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diretto da Romano Luperini

Franco Fortini, Un discorso di Nenni

 La casa editrice Quodlibet ha ripubblicato Dieci inverni di Franco Fortini. Ne offriamo ai nostri lettori un estratto, accompagnato da una nota del curatore Sabatino Peluso, scritta per il nostro blog. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

«Non esistono che diari pubblici». Così annotava Franco Fortini, nel 1954, inaugurando le sue Cronache della vita breve su «Nuovi Argomenti», spazio dove vide la luce per la prima volta e nello stesso anno Un discorso di Nenni. Pagine, queste, in cui le domande che si agitavano al fondo della biografia politica e intellettuale di Fortini si confrontano direttamente con la generale condizione di impotenza degli intellettuali di fronte alla guerra fredda, e ne immaginano una via d’uscita in nuove forme di partecipazione. Ed è proprio la consapevolezza del doppio volto di scritti come questo, e dunque della loro importantissima funzione di testimonianza privata e insieme di documento pubblico, a rendere Dieci inverni – prima raccolta di saggi di Fortini – una delle rappresentazioni più fedeli ed essenziali del contributo dato da un poeta e critico marxista al socialismo italiano negli anni ’47-’57.

Pubblicato per la prima volta nel 1957 da Feltrinelli, poi ristampato da De Donato nel 1973 e oggi riproposto da Quodlibet dopo anni di circolazione quasi clandestina, Dieci inverni torna a mostrare, attraverso l’esemplarità del suo metodo critico, le possibili forme di un discorso per l’avvenire. Tra fulminanti e pionieristiche analisi sull’industria culturale e sulla funzione della critica, accanto a pagine di rigoroso e affilato smontaggio degli errori politici compiuti in Italia dalla cultura ufficiale in nome dello stalinismo o degli ideali progressisti, in Dieci inverni Fortini convoglia tutto il suo «odio del presente» e lo traduce – lezione valida ancora per oggi – nella strada per immaginare la speranza.

Sabatino Peluso

Un discorso di Nenni

Qualche mese fa, ero con alcuni amici a Bologna, un pomeriggio di domenica. Intorno a noi scendeva una sera piena di voci e di folla, il «serale animamento» di cui discorre Campana, proprio a proposito di Bologna. I due amici discutevano di filosofia, di marxismo, con puntiglioso accanimento. Io li ascoltavo, ma solo di rado mettevo qualche parola, perché quando i miei amici filosofi discorrono in linguaggio tecnico, mi vergogno della mia scarsa dimestichezza con quel linguaggio e non valgono le loro affettuose proteste con le quali vogliono assicurarmi che esso non ha nessun particolare valore ed è semplice convenzione, sì che esiste una traducibilità di un linguaggio nell’altro, entro certi limiti almeno, e, in questo caso, del mio nel loro. Ero stanco, per di più. E poi mi piaceva ascoltare quella energia dialettica e quella capacità di mantenersi sul filo d’una sequenza logica. Non ho mai avuta simpatia per i silenzi sornioni, di chi giudica le dispute letterarie o filosofiche vanità giovanili e fatue perdite di tempo; e poi torna a casa e, nella facile superiorità della solitudine, giudica gli altri o conforta se stesso.

La discussione verteva, mi pare, sulla finale identità di storia umana e di storia naturale nel pensiero di Marx; e procedeva intorno all’esegesi storica dei passi marxisti sull’argomento. «I nostri comunisti – diceva uno dei due amici – sembrano persuasi che il rapporto tra strutture e sovrastrutture, e cioè la determinazione di queste ad opera di quelle, sia una costante; mentre, nel pensiero di Marx, il vero fine della rivoluzione è il rovesciamento del rapporto. Da una certa fase in poi sarà l’ideologia, cioè la scienza, l’etica, il pensiero insomma, a determinare la struttura economica». E l’altro citava i Manoscritti, l’Empiriocriticismo, Engels. «Troppe altre cose, continuava il primo, ci siamo dimenticati, che sono parte integrante del pensiero di Marx: l’abolizione dell’economia di scambio e della moneta, la fine della divisione del lavoro, dello stato…». E l’altro a spiegare il come e il perché e quanto di Rousseau o di Schelling fosse passato in Marx, attraverso Hegel; e il primo a mettere in evidenza i motivi della trasformazione subìta da quei pensieri nel corso della lotta rivoluzionaria…

Finché mi parve, come tante altre volte d’altronde, che non si discutesse affatto del fondamento scientifico o filosofico di quella o questa tesi marxista; ma solo della sua origine storica. Accennai alla diffidenza che provavo per quel tipo di discussione. Una rozza diffidenza prefilosofica. E invece, secondo i miei amici, l’accertamento filologico-storico sul come si siano formate quelle formulazioni marxista e sul come siano state, nei tempi, interpretate, è tutto; «e se tu ci chiedi – replicavano insieme – che cosa si debba, in concreto, fare, ti rispondiamo che il nostro compito non è quello di accertare la fondatezza dell’ipotesi sulla divisione del lavoro, ma bensì di chiarire con la maggior precisione possibile che cosa il pensiero marxista abbia voluto intendere con quella sua formula. Questa fatica filologico-interpretativa è, implicitamente, un’azione, perché significa riproporre certi temi al pensiero comunista contemporaneo, costringerlo a prender posizione. È la forma di contributo al socialismo che può venire da uno specialista, studioso di filosofia e di storia».

«Ma, (andavo ripetendo con l’insistenza sciocca di chi vorrebbe aver tutto e subito risolto, sì da poter poi pensar ad altro) ma se noi possiamo rischiare i dubbi e le indagini e questa astratta fiducia nell’utilità finale del pensiero pensato e delle verità comunque pronunciate, tutti coloro, infiniti, che si fidano della nostra competenza “tecnica”, noi non dobbiamo ingannarli. Noi dobbiamo sapere se la fine dello Stato e il superamento della distinzione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, dell’economia di scambio e della inumanità attuale della produzione è da considerarsi un mito strumentale o una reale possibilità. Voi credete d’aver ottenuto gran cosa quando, con un cenno sdegnoso della mano, respingete i filosofi del “sempre uguale”, e gli pseudo-religiosi del peccato originale. Ma di quelli che (con una locuzione che avrebbe mandato in bestia Marx) i giornali comunisti chiamano gli uomini semplici e che io direi gli uomini meno invasi dalla boria dei dotti, e sofferenti dell’angoscia crescente, della mal sicurezza, dell’assassinio lento cui li sottopone, ogni giorno di più, la società della seconda rivoluzione industriale, vogliono saper se quelle promesse sono interamente illusorie, per ordinare e regolare la loro unica vita d’oggi, la sola che hanno. Sappiamo che non è vero che la necessità li spinga, la necessità del bisogno; sappiamo che v’è sempre un margine fra la pressione della necessità e l’agire; ossia che la spontaneità è illusoria. In quel margine discorriamo noi, con le nostre parole. Dire agli altri: combattete, combattiamo perché questo e quest’altro sia possibile, perché i fini supremi non sono illusione ma possibilità, è pur cosa diversa dal dire: combattete per questo o quel fine, ma sappiate che non c’è fine supremo e non è vero che si debba ancora passare dalla preistoria alla storia».

Così parlando, era venuto buio in terra e intorno a noi si faceva più fitta la folla. Tra gli alberi di un parco s’accendevano le luci della festa dell’«Avanti» e illuminavano le bandiere, i grandi pannelli dove disegni e scritte raccontavano la storia del Partito socialista italiano. Veniva l’odore dei brigidini e delle sfogliate, la gente comprava pagnotte imbottite di salame, radio e fisarmoniche suonavano, famiglie intere con rossi berretti di carta in capo merendavano sui prati, tra la folla riconoscevi quegli eterni vecchi socialisti delle nostre campagne, venuti dal Modenese, dal Reggiano o dalla Romagna o dalle sezioni cittadine, col distintivo o il garofano all’occhiello e la bandiera della sezione sottobraccio, svitata in due parti l’asta di metallo cromato. E su tutto, dagli altoparlanti nascosti fra le frasche irrigidite dai fari elettrici, si abbatteva la voce enorme e rauca di Nenni. In quella voce persuasiva e densa, che recava, ma senza alcuna volgarità, gli accenti stessi del socialismo-passione, in quello ch’esso ha di più elementare e di più indomabile, si poteva sentire, con l’eco della antica ansia di giustizia egualitaria, l’ansia nuova, segreta e preveggente, per la spietata realtà militare del conflitto, per le forme nuove e imprevedute assunte dalla lotta delle classi. Il fiato di Nenni ansava negli altoparlanti e vi crosciava dentro – quando evocava le stragi della Wehrmacht, l’arbitrio governativo, la connivenza con la corruzione – l’applauso della folla adunata. Pure, dove noi eravamo, se taluni ascoltavano immobili, i più si muovevano, passeggiando, mangiando, bevevano, porgendo un orecchio ora all’orchestrina e alla fisarmonica ora alla voce di Nenni, dalle inflessioni familiari, come, senza bisogno di seguirne ogni volta il senso ma ogni volta ripetendosene il significato complessivo di comprensione e d’ammonimento, si ascolta la parola del parroco o quella del vecchio padre. Come quella, infinite altre sere di domenica dovevano esser passate, mi sembrava, per quella gente, a sentir ripetere le parole di giustizia, speranza e lotta: ed erano state, anche, lotta e paura e uccisione. Ora, dopo l’ultimo applauso, avrebbero invaso i viali, i tram, i caffè della città, incrociando senza nemmeno avvedersene i gruppi sempre più sparuti delle vecchie donne che escono dalla novena. Quella medesima mattina avevo osservato Nenni mentre parlava, quel suo collo cotto e tutto quadrettato di rughe come l’hanno certi animali tenaci. Avevo ascoltato quel suo modo di parlare, capace di concedere una vibrazione autentica anche alla frase più prudente e consumata; e anzi, come già altre volte, m’era parso che quell’uomo dovesse sempre compiere uno sforzo su se stesso per ricordarsi d’essere un politico cui non è permesso abbandonarsi alla passione o all’immediatezza, e m’era sembrato d’avvertire, insieme ad una quasi impercettibile vena di distacco non inquinata mai di cinismo, la sua melanconia, che è di saggezza, di fedeltà a chi fedeltà ti chiede, di quel primo irrepetibile momento del socialismo premarxista che è la nascita a coscienza ed uguaglianza di chi è stato fatto vivere nell’incoscienza e nella diseguaglianza, ed era come se la voce di Nenni nelle concitate interrogazioni che il vento della sera faceva echeggiare fra gli alberi, volesse proteggere quell’indefinibile bene che è il socialismo degli italiani, quello che anch’io pur avevo tante volte bestemmiato, per la sua debolezza e pigrizia, e per il suo conforto di provincia; proteggerlo, o portarlo incolume, dalla forza degli strumenti di sopraffazione che i cervelli elettronici, i grandi piani industriali, le forme estreme del mondo moderno elaborano nelle lontane capitali, in linguaggi indecifrabili. Che cosa avevamo a che fare, noi, e le nostre discussioni sui Manoscritti economico-filosofici o su Lukács, con le sezioni socialiste, dove il ritratto di Matteotti è come uno stravolto cristo di rimorso nella luce fioca e i vecchi ripetono parole monotone davanti al corto bicchiere di vino, e anche i ritratti dei giovani che dieci anni fa furono uccisi per un fazzoletto rosso non somigliano più a quanto rimane in noi di speranza e di coraggio? Le avevamo abbandonate quelle sezioni; o non c’eravamo mai andati.

Comunisti o socialisti o «intellettuali di sinistra» che fossimo; troppo pieni di disprezzo verso coloro che, negli anni della prima legislatura democristiana, negli anni neri fra il ’48 e il ’51, avevano ceduto all’anticomunismo, per non guardare con qualche orgoglio gli eventi presenti che ci danno, poco a poco, ragione; ma decisi a non cedere nulla della difficile attitudine critica guadagnata proprio in quegli anni – per noi, come dice un nostro amico, il peggior rischio è quello di trasformare la contraddizione obiettiva in tragedia personale. «Osservatori marxisti»… ma che senso ha questo vagabondare tra un comizio di Nenni e una festa dell’«Unità» o dell’«Avanti»? I semplicisti che abbondano, come dovunque, anche dalla nostra parte, ci diranno che ci è necessario il «contatto con la vita operaia», la «partecipazione»…

«Che cosa diremo allora, anche indirettamente, anche nei nostri difficili discorsi, a questa gente – a quell’ometto laggiù, a quella ragazza, a quel vecchio? Se ci chiedessero – e ce lo chiedono infatti – per che cosa debbono vivere, sapremmo noi che cosa rispondere? E a chi dovesse morire questa sera, sapremmo noi che cosa dire, o di quali pensieri caricare il nostro silenzio? E, nelle nostre giornate, ce lo chiediamo veramente noi stessi? Potremmo dire di non averne più bisogno se il nostro agire, il nostro lavoro, realmente addentassero la cronaca o la storia; potremmo allora avere le spalle coperte come ha lo studioso sovietico o inglese o americano, una società, una classe dove integrarsi, per la quale immediatamente lavorare. E rifiutiamoci pure, se ne abbiamo forza, a far di questa nostra situazione una tragedia personale: ma sarà allora una commedia; o una farsa. Amici cari, vorrei avere, come voi avete, la forza di fingermela quella integrazione; vorrei, come voi dite d’aver fatto, aver bevuto altra volta fino in fondo il liquore del nulla esistenziale per ridestamene poi “come un forte inebbriato”. E invece sono mie queste intermittenze, mie ma anche della maggior parte degli uomini che ci camminano accanto…».

Queste domande, per vergogna ormai, non le ponevo ai miei amici. Ma anch’essi tacevano. La grande riunione sfollava il parco, la festa si chiudeva; era davvero una sera di domenica. Udivo un canto di Bandiera rossa e in quello un verso che m’è sempre parso riassumere tutta una ingenua ma vittoriosa fiducia: Noi siamo in tanti. Infatti, la gente che ci passava accanto ci credeva loro eguali. Noi non curavamo più di volerlo parere o essere. Ma la forza dell’angolo di terra e di storia dove ci è sortito vivere è più grande di noi e si dimostra nella impossibilità di ridurci veramente stranieri. Eguali di questo popolo malnoto, in questa speranza ostinata che neppur osa spiegarsi intera, noi, anche più di quanto ci sia dato sapere, lo siamo. Ma questa comunanza o identità di destino appare solo se veduta di lontano; in realtà, per noi, la lacerazione e la contraddizione rimangono. Né il socialismo né il comunismo possono far altro che aiutare a viverla intera. Aiutare a quella risoluzione obiettiva della tensione e della differenza che né l’astratta passione intellettuale né le presenti forme di impegno politico sono capaci di dare. Forse il distacco reale, e cioè senza rimpianto, è la vera condizione d’una partecipazione possibile.

(1954)

(Franco Fortini, Dieci inverni. 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, a cura di Sabatino Peluso, con un saggio di Matteo Marchesini, Quodlibet, Macerata 2018, pp. 229-34).

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