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La sonda e lo specchio: le identità plurali nella scrittura di Mauro Covacich

 Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre. 

Lo scorso 8 giugno a Trieste è stato conferito a Mauro Covacich il Premio Tomizza. Con alcune varianti questa è la prolusione dedicata alla parabola letteraria dell’autore triestino.

È possibile eleggere a metafora della narrativa di Mauro Covacich quella, ben nota a chi conosce i suoi romanzi, del maratoneta ossia dell’atleta che sceglie la faticosa resistenza sulla lunga distanza:

La maratona è un’arte marziale. Chi la corre compie una scelta estetica, non una sportiva. Lo sport non c’entra niente. Vorrei dire: Resistere alla più alta velocità possibile per una strada così lunga è la cosa più bella che una mente umana possa produrre. La mente non è il cervello, la mente è il sistema del corpo che pensa. (M. Covacich, A perdifiato, Milano, La nave di Teseo, 2018, p. 32)

La sua produzione, difatti, conta una quindicina di titoli e occupa un arco cronologico ininterrotto che, dall’anno dell’esordio avvenuto nel 1993, ha visto l’autore confrontarsi con generi letterari sempre differenti e con temi difformi. Covacich è, dunque, uno scrittore perseverante, assiduo ma certo non seriale e mai incline ad assecondare le mode editoriali o le tendenze del mercato.

Viceversa la sua attività letteraria è quella del maratoneta che saggia generi diversi e si mette alla prova su percorsi, distanze, tempi di percorrenza differenti: le scritture del personal essay, del racconto, del romanzo, del reportage, del memoir e, sconfinando nella body art, l’esperienza performativa della videoistallazione. Oltre allo sperimentalismo formale, Covacich affronta nella sua scrittura vari temi che, a ben guardare, si dispongono attorno a due polarità legate a un’indagine sull’individuo e sul suo rapporto agonistico con il reale: la pagina dello scrittore, in competizione con la sua stessa vita, non è evasione o pura finzione, ma il luogo privilegiato in cui “iniettare vita nella letteratura” (C. Savettieri, Le finzioni di Mauro Covacich).

Uno dei due poli è la sonda autobiografica che scava alla ricerca delle proprie pulsioni profonde e dei luoghi dell’anima allo stesso modo in cui un corridore si chiede come poter sostenere lo sforzo mentale richiesto da quattro ore di corsa; l’altro è quello dello specchio deformante che rimanda l’immagine esteriore dell’uomo, le sfaccettature di una cangiante identità, capace di riverberarsi da un romanzo all’altro come Covacich stesso ha rimarcato a proposito della videoistallazione L’umiliazione delle stelle, “punto culminante di un percorso autobiografico iniziato dieci anni fa intorno alla figura di Dario Rensich, alter ego di alcuni miei romanzi” (M. Covacich, A nome tuo, Torino, Einaudi, 2011, p. 339).

L’attività letteraria dello scrittore triestino pare disporsi lungo tre fasi. La prima si estende dal ’93 al 2001: accanto a narrazioni vicine al reportage o al saggio come in Storie di pazzi e normali (1993) – dove indaga la sottile linea di demarcazione tra normalità e follia – e La poetica dell’Unabomber (1999), si leggono le prime prove di invenzione che trovano il loro momento più significativo nel romanzo L’amore contro (2001), in cui si affrontano pulsioni amorose per lo più indicibili come quelle incestuose o mercenarie. Scandaglio impietoso del Nord-est, in questa fase giovanile Covacich pensa al suo ruolo di scrittore come a quello di un anomalo Unabomber, teso ad allontanarsi quanto più possibile dalla “cappa mitteleuropea” che rischia di soffocare Trieste e i suoi intellettuali in uno stereotipo ben definito:

Mostrare agli sprovveduti che ancora entrano nelle librerie il nostro mondo, il mondo che loro, voi e io condividiamo abbastanza felicemente, è come sistemare piccole bombe sotto gli ombrelloni. Farli leggere quello che sono, quello che siamo, è come balcanizzarli. […] Io voglio che al mio lettore, quando mi raccoglie dal banco della libreria, partano almeno due falangette, voglio che leggendomi si faccia male. (M. Covacich, La poetica dell’Unabomber, Ancona-Milano,Theoria, p. 125).

La seconda si colloca tra il 2003 e il 2011; in questa fase sono gli specchi deformanti a dominare nella ricerca finzionale dell’autore, impegnato nella stesura di una pentalogia in cui l’identità dei personaggi e dell’autore vengono continuamente scambiati, rimessi in gioco e in discussione:

Ciascuno di questi nomi, in sé e nel sistema di relazioni che crea, produce immagini di identità e un’immagine dell’identità. Ogni nome addita infatti un individuo, ma nessuno ne garantisce l’esistenza» (R. Donnarumma, Esercizi di esproprio e di riappropriazione. “A nome tuo” di Mauro Covacich).

La storia di Dario Rensich, fulcro di A perdifiato (2003), costituisce il primigenio nucleo di riflessione di Covacich sulla possibilità di dare vita a un personaggio in parte autobiografico e che costringerà l’autore, in questi otto anni, ad un gioco di ruoli inusitato nei quali viene continuamente affrontato il rapporto tra la realtà – ossia la vita stessa dello scrittore – e la finzione – cioè le vicende inventate che ogni costruzione narrativa porta inevitabilmente con sé. Sul rapporto verità-finzione lo scrittore ha affermato in una recente intervista:

mi interessa il reale, ovvero quel luogo interiore in cui […] un soggetto fa un’esperienza di verità. Ovviamente non mi sfugge che ogni tentativo di raccontare quell’esperienza di verità è destinato a trasformarla in un’invenzione letteraria, ma questa consapevolezza non porta necessariamente alla scelta di un trickster. Lo slittamento inevitabile da persona a personaggio non mi esime dalla responsabilità di scavare nella persona. (si rimanda al link ).

Rensich, maratoneta triestino divenuto allenatore di un gruppo di giovani mezzofondiste ungheresi, affronta i grovigli della sua vita interiore: la sterilità, l’adozione, gli amori condotti su doppi binari. A distanza di qualche anno – dopo i romanzi Fiona (2005) e Prima di sparire (2008) in cui tornano in scena i personaggi generatisi in A perdifiato – il personaggio-atleta, dai connotati latamente autobiografici, “costringe” lo scrittore a incarnarlo dal vivo nella videoistallazione L’umiliazione delle stelle (2010) nella quale Covacich stesso è protagonista di una massacrante maratona su tapis roulant:

 

L’autore, che ha indagato il nesso tra identità ed esibizione del corpo nella body art in L’arte contemporanea spiegata a tuo marito (2011), mette in gioco se stesso in uno sforzo performativo alla lunga umiliante a causa dell’oggettiva impossibilità, sperimentata dopo ogni prestazione, di raggiungere il livello di aspettativa ideale. Non ancora soddisfatto di questo “gioco di ruoli” in A nome tuo (2011), ultimo romanzo del ciclo, Covacich mette in atto un altro scambio di personalità: il protagonista parte per nave per portare lungo le coste adriatiche la sua performance, L’umiliazione delle stelle. In cabina, viaggiatrice clandestina, c’è una donna – Angela Dal Fabbro – che gli chiede di scrivere una storia “a nome suo”: ma chi è la Dal Fabbro se non un alter ego di Covacich, come la traduzione del suo nome stesso denuncia? Non è solo l’onomastica a denunciare l’ambigua identità di questa figura: infatti con questo pseudonimo qualche anno prima l’autore triestino aveva pubblicato un libro-confessione sull’eutanasia, Vi perdono (2009), sussunto poi nel romanzo in questione nel capitolo dal titolo “Musica per aereoporti”. Insomma gli specchi deformanti di questo compatto e al contempo problematico nucleo di opere ci dicono quanto il problema dell’identità interessi questo scrittore, mai pacificato, mai certo di avere raggiunto una fisionomia riconoscibile, tanto che nella Nota conclusiva del romanzo dichiara:

Dario Rensich, Angela Dal Fabbro, la piccola Fiona, Ivan Goran… sono un gruppuscolo. Io sono un gruppuscolo. (M.Covacich, A nome tuo, cit., p.339)

Infine dalla raccolta di racconti La sposa (2015), nella sua produzione sembra tornare ad avere maggiore evidenza lo scandaglio interiore. In particolare ne La città interiore (2017), scrive il suo libro forse più sfaccettato e più maturo nel quale emergono in filigrana significativi modelli della cultura europea a cavallo tra narrativa e saggismo: Claudio Magris, Winfried Sebald ed Elias Canetti. Memoir autobiografico, mappa letteraria, ricostruzione storica di un vulnus che per anni ha diviso in due zone Trieste, ne La città interiore l’autore indaga i molteplici volti della città a partire dalla sua storia personale, dal suo cognome, dalla lingua che parla. Di particolare interesse le pagine dedicate rispettivamente alla Risiera e a Pino Robusti da una parte e quelle in cui scopre una Trieste “proletaria” rievocando la storia d’amore del padre e della madre. In questa complessa e divagante genealogia rivivono le lacerazioni e le cicatrici di un luogo sospeso tra passato asburgico, atmosfera levantina, influenze slave e un’italianità a tratti incerta, vissuta come in esilio.

Nella scrittura di Covacich il campo magnetico attorno a cui si dispongono le polarità di cui si è parlato – la sonda interiore e lo specchio deformante – è, in larga misura Trieste, luogo dell’anima sul quale l’autore è tornato più volte nei suoi scritti, anche quando li ambienta altrove. Ad esempio in un breve reportage dedicato a Pordenone e intitolato La città bambina, Trieste ricompare in filigrana quando l’autore, correndo, arriva al mare:

Ecco il mare. Sì, il mio mare, l’ho portato qui. Non è stato facile trovargli un altro golfo. Per la bora mi devo ancora attrezzare. Dopo, di Trieste non mi mancherà niente. Ho sempre amato gli esterni, molto più che gli interni di una città. Soprattutto di quella in cui sono nato e cresciuto. Non la casa di Svevo, non l’osteria di Joyce, non la libreria di Saba, non il Caffè San Marco, tempio sintetico dei geni e della letteratura. Ma il freddo secco, il ghiaccio sul molo Audace, l’ululato del vento nel boschetto di Basovizza, i platani vissuti dell’ex manicomio, le spiagge di Barcola, le ragazze che passeggiano in topless sul lungomare. Ecco perché qui, su queste onde di terra nera, mi sento a casa. (M. Covacich, La città bambina in La qualità dell’aria, a cura di N. Lagioia e C. Raimo, Roma, minimumfax, 2004, pp. 354-355).

Città da mettere “sottosopra” con inusuali passeggiate che ne svelano angoli insoliti e ben lontani dai clichés che la dipingono come la città di Sissi, di Svevo, di Joyce e di Saba, punto di partenza o sfondo di romanzi dove l’aura asburgica tende a sparire, Trieste è, per Covacich, innanzitutto una città mutevole, incline al cambiamento, cassa di risonanza dei fenomeni di portata planetaria che hanno investito anche questa terra di confine in un mondo ormai globalizzato. Esemplare risulta, a tale proposito, il capitolo dedicato a Basovizza in Trieste sottosopra. Il bosco, situato fuori dall’abitato del paese e noto per i massacri delle foibe, è divenuto oggigiorno il luogo prediletto per i triestini amanti del running e del fitness, ma negli anni Novanta il bosco di notte era uno dei pochi punti che consentiva ai profughi slavi di giungere in Europa, per sfuggire alla guerra:

Di giorno, campo di atletica. Di notte, guado della speranza. Di giorno, uomini liberi, in fuga da niente e da nessuno, assorbivano la loro dose di ossigeno per tenersi in forma, sudavano per migliorarsi. Di notte, uomini con le scarpe da ginnastica scalcagnate si nascondevano ai fari dei poliziotti, ingannavano come potevano il fiuto dei cani lupo. (M. Covacich, Trieste sottosopra, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 44).

Dunque, in un’Europa in cui di recente si è tornati a costruire muri, a reclamare dogane e controlli, a chiudere porti l’altopiano carsico di Basovizza – rinominato oggi “Percorso vita” – ritorna in queste pagine come luogo di fughe notturne, di scampo dalla guerra, prefigurazione di quei flussi migratori con i quali ancora continuiamo a confrontarci, a testimonianza del fatto che Covacich «non si rifugia in qualche piccola patria idealizzata, e non abbraccia nessun retrogrado localismo”, come ha scritto Hanna Serkowska (H. Serkowska, Il mondo in “disordine globale” nelle opere di Mauro Covacich in «Narrativa», n.35-36, 2013/14).

La sua scrittura pone il lettore davanti alle contraddizioni della storia contemporanea grazie all’autocoscienza – la sonda – e all’esperienza della pluralità dell’io – gli specchi – impedendogli in tal modo di blindarsi in una sterile soggettività o in un mondo di pura evasione.


Fotografia: G. Biscardi, Vienna, 2016.

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