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diretto da Romano Luperini

len 20171017 053

Medicina e letteratura: la fragilità dell’interprete

 Agli amici insegnanti che  mi confidano  il loro  scoramento  quando  gli  studenti dell’ultimo anno, anziché interessarsi a  Montale e Svevo, appaiono intenti a memorizzare i test per l’ammissione a Medicina….

Il medico e l’interprete

Un’idea radicata nel senso comune, come si sa,  vuole che Scienza e Letteratura siano due campi antitetici dell’attività umana. Le cosiddette “due culture”- come le battezzò sul finire degli  anni Cinquanta lo scienziato, saggista e romanziere inglese Charles Percy Snow  –  sono infatti per tutta l’età moderna e specie nella cultura italiana, separate in casa. Oggi questo divorzio appare tuttavia desueto perché un  terzo incomodo,  le scienze applicate, sembrano egemonizzare in modo arrogante il campo, a detrimento sia delle scienze pure che delle discipline umanistiche.   Eppure, forse la più “applicata” fra le aree scientifiche, quella medico-biologica, sembra intrattenere  più di qualche corrispondenza illecita con la critica letteraria.

Innanzitutto,  prima del Moderno, la medicina,  basata sugli umori, era fortemente “simbolica”, figurale  e a suo modo “letteraria”. I salassi e i  purganti inflitti come cura avevano lo scopo di mondare i pazienti da umori guasti o eccedenti, concepiti secondo un’immagine del corpo fondata su corrispondenze e analogie. Le  epidemie, come insegna candidamente nei Promessi sposi Don Ferrante, erano ritenute conseguenza di influssi astrali  o di agenti diabolici e, prima di Vesalio,  solo i barbieri-chirurghi avevano una qualche cognizione dell’anatomia umana. La nozione di contagio faceva parte insomma di una visione “magica” del mondo in cui – come accadrà nelle Corrispondenze di Baudelaire – tutti gli eventi si influenzano, si  compenetrano, si rispondono e possiedono un senso. Il termine stesso “influenza”, usato ancora oggi per designare l’epidemia più nota, ha esattamente questa origine.

 D’altra parte, fintantoché il delirio veniva  concepito come esito di uno squilibrio degli umori corporei, il problema della malattia “mentale” non si poneva: la secchezza del corpo predisponeva il cervello alle manie, l’umore nero della bile provocava le ossessioni e depressioni dei melanconici.   In epoca cartesiana nacquero,  come scrisse Foucault,   da un “gesto separativo”, la clinica e il concetto moderno di follia. Il meccanicismo considerò i corpi come delle macchine e le “passioni dell’anima” furono dissociate dalla vita corporea. Il divorzio tra medicina e letteratura a quel punto sembrò irreversibile. 

Eppure, davanti all’autoproclamazione ottocentesca e positivista delle scienze naturali quali scienze “esatte”,  la migliore medicina ha continuato a pensarsi come la meno “esatta” fra tutte: congetturale, ermeneutica, ipotetica.  La diagnosi e la cura sembrarono e sembrano, non dimostrabili  ma argomentabili, come il risultato di un paradigma indiziario. E i sintomi delle malattie sono sempre stati percepiti, dai medici più arguti, come tracce e “segni” interpretabili dalla semeiotica medica. Non a caso,  quando presume di possedere verità indubitabili, il medico diviene ridicolo agli occhi di filosofi e scrittori. Bergson nel suo saggio Il riso (1900) ha tratto dal Malato immaginario di  Molière, e in particolare dal sussiego saccente dei medici peripatetici del Seicento, il prototipo di un comportamento comico che si irrigidisce, si inceppa, diviene ostinatamente ripetitivo: il  medico accademico, vera e propria macchina parlante che scarica sul paziente una sequela di termini eruditi e di spiegazioni incomprensibili, diviene nel grande Molière allegoria di ogni altro dogmatismo ossessivo.  E non diversamente, a ben guardare,  vengono raffigurati da Collodi i tre medici-animali, un Corvo, una Civetta e un Grillo, tronfi e sentenziosi  al capezzale di Pinocchio.

Ripartire dal tema del corpo

E’  proprio questa fallibilità, questa ipoteticità ermeneutica, connaturata ai saperi medici  (oggi bersaglio del senso comune, desideroso di sentirsi rassicurato da certezze, come vogliono i suoi non disinteressati fiancheggiatori,  giornalisti e avvocati specialisti in “malasanità”),  il primo dei fattori che  tengono aperto  un dialogo fra medicina e  letteratura.

Il  secondo fattore, più sfuggente ma anche assai più potente, è l’oggetto stesso della medicina, il corpo umano, con la sua insanabile alterità. Leopardi affermava, come Nietszche, che “il corpo è l’uomo”:  la materia vivente, giunta a organizzarsi in pensiero, quando pensa se stessa non sa far distinzione fra psichismi e sintomi.  

Dalla fine dell’Ottocento, com’è noto,  la vita psichica diviene la nuova frontiera di una branca eretica della medicina, destinata a influenzare potentemente l’immaginario dei più grandi scrittori del Novecento: la psicoanalisi. Ma nelle pagine dei grandi scrittori, alcuni dei quali medici  come Cechov, Bulgakov o  Williams, il corpo continua a palesasi come mondo ineffabile e arcano, e rappresentabile o percepibile solo per via non razionale.   Un narratore italiano del secondo Novecento, a esempio, cerca di rappresentare così un corpo in preda alla paura

La paura gli stava dentro come un cane arrabbiato: guaiva, ansava, sbavava, improvvisamente urlava nel suo sonno; e mordeva, dentro mordeva, nel fegato, nel cuore. Di quei morsi al fegato che continuamente bruciavano e dell’improvviso doloroso guizzo del cuore, come di un coniglio vivo in bocca al cane, i medici avevano fatto diagnosi, e medicine gli avevano dato da riempire tutto il piano del comò: ma non sapevano niente, i medici, della sua paura. (L. Sciascia,  Il giorno della civetta)

Le parti del corpo acquistano vita autonoma,  divengono animali impazziti e cruenti.  Le cataste di medicine allineate sul comò,  prescritte dall’oggettività terapeutica, poco o nulla hanno a che vedere con l’ambigua unitarietà degli “allarmi” psichici e organici.

Come accade  in Aracoeli di Elsa Morante o nelle prose di Valerio Magrelli (Nel condominio di carne, 2003), l’oggetto perturbante per  eccellenza è oggi il corpo.  Il dialogo tra  letteratura   e medicina,  rappresentando le “piccole catastrofi” che investono i diversi distretti corporei, ricorda il contenzioso fra vita e morte di cui è sede ogni corpo,  il conflitto fra riconoscimento di sé come individuo e disconoscimento del proprio corpo in quanto altro. Come se, davanti alla malattia,  il vero “inconscio” fosse il corpo,  come se non avesse senso parlare di somatizzazione o d’interiorità, ma casomai di psichismi che materializzano ed estraniano parti della stessa carne corporea.

Oggi  il medico è il solo intellettuale che ha a che fare quotidianamente con il più rimosso, desueto  e scomodo tra i “temi” culturali: la materialità del dolore e della morte.  Contro ogni derealizzazione mediatica, gli organismi fisici esistono in un modo materialmente  innegabile:  questi  “limiti oscuri”  inerenti la condizione biologica, non solo sono, nelle opere letterarie, il fondamento di costanti antropologiche di lunghissima durata,  ma costituiscono anche le coordinate esperienziali minime socialmente condivisibili (dall’animale-uomo) e dunque anche  quelle fondanti  un’esperienza di lettura (da un lato) e di  “dialogo” tra  medico e  paziente (dall’altro).  La fragilità biologica dell’interprete (il critico, il medico)  è trincea di resistenza da  cui sembra  possibile partire per dare  senso sociale all’espressione di una soggettività.  

Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2017, vetrina.

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