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La breve estate di Gerda Taro: vita e morte della rivoluzione in Spagna. Note sul libro di Helena Janeczek (Premio Strega 2018)

Ripubblichiamo la recensione a “La ragazza con la Leica” di Emanuele Zinato, già uscita qualche settimana fa sul nostro blog

Fotografia e letteratura: il passato e il futuro

Per Walter Benjamin, le tecniche alla fine del loro sviluppo o mentre stanno scomparendo, mettono in relazione il passato con il futuro e prefigurano ciò che verrà: così i passages ottocenteschi anticipano il feticismo delle merci e il videorama anticipa il cinema. La fotografia, assai presente nella letteratura odierna nelle forme della descrizione delle immagini o nella loro diretta inclusione in “iconotesti” (da Sebald a Annie Ernaux), sembra oggi vivere questa medesima condizione: resa obsoleta dal digitale è, grazie a ciò, scavo vitale nella memoria e indice di futuro.

L’ultimo romanzo di Helena Janeczek, La ragazza con la Leica (Guanda, 2017) è a questo proposito esemplare: ha come protagonisti una fotoreporter leggendaria prematuramente scomparsa (Gerda Taro) e una tragedia collettiva in apparenza inattingibile (gli anni Trenta in Spagna), utilizza la narrazione multiprospettica cara ai modernisti americani, come Faulkner e Dos Passos, per interrogare i dettagli muti dei fotogrammi fino a farne materia di romanzo.

La forza d’attrazione di ogni buon libro risiede nelle sue figure dell’invenzione: le costanti tematiche e formali capaci di “far sistema” e di mettere in relazione campi dell’immaginario tra loro lontani. La ragazza con la Leica privilegia la frammentazione, il montaggio di blocchi temporali e gli scarti fra punti di vista lontani tra loro, sottoponendo il lettore a un arduo lavoro di ricomposizione, a un vero e proprio slalom tra date, luoghi, nomi di personaggi, eppure a ben guardare non sono molte le sue fondamentali invarianti, all’incrocio fra interiorità e storia: la gioia di vivere e la rivoluzione, la Babele tragica e festosa e il massacro europeo e planetario. La ragazza con la Leica, con la sua polifonia, permette di estrarre queste grandi costanti dai dettagli minimi delle fotografie, come un sintomo o un presagio, e ciò grazie allo sfruttamento romanzesco del documento: Gerda, Robert Capa e tutti gli altri che parlano nel libro sono personaggi finzionali ma non fittizi, come accade nella cosiddetta biofiction che accosta fedeltà documentaria e ipotesi d’invenzione, psiconarrazioni e indiretto libero (cfr. R. Castellana, La biofiction. Teoria, storia, problemi, in «Allegoria»»). Di questa strategia, Helena Janeczek si mostra perfettamente consapevole in una delle dichiarazioni metanarrative con cui il libro si chiude:

Discendenti dallo stesso verbo, “rinvenire” e “inventare” rammentano che per ritrovare qualsiasi cosa bisogna attingere alla memoria, che è una forma d’immaginazione. (pp. 324-325)

L’autrice, nata in Germania da una coppia ebreo polacca, può in tal modo immaginare, in limine, delle analogie fra la relazione dei propri genitori e quella fra la libera, fascinosa e testarda Gerda, ebrea polacca nata a Stoccarda, e il balcanico, affabulante e picaresco Robert Capa (p. 330). Ma, allora, è lecito chiedersi: in che misura questa fotoreporter, uccisa in uno scenario allegorico novecentesco, ci riguarda?

Gioia e rivoluzione: il destino e il caso

La buona letteratura veicola sempre qualcosa di dimenticato o di sedimentato. Si ripresenta qui, nel nuovo millennio, la necessità della lettura che Franco Fortini tentava dei problemi della modernità letteraria (soprattutto il tempo perduto e il suo recupero) parlando di “intermittenze storiche” sottratte agli “psichismi individuali”, epifanie di un “inconscio politico”. Perché in La ragazza con la Leica sono le “questioni private” nel vortice della Storia a produrre nel lettore emozione e identificazione: con il conseguente ritorno del destino sugli scenari pulviscolari del caso. Esemplare a questo riguardo l’uso dei verbi quasi sempre al presente e le insistite congetture ipotetiche a partire dalla materialità muta delle immagini (“se fossero stati”…, “forse…”). Le congetture stabiliscono dei nessi: alcuni ossessivi e personali (le immagini di Lilo e Fred Stein, ritratti prima giovani e poi vecchi, che mediano idealmente tra Capa e Gerda e i genitori dell’autrice, p. 321); altri a pertinenza storica e collettiva (i fotogrammi della coppia di miliziani innamorati a Barcellona “rapiti dalla loro risata” (p. 9), vero doppio dell’altra coppia, Gerda e Robert seduti al Café du Dôme, frequentato negli stessi mesi da Walter Benjamin, p. 293).

Le foto, per loro statuto, sembrano poter sottrarre l’istante all’inclemenza del decorso temporale: immortalano il riso “di compagni in armi e in amore, nella breve estate dell’anarchia, a Barcellona” (p. 19).

Il mondo è giusto che lo sappia. Deve vedere in un colpo d’occhio che da una parte c’è una guerra vecchia di secoli, i generali sbarcati dal Marocco con le feroci truppe mercenarie, dall’altra parte gente che desidera difendere quel che sta vivendo, e si desidera l’un l’altra (p. 11)

Gerda Taro diviene in tal modo soprattutto una figura: “Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira” (p. 21), un’immagine radiante e vitale, “una gioia spudorata che si lancia fuori a conquistare il mondo” (p. 19). Nel ‘37 questa apparizione viene squarciata dai cingoli di un carro armato, mentre i caccia italiani Fiat mitragliano dal cielo i miliziani. Gli altri suoi compagni, senza più un centro, iniziano convulsi tragitti di fughe, da Marsiglia verso il Messico o gli Stati Uniti:

il nazifascismo ha creato uno sconfinato campo profughi che un mostruoso spostamento d’aria trasporta da un paese all’altro (p. 314).

Di queste “comunità di esiliati” alcuni riescono a imbarcarsi sulla Serpa Pinto e a far rotta verso le Americhe, altri, come Benjamin non ce la fanno e si fermano a Portbou (p. 298). Sintomatico, nel treno da Parigi a Valencia, il diverso smarrimento che afferra Paul Nizan, Capa e Ruth Cerf durante il viaggio per recuperare il corpo della giovane fotografa (pp. 160-165). Ancora più sintomatico, il maestoso funerale di Gerda a Parigi, il primo agosto 1937: un corteo di centomila persone che la scorta fino al cimitero Père Lachaise dove viene sepolta tra i caduti della Comune. E il padre di Gerda che, terminato di recitare il kaddish, si accascia sulla bara, “riverso sulla bandiera rossa di seta morbida” che la avvolge (p. 100)

Perché Gerda Taro ci riguarda?

Tutto ciò, rimosso per tanti decenni, riaffiora in La ragazza con la Leica, da leggere tenendo accanto Omaggio alla Catalogna di Orwell e La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti di Enzensberger. Helena Janeczek si è messa a caccia di dati sulla scorta delle recenti ricerche biografiche di Irme Schaber, ed è stata in grado di far germinare i documenti con la forza dell’invenzione. Come ben sapeva Sciascia (in La scomparsa di Majorana), con questa procedura l’ipotesi fornita dall’immaginazione diviene più vera del vero. Non è stata, insomma, solo la fama del suo compagno Robert Capa a oscurare la memoria di Gerda, ventisettenne ebrea tedesca antifascista. È il nesso stesso che la sua figura eccentrica incarnava a farsi imbarazzante: quello tra la gioia di vivere e la rivoluzione. Benjamin, proprio in quegli anni, scriveva a Parigi L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, e nella fotografia rintracciava “nell’espressione fuggevole di un volto umano, (…) per l’ultima volta l’aura. È questo che ne costituisce la malinconica e incomparabile bellezza”.

L’aura malinconica delle tante immagini ricodificate in scrittura, per via ecfrastica o sensoriale, in questo libro è di specie politica. In Spagna nel 1936 la ribellione dei generali al governo repubblicano dette avvio alla rivoluzione sociale che i golpisti volevano prevenire e che contribuirono a provocare. Tra l’esercito in rivolta e il popolo in armi, lo Stato repubblicano finì in pezzi e nelle piazze affiorarono con indicibile entusiasmo nuovi organismi, i Comitati locali, che riprendevano la tradizione di democrazia proletaria proveniente dalla Comune di Parigi e dai Soviet. Quello che accadde in Spagna ottant’anni fa non fu insomma solo un evento spagnolo: è un nodo che ci riguarda, capace di spiegare il Novecento e di prefigurare il tempo avvenire, con tutte le sue contraddizioni. Capace di ricordarci che nell’azione collettiva, quando oltrepassa il “muro del rischio”, vi è sedimentata una modalità della gioia, e che a renderla perdente e tragica non è tanto il suo essere colpevolmente ingenua o utopica, quanto la forza sanguinaria della reazione che di solito scatena. In un modo o nell’altro, nella sconfitta della rivoluzione in Spagna furono coinvolte le democrazie liberali, lo stalinismo dei partiti comunisti legati a Mosca e il nazifascismo trionfante. La “struttura della visione” sedimentata in quelle fotografie di Gerda nascoste per anni nella “valigia messicana” e la sua stessa “gioia spudorata” rinviano dunque a questo enigma: un enigma non spento, capace di riattivarsi con una sola telefonata intercontinentale tra Willy e Georg (p. 23), per resuscitare, “dopo un tempo che pareva un secolo” (p. 26) con Gerda, un’esperienza collettiva sottratta alla rovina e all’oblio.

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