema, oggi come ieri, non è pubblicare, ma trovare un pubblico. E l’agente letterario, da questo punto di vista, non cambia la sostanza della questione: esattamente come Linder, inizierà a rappresentare un autore solo quando l’autore abbia già trovato un pubblico, altrimenti domanderà un compenso anche solo per leggere il manoscritto – a Milano, intorno ai 490 euro per fare la lettura delle criticità di un libro di duecento pagine, a cui segue un cortesissimo rifiuto. Dunque la “scelta” dell’agente letterario non è mai tale: il più delle volte è possibile solo quando il numero di pubblicazioni, il valore del nome, il venduto dei libri o la vendibilità di una determinata storia o di un determinato genere fanno crescere le quotazioni di un certo autore – anche all’improvviso, come nel caso del proposal de Le otto montagne di Paolo Cognetti, messo all’asta dall’agenzia Malatesta, narra la leggenda, prima ancora che il libro venisse scritto (ma non pensate di poterlo emulare: prima di fare un’asta solo su proposal dovete avere il curriculum di pubblicazioni di Cognetti e la relativa affidabilità di esecuzione). In questo senso, trovare un agente letterario quotato – ossia in possesso di un portafoglio clienti di rispetto, che ne strutturi la forza contrattuale – ha lo stesso grado di difficoltà, per un autore esordiente o emergente, che trovare la via della pubblicazione per un editore di rilievo. Anche perché l’uno, come si è visto, è l’altro nome dell’altro, legati come sono da un rapporto di complementarietà industriale. E nel frattempo, l’autore che fa, come vive? Il più delle volte, si trova un lavoro di ripiego. Insegnante, molto spesso, specie se laureato nel comparto umanistico, oppure giornalista; impiego che nel 2019 come nel 1919 «non risolve la dicotomia artista-puro/lavoratore-intellettuale», ma può soddisfare dal punto di vista economico e soprattutto può ancora «far intravedere la possibilità di recuperare quel ruolo di maître à penser»[13] che l’avvento di una società industrializzata ha fortemente appannato. Qualunque altro lavoro trasformerà invece l’autore, spesso e alla lettera, in un cosiddetto “scrittore della domenica”:[14] scriverà prevalentemente nei ritagli di tempo, e magari manderà i manoscritti alle case editrici durante le festività, quando gli uffici sono chiusi. In questa condizione, quella dell’agente letterario rappresenta l’ultima delle preoccupazioni.
Se invece l’autore ha già pubblicato, sta pubblicando, comincia ad avere un pubblico, è utile o no trovarsi un agente? Io direi che è utile se l’autore ha bisogno di soldi (ma non è disperato, i disperati non vengono presi in considerazione per statuto) o intende sfidare la lotteria del successo con qualche numero. O più semplicemente se l’autore, per cultura, per genere letterario, per ambizione, fa propria un’ottica mercantinzia o semi-imprenditoriale del suo lavoro (nessun imprenditore serio potrà mai occuparsi di editoria letteraria, sia chiaro, né si potrà mai considerare l’arte un lavoro, visto che è un lusso da privilegiati). In tutti gli altri casi, meglio proseguire come si è fatto fin lì. Anche perché l’agente letterario, in generale e salvo eccezioni, persegue un interesse economico e dunque cercherà di ottenere dall’editore sempre il massimo possibile per ritagliarsi la propria percentuale – di solito, intorno al 20 % – ciò che può mettere in seria difficoltà l’autore, al giro successivo, nel caso il venduto non abbia rispettato le profezie di autoavveramento dell’agente. Sempre più raro, infatti, e proprio a causa della specializzazione del mercato, è trovare agenti che abbiano le competenze o la sensibilità intellettuale (la prudenza?) per accompagnare l’autore non solo o non tanto all’acquisizione del contratto più profittevole, ma soprattutto nel pensare i libri e nello scegliere l’editore più adatto quando si apre la possibilità di una carriera.
Note al testo
1. Vittorio Spinazzola, “Erich Linder. Un intellettuale di tipo nuovo” in L’agente letterario da Erich Linder a oggi, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2004, p. 17.
2. Ibidem.
3. L’«editoria di cultura» appartiene a una stagione ormai pressoché tramontata, che risale all’epoca della militanza politica, religiosa o del mecenatismo. L’editoria di cultura è un’editoria che vive del «lavoro benevolo» del militante oppure del sostegno di un «committente illuminato e munifico». Ciò che gli sopravvive è la cosiddetta «editoria letteraria» (seguo Gian Carlo Ferretti e la sua Storia dell’editoria letteraria in Italia dal 1945 agli anni duemila). L’editoria letteraria fa ricerca, continua a fare ricerca, per certi versi è quasi favorita nella ricerca dal fatto che l’editoria generalista o commerciale non la fa più o la fa sempre meno, ma ha comunque il problema di doversi confrontare col mercato. Con la follia di un mercato costituito ormai quasi al 60 % da catene librarie che appartengono alla grande distribuzione organizzata (GDO), mentre le librerie indipendenti calano di numero o perdono quote di mercato ogni anno. Per fare un esempio: qualche tempo fa Feltrinelli ha lanciato un nuovo, rivoluzionario franchising, il Feltrinelli Point, con lo scopo di consolidare e accrescere le posizioni ma anche di resistere sul territorio allo strapotere di Amazon, l’altro grosso corno del mercato librario: con un fee d’ingresso molto contenuto, 20.000 euro, un libraio indipendente in difficoltà poteva trasformare la sua libreria storica in un Feltrinelli Point ben attrezzato, che con 150 mq di superficie avrebbe garantito un minimo di 500.000 euro di fatturato lordo all’anno, ovvero all’incirca 150.000 euro di incassi. Nel frattempo, Amazon ha continuato a crescere tanto da proporsi ormai come un editore, un promotore e un distributore alternativo all’intero sistema tradizionale, che quest’anno ha segnato il 3,8 % in più proprio grazie ai fatturati di quel colosso: un incremento, solo nel comparto librario, del 200 % l’anno scorso, del 40 % quest’anno).
4. Barion, Fogola, Galleri, Ghelfi, Giovannacci, Maucci, Lazzarelli, Tarantola: questi erano i nomi delle principali famiglie di editori e di librai che si diffusero in Italia, tra otto e novecento, lavorando a stretto contatto con Bietti, Rizzoli, Garzanti, Mondadori, Hoepli, Dall’Oglio-Corbaccio, Lucchi e Salani. Nel 1471, a Fivizzano, in Lunigiana, nasce una delle prime tipografie a caratteri mobili in Italia, a quindici anni dalla prima edizione della Bibbia di Gutenberg. Jacopo da Fivizzano, prima da solo e poi coi figli Alessandro e Battista, nel giro di tre anni mette alle stampe, tra le altre, le Bucoliche, le Georgiche e l’Eneide di Virgilio, il Catone maggiore di Cicerone, le Satire di Giovenale, la Congiura di Catilina di Sallustio. Da un paese di settecento persone con ottantasei laureati, prende il via la più incredibile mutazione antropologica che sia mai stata raccontata: da contadini a venditori di pietre, da venditori di pietre ad ambulanti e poi contrabbandieri di libri; nell’arco di due secoli, nella vicina Pontremoli si sviluppa un’emigrazione coordinata che farà dei paesi di Montereggio, Parana e Mulazzo il cuore di un contagio libresco senza precedenti. Come fece, un’intera generazione di contadini senza istruzione, a trasformare il libro in un oggetto di culto anche tra larghi strati di una popolazione che non sapeva leggere né scrivere, potrebbe essere il tema di un libro a sé.
5. Seguo la definizione di Alberto Cadioli e del suo Letterati editori. Attività editoriale e modelli letterari nel Novecento, il Saggiatore, n.e. 2017
6. «Secondo alcune indagini, il 70 % degli intellettuali italiani nati tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX esercitava la professione di insegnante, il 20 % viveva di rendita, il 10 % era in una certa misura inserito nella produzione editoriale. […] Sarebbe interessante raccogliere tutte le dichiarazioni di avversione alla carriera scolastica dei letterati italiani del primo Novecento, che implicitamente rivelano l’aspirazione a un altro lavoro. […] Un lungo articolo di Benedetto Croce sulla scelta di lavoro dei neolaureati (“I laureati al bivio”) ripropone, sulla Voce del 4 febbraio 1909, l’interrogativo “scuola o giornalismo?” […] La posizione di Croce presuppone un intellettuale “separato” dai problemi di quella realtà quotidiana a cui si rivolge in toto il giornalista: “Il contatto troppo diretto con gli interessi degli uomini e con la lotta della vita attutisce la virtù contemplativa e riflessiva,” scrive infatti Croce, nello stesso articolo. […] Ed è tuttavia di Borgese il giudizio: “Il giornalismo è infamante, il professore ridicolo.”» Alberto Cadioli, op. cit., pp. 56-59. ↑
7. Prima Giulio Einaudi cede le edizioni scientifiche e la “collana viola” al suo redattore Paolo Boringhieri, e poi stipula con Arnoldo Mondadori, sostenuto da altri finanziatori, un accordo per cedergli buona parte del proprio catalogo in edizione economica Mondadori e Saggiatore: operazione che non solo consacra Linder nel suo ruolo di influente «matchmaker», secondo la definizione di Inge Feltrinelli, ma che anticipa il destino della casa editrice torinese e produrrà il seme dei futuri Oscar Mondadori, probabilmente l’operazione commerciale più importante della moderna editoria italiana.
8. Per esperienza personale, cinquant’anni più tardi, posso testimoniare che l’alleanza o l’amicizia tra un editore e un agente può fare la fortuna di entrambi, come nel caso di Gianluca Foglia e Roberto Santachiara, ma anche compromettere, ostacolare o semplicemente ritardare la divulgazione di un’opera, come Nicola Crocetti con Luigi Bernabт e l’eredità di Anne Sexton.
9. Oreste del Buono, L’agente letterario da Erich Linder a oggi, p. 41.
10. Tratto da Pier Vittorio Tondelli. Un ritratto a memoria, Andrea Demarchi, Cattedrale, 2007, p. 14 e sgg.)
11. Tratto da “Un momento della scrittura” in L’abbandono, Bompiani, 1993. Il brano “Un momento della scrittura”, comparso postumo nel libro L’abbandono, è stato datato dall’autore 1988, ovvero è coevo alla stesura di Camere separate (pubblicato nel 1989).
12. Dunque l’iperproduzione è uno dei problemi con cui l’editoria comincia a fare i conti, a partire dagli anni novanta. La causa di questa iperproduzione non sta tanto (o non sta solo) nella presenza di moltissimi scriventi – d’altra parte questa è l’epoca dell’università e della comunicazione di massa – quanto nella struttura dei modi della distribuzione, su cui si plasmano anche i modi della produzione: «L’industria del libro non è un’industria, è un anti-industria» ricorda lo stesso Linder, in un articolo apparso su “Pubblico 1981”. «Ogni industria che meriti questo nome indirizza i propri sforzi a produrre il minor numero possibile di prodotti, nel maggior numero possibile di esemplari di ogni singolo prodotto. L’industria editoriale fa l’esatto contrario: il massimo numero di prodotti, con una produzione unitaria minima.» Questo impianto rischiosissimo anche in termini di “individuazione del consumatore” e quindi di previsione del risultato, ovviamente, con l’aumentare della produzione paga in termini di qualità: il prodotto dovrà omologarsi secondo lo standard del più vendibile, che corrisponde alla sequela del più venduto. La GDO, da questo punto di vista, chiede all’editore di produrre il libro che vende di più, che ha “funzionato” meglio, determinando un’omologazione epigonale della produzione. «Gli editori non scelgono più i bei libri sperando che vendano, ma i libri che vendono sperando che siano belli» recita il Manifesto TQ sull’editoria. Se poi si pensa che nel nostro paese i maggiori gruppi distributivi e i maggiori gruppi editoriali spesse volte coincidono, costituendo un oligopolio di concentrazioni verticali (proprietà delle reti distributive) e orizzontali (proprietà dei marchi storici) che rappresenta il 91 % dell’offerta libraria, si comprende come mai lo spazio per la produzione indipendente, per la produzione non omologata, per la produzione di ricerca, così come quello delle librerie indipendenti, sia ormai ridotto a numeri da riserva indiana e minacciato da ogni lato. ↑
13. Alberto Cadioli, op. cit., p. 58.
14. Anche Carver lo era; solo, non ha incontrato un agente letterario ma un editor, Gordon Lish, che ha fatto la sua fortuna.
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