Perché leggere Ritorno sul Don di Mario Rigoni Stern
Ogni anno, quando cadeva la prima neve e dalla finestra che guarda gli orti vedevo tetti e montagne imbiancarsi, mi prendeva una malinconia che stringeva il cuore e mi isolava da tutto il resto. Come se questa neve avvolgesse e coprisse la vita che è nel corpo. Anche di notte mi svegliavo quando nevicava. Lo sentivo che nevicava, e stavo immobile dentro al letto.
I primi anni prendevo gli sci e andavo. Andavo da solo dove non avrei incontrato nessuno. Nessuno, tranne quello che avevo lasciato là.
Certe volte che ero in ufficio a trascrivere le volture catastali sui vecchi registri mi pareva che il nero dell’inchiostro ferro-gallico sulla pagina fosse come la colonna in ritirata nella steppa. E mi capitava pure di scrivere il nome di compaesani che non erano ritornati.
Allora per delle giornate intere stavo zitto e chiuso: i colleghi d’ufficio e a casa dicevano che era perché avevo la luna di traverso. Era difficile spiegare, o non volevo. Perché una madre che aspetta non poteva sapere. Aspetta, prega, ma non si stanca di sperare. Magari, dice, è sposato in qualche parte perché la Russia è grande; e magari avrò anche dei nipotini, laggiù. Mi mandasse almeno una cartolina, pensa. E intanto vive.
Ma io sapevo. Avevo visto cose che non si possono dire alle madri. Così, ogni volta che nevicava era come morire un poco. Ma passavano anche gli inverni e a primavera, quando ritornavano le allodole, il cuore si liberava dalla stretta come un prato dalla neve.
Rigoni Stern, Il sergente nella neve, Torino, Einaudi, 2009, pp. 279-280
Perché narra il ritorno sul luogo del trauma
Nel senso comune, il reduce è colui che dalla guerra torna, sopravvissuto e testimone: l’archetipo in letteratura è, ovviamente, quello di Ulisse. Tuttavia quasi mai si collega al reduce l’immagine di un uomo che, sanate le piaghe fisiche e psichiche, lasciato scorrere del tempo, torna sul luogo che ha generato il trauma. È questo il caso di Ritorno sul Don (1973), un macrotesto costituito da otto racconti legati da una combinatoria interna di elementi tematici e formali: Mario Rigoni Stern racconta, a trent’anni di distanza, il proprio viaggio sui luoghi della ritirata di Russia rivisitati con l’urgenza di chi sa di essere ormai sul crinale discendente della vita.
Se, dunque, un «volume di racconti si configura come una struttura policentrica, reticolare, composita, mai disgregata» (M. Tortora) nel caso di Ritorno sul Don esemplare è il testo che dà il titolo a tutta la raccolta dove fin dalle prime righe lo scrittore, con il pensiero a chi non è sopravvissuto, avverte il crescente bisogno, cadenzato dalla presenza della neve, di tornare in Russia.
Per la percettività tellurica e la simbiosi con il paesaggio
Rigoni Stern, originario dell’Altipiano di Asiago dove ha sempre vissuto, è un autore dotato di una percettività tellurica che si traduce in una sorta di costante simbiosi con il paesaggio e con la natura. Questa qualità sensoriale della sua scrittura è ben evidente in tutto il racconto: l’uomo che torna sul Don si orienta grazie alla memoria visiva, all’intuito corporeo. È una sonda che si muove nello spazio e nel tempo; infatti il rapporto psico-fisico che l’alpino ha istituito con il territorio sul quale ha combattuto è simile solo a quello testimoniato dai partigiani datisi alla macchia sui monti:
Se è vero che il partigiano nutre un rapporto particolarmente intenso col territorio nel quale combatte, fino a sentirsene parte integrante, la stessa “connotazione tellurica”, per usare l’espressione di Carl Schmitt, si può applicare anche a un corpo dell’esercito regolare così fortemente territorializzato com’è quello degli alpini» (G. Alfano, Ciò che ritorna. Gli effetti della guerra nella letteratura italiana del Novecento, Firenze, Cesati, 2014, p. 165).
Esemplare è il momento in cui Rigoni Stern constatata con disappunto e rabbia che la città di Nikolajevka, è scomparsa dalle moderne carte geografiche russe («Ma in nessuna carta russa è segnato il nome che cerco: Nikolajevka. C’è solo sulle carte italiane», pp. 297-298). Scruta in silenzio il paesaggio dall’abitacolo dell’automobile, e riscopre Nikolajevka, grazie a una tensione percettiva di tipo istintivo e sensitivo che coinvolge mente e corpo e che lo fa tornare a rivivere il momento esatto in cui vi giunse con i compagni nel gennaio del ’42: «Da sopra il dosso mi appare come allora. […] Cammino verso Nikolajevka. Il dosso. Questo dosso dove siamo scesi la mattina del 26 gennaio» (Ivi, p. 299)
Perché ripropone la contraddizione tra chi è sopravvissuto e chi non è tornato
Il viaggio di ritorno sul Don equivale per l’autore a un procedere avanti nello spazio e a un arretrare indietro nel tempo. Lo statuto di reduce-testimone di Rigoni Stern è evidente nell’infittirsi dei deittici, spia dell’orientarsi incontrovertibile della sonda del corpo: «Per questa pista siamo passati il 27 gennaio. La riconosco» (Ivi, p.300) afferma a Nikolajevka; ad ogni tappa qualcosa nel paesaggio gli parla dell’inverno del ’43: «Bevo avidamente l’acqua di questo pozzo che ci dissetò anche allora» (Ivi, p. 307)
Grazie al linguaggio corporeo, Ritorno sul Don ripropone costantemente la difficile conciliazione tra il sopravvissuto e chi non è tornato, tra chi può ancora disporre del proprio corpo per percepire e indicare e chi non può più farlo. Il luogo rivisitato del trauma diventa così lo scenario possibile di un colloquio tra vivi e morti: nei momenti emotivamente più intensi del viaggio, Rigoni si chiude in un silenzio impenetrabile e si immobilizza, quasi volesse assorbire il magnetismo delle distese ucraine che da Nikolaievka fino al Don sono diventate «una tomba d’alpini» (Ivi, p. 297) e debellare, in qualche modo, lo schiacciante senso di colpa: «Quanti di quelli che siamo usciti dalla sacca, dai Lager, dalla Resistenza, dalla guerra degli alpini, insomma, vorrebbero essere qui stasera con me?» (Ivi, p. 311).
Perché permette di avvalersi del racconto come risorsa didattica
La forma breve del narrare, genere ben consolidato nella tradizione letteraria italiana novecentesca, offre alla didattica della letteratura una risorsa rilevante, dal momento che permette di circoscrivere l’attenzione dei giovani lettori, sempre più abituati a una fruizione puntiforme e “veloce”. Nelle narrazioni brevi «obiettivo del narratore è quello di raccontare quell’evento, accaduto in quello spazio e in quel tempo, senza alcuna intenzione di aumentarne il raggio d’azione» (M. Tortora). Il genere racconto è, dunque, un prezioso serbatoio cui attingere tanto più che oggi alla letteratura si riconoscono tempi didattici sempre più erosi e franti.
In questo senso la lettura di Ritorno sul Don, in poco meno di quaranta pagine, permette di fare l’esperienza – mediata dalla letteratura – di uno dei traumi meno dicibili della Seconda guerra mondiale: di rivivere nella concretezza di un paesaggio la riemersione dolorosa dell’esperienza dei reduci dalla campagna di Russia, con tutte le ambivalenze che questa ha suscitato in chi è consapevole di averla vissuta dalla parte sbagliata, quella degli invasori. I racconti rimemoranti di Rigoni Stern si inseriscono dunque in quel filone della narrativa occidentale del secondo Novecento variamente capace di narrare le grandi lacerazioni della guerra (cfr. Ivi, p. 305). Come argomenta Eraldo Affinati, Rigoni Stern è uno degli ultimi testimoni e padri del secolo scorso:
Ogni volta che torno [ad Asiago], porto a Mario e a suo moglie Anna Maria un piccolo ricordo dei miei viaggi nel corpo offeso del Novecento: la medaglietta di Stalingrado, la cartolina di Dresda, il contrassegno di Hiroshima. Mentre il vecchio sergente lascia scorrere con lentezza fra le dita questi tragici emblemi, quasi fossero insetti catturati nel bosco, ho l’impressione che il ventesimo secolo accolga anche me, insieme a lui, seduto sullo strapuntino, nell’ultimo giro della sua vecchia giostra scalcinata, prima di andare a nascondersi per sempre dietro ai monti. (E. Affinati, Compagni segreti. Storie di viaggi, bombe e scrittori, Roma, Fandango, 2006, p. 306).
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