Gioia e indignazione nell’ ultimo Zanzotto: il progresso è scorsoio, la Lega una peste
Prima di morire, Andrea Zanzotto condusse due battaglie indignate: contro la distruzione del paesaggio (il “progresso scorsoio”) e contro l’egemonia dilagante della Lega (“una peste” o “uno spettro”).
Per capire l’agonismo politico-culturale terminale di uno dei maggiori poeti del Novecento non si può rifarsi a nozioni liquidatorie (la nostalgia, il ‘passatismo’). Vanno viceversa verificati gli specifici strumenti passionali e linguistici con cui egli interrogava attivamente, fino alla fine, la società e i luoghi:
«La mia non è una battaglia antimoderna ma un fatto di identità e civiltà. La marcia di autodistruzione del nostro favoloso mondo veneto ricco di arte e di memorie è arrivata ad alterare la consistenza stessa della terra che ci sta sotto i piedi. I boschi, i cieli, la campagna sono stati la mia ispirazione poetica fin dall’infanzia. Ne ho sempre ricevuto una forza di bellezza e tranquillità. Ecco perché la distruzione del paesaggio è per me un lutto terribile. Bisogna indignarsi e fermare lo scempio che vede ogni area verde rimasta come un’area da edificare»
Da quella bellezza Zanzotto desume, per controspinta, l’indignazione contro la cecità totale della politica e dell’economia. Egli sa benissimo che il leghismo nel suo Veneto trae consenso dal culto del territorio e del dialetto, ma sa anche che questo culto è praticato dalla politica in modo falso e spettrale: si nutre di un mondo perduto per distruggerlo e dimenticarlo ancora più barbaramente, per liquidarlo e tradirlo negli slogan grossolani del “fare”, nell’ignoranza più becera e esibita. Sa inoltre che l’ideologia leghista e l’azione di distruzione del territorio sono entrambe vittoriose, ma sa anche che si possono contrastare con l’energia poetica e umana che il territorio stesso sprigiona. Si possono leggere in questa prospettiva gli scritti zanzottiani sul paesaggio, riuniti in Luoghi e paesaggi (a cura di Matteo Giancotti, Bompiani, 2013), perché si prestano a essere attualizzati e valorizzati didatticamente e politicamente, non solo in senso “ecocritico”, come ha scritto di recente Niccolò Scaffai:intendendo (controcorrente) tensione civile e lavoro didattico come virtuosamente alleati. Si tratta di “fantasie di avvicinamento al paesaggio”, dedicate a un raggio spaziale che va dalle Dolomiti ai Colli Euganei fino alle Lagune, che mostrano splendidamente il prezzo di quella doppia distruzione e smemoratezza. Zanzotto è, come è noto, per eccellenza “poeta del paesaggio”: Dietro il paesaggio è il titolo della sua prima raccolta, recensita con entusiasmo da Ungaretti; un verso della Beltà recita sornionamente “ho paesaggito molto”. I suoi boschi, palù, zefiri, mestieretti, anguane, topinambur, fosfeni, galatei, idiomi comportano una geografia di spaventosa precisione: partendo dallo spazio limitato di Quartier di Piave a Pieve di Soligo, egli può pensare in versi solo spostandosi di pochi chilometri, fin all’orlo delle colline asolane o euganee e alle lagune.
I saggi sul paesaggio vanno inoltre messi in relazione con i saggi critici di Fantasie di avvicinamento. Anche le prose sui luoghi, come le prose critiche su Leopardi, Hölderlin, Ungaretti o Pasolini sono definibili come “prospezioni”, termine geologico utilizzato dallo stesso autore per alludere alle proprie indagini telluriche svolte per continue approssimazioni stratigrafiche al proprio oggetto. Nelle prose sul paesaggio Zanzotto mantiene la propria fedeltà soggettiva ai luoghi, ma li rappresenta con modalità che presuppongono un respiro collettivo e utopico: in questi saggi, scritti in tempi di imperante messa a valore del saccheggio territoriale, il pieno supera insomma il vuoto e vi sono più appigli che baratri.
In particolare, emergono in tutti questi brevi testi due nodi o due comuni denominatori utopici e gioiosi:
- Il sostrato pittorico della percezione dei luoghi. Lo scritto su Cima da Conegliano del ’62 rivela anche come “al punto terminale” della percezione zanzottiana del paesaggio vi sia “l’esperienza appartata del padre Giovanni”, incisore e pittore antifascista, che il regime esiliò a S. Stefano di Cadore e che ammirava Cima. E rivela la sintonia della moderna riflessione di Zanzotto (come accade anche in Paolo Volponi) con il rinascimento pittorico e utopico: epoca della “emersione rinascimentale del paesaggio” nella sua variante veneta che dà luogo alla promessa della concordia e dell’armonia uomo-natura. Nelle pitture di Cima da Conegliano Zanzotto rivela “cori di legni e erbe e nubi e acque”, “animali finalmente consci della loro novità”, “uomini e donne che sorgono beati” nel segno della totalità, della non-scissione.
- Il rapporto corporeo e amoroso con il paesaggio. La riflessione sulla percezione corporea dà luogo a una sorta di decalogo: Zanzotto dice in sostanza (con una serie di termini-chiave, neologismi o dialettali) come si deve fare per rapportarsi al paesaggio veneto: “bisogna stare sui Colli o sulle Lagune e da lì glissare in tutte le direzioni del cosmo” (p. 79); bisogna ascoltare l’irrompere-emergere del paesaggio fin dall’infanzia come virtù biologale (p. 32); bisogna intivarghe, che in dialetto vuol dire “entrare nella sagoma del reale”: per interagire col paesaggio non si può procedere in linea retta come fanno cecamente i progettisti e gli urbanisti, ma piuttosto occorre interagire con il moto millenario della Natura, interrarsi “tra selva e giardino”come fa l’amico Nino, guaritore e saggio anarchico inviscerato nel mondo contadino in dissoluzione.
Esemplari i due scritti su Venezia: l’approccio di Zanzotto alla città lagunare è tale da demistificarne l’immagine-cartolina, turistica. Venezia in questi scritti è abbagliante, imprendibile, cinematografica prima del cinema per la sua immagine acquea, ingannevole, onirica. Come Carlino nelle Confessioni di Nievo (o come il suo maestro Diego Valeri) Zanzotto arriva a Venezia dalla laguna, come un viaggiatore che navighi su un isolotto galleggiante, fondendosi con alghe, giunchi e canne. Si sofferma sui milioni di pali sepolti nel fango e si identifica con l’uccello marino che porta un fuscello nel becco. In tal modo il suo auspicato incontro fra natura e civiltà diviene una modalità poetica della gioia. Nonostante la derealizzazione turistica e la mutazione ecologica, le conclusioni di Zanzotto sono utopiche: “Vivono le grandi barene: la vicenda umana non è terminata”. Da questa serbatoio territoriale di gioia poetica l’ultimo Zanzotto trae dunque la forza politica dell’indignazione: lo stile di pensiero che accomuna queste prose, è la “riaffermazione delle ragioni della speranza”. Viene in mente una nota scritta per i suoi ottantacinque anni, pubblicata sull’ “Immaginazione” in cui egli dichiarava come dopo i campi di sterminio fosse subentrato lo “sterminio dei campi” e come la poesia fosse “una piccola fata che si sposta dalle vite private al megatempo” per avvicinarsi alla natura e “avvertirne gli allarmi”.
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