“Narratori d’oggi”. Un bilancio provvisorio
Si conclude con questo bilancio, necessariamente provvisorio per la vicinanza con cui si guarda al presente, il ciclo di interviste dal titolo “Narratori d’oggi” inaugurato la scorsa primavera e che ha coinvolto alcuni tra le autrici e gli autori più rappresentativi del panorama letterario contemporaneo.
Al termine del ciclo di interviste dal titolo “Narratori d’oggi” che ha coinvolto alcuni autori e autrici rappresentativi del panorama letterario contemporaneo (Affinati, Covacich, Janeczek, Missiroli, Pugno, Ricci, Santoni, Sarchi, Tarabbia, Tuena,Valenti) può risultare di una qualche utilità tentare di ricavare dalle diversissime risposte un bilancio provvisorio. Le domande hanno sollecitato gli scrittori a pronunciarsi su questioni inerenti sia le forme testuali che il campo culturale e letterario: i generi, la lingua e lo stile, i temi, la continuità o la rottura con i modelli del passato, la latitudine più o meno “civile” del mestiere di scrivere e la sua funzione didattica. L’esame delle risposte mette in rilievo alcune costanti e molte varianti dell’autocoscienza autoriale che, in fieri, possono aiutare a fare il punto sull’idea di letteratura che circola oggi fra gli scrittori di prosa italiani.
Va rilevato innanzitutto che l’avversione degli autori contemporanei nei confronti di dichiarazioni di poetica – attestata da Andrea Cortellessa nella sua Introduzione all’antologia La terra della prosa (Orma Editore, 2014) – è più apparente che reale: le interviste pubblicate ci dicono che ciascuno degli autori segue una precisa direzione, consapevole di scelte di campo, di genere e di stile. E che le dichiara apertamente.
Una forte difformità riguarda la scelta dei temi. Lungo un’ideale scala graduata, da un massimo di prossimità e a un massimo di lontananza da referenti di realtà attuali e storici, figurano come campi tematici prediletti: “La storia d’Italia […] le disuguaglianze sociali e il malessere psichico che queste determinano. E il racconto della nuova lotta di classe in epoca neoliberista”, (Valenti), “l’attività di insegnamento della lingua italiana ai ragazzi immigrati” (Affinati); “Le migrazioni e gli incontri con l’altro nel mondo globalizzato, pieno di solitudini, frontiere e smottamenti creato dalla modernità”(Janekzec); “il rapporto tra realtà e finzione” (Tarabbia); “l’essere umano diviso fra natura e cultura e l’attenzione verso il pensiero filosofico ecologico, il rapporto con la Terra” (Sarchi); “l’ossessione per il confine tra naturale e umano”, per le “strategie per combattere l’apocalissi, la scomparsa, la perdita” (Pugno); “L’amore, la morte e Dio […] tre grandi direttrici universali” (Ricci); “il tema del padre […] il tradimento e l’inganno, il segreto e soprattutto il riscatto” (Missiroli); infine la marginalità rispetto al presente, rappresentata da “artisti rinascimentali, Shoah, esplorazioni antartiche, musicisti romantici” (Tuena).
La vera zona contesa, tuttavia, sembra essere data dal campo di tensioni tra scelte o preferenze inerenti la legittimità e efficacia della finzione (a cui si possono associare anche le difformi valutazioni della fortuna o invadenza dello “storytelling”) e la funzione civile o responsabile della scrittura. I differenti posizionamenti riguardano, in fondo, le questioni novecentesche del “realismo” – che serpeggia in filigrana e che viene citato dal solo Valenti con l’espressione “realismo affettivo” -, del nesso autobiografia/invenzione e dello statuto di verità in un libro in rapporto al narratore. Anche in questo caso si va da un massimo di distanza a un massimo di favore accordati alla “sospensione dell’incredulità” come strumento di conoscenza. Mauro Covacich – considerato con Siti come uno dei maggiori rappresentanti dell’autofiction italiana – dichiara “Non credo nell’autofiction, credo nell’autobiografia. […] Lo slittamento inevitabile da persona a personaggio non mi esime dalla responsabilità di scavare nella persona. Anche l’io narrante di Se questo è un uomo diventa un personaggio”; Tarabbia ritiene invece che non fiction e autofiction “siano il modo in cui il nostro tempo ha deciso di raccontarsi” ed esibisce come modelli Javier Cercas, Emmanuele Carrère e Truman Capote. Affinati prende a fondamento della sua scrittura “un’esperienza che, nel momento della composizione, sent(e) come vera”. Viceversa autori come Pugno, Sarchi o Ricci propendono nettamente per la forza delle finzioni: se “le sperimentazioni” di Ricci “nascono tutte all’interno del vecchio principio secondo cui la letteratura è fatta di storie totalmente inventate”, la “forza di uno scrittore”, per Sarchi, sta “nella sua capacità di trasfigurazione della materia trattata, sia che la trasfigurazione consista in un’illusione ottica che la faccia sembrare più vera del vero, o più onirica e fantastica dei sogni”. Infine Santoni torna a ricordare che “nel momento […] in cui entra in campo un processo artistico, ecco che siamo di fronte a un’opera di finzione, non importa quanto sia basata sul reale. Il romanzo è meticcio per natura […] nasce infatti ibrido, i primi romanzi moderni sono romanzi filosofici o romanzi picareschi con tratti enciclopedici”.
Insomma, la questione dei generi, e in specie della forza estetica della narrativa di finzione nel contesto ipercontemporaneo, è una questione che divide e che attesta non solo una plurivocità di posizionamenti ma che provoca, in qualche caso, anche il bisogno di sconfinamenti e contaminazioni. Significativa la posizione di Covacich: “mi sembra ormai assodato che la dimensione del romanzesco è stata sottratta alla letteratura da parte di altre forme di narrazione. […] Per cui molti tra coloro che credono ancora alla letteratura come a una forma di conoscenza, e non di intrattenimento, provano a forzare i limiti del romanzo tradizionale”. In fondo, è l’antica antinomia fra docere e delectare e la loro reciproca interazione e legittimità a riemergere in un contesto in cui l’intrattenimento tecnologico e il suo incrocio con il mercato hanno assunto dimensioni inedite. Laura Pugno – scrittrice perturbante e visionaria – ne parla così, evidenziando la cifra di “irriducibile diversità” (Cortellessa) della sua scrittura: “Nel modo in cui è formulata questa domanda [sulla finzione] è sotteso un paradigma: che il piacere sia sempre, per il lettore/spettatore, piacere della conferma, del riconoscimento, e alla fine conforto e anestesia, e che la verità, la scoperta, sia dolore. Esiste anche un piacere della scoperta, una lettura come avventura, che è quella che nell’adolescenza forma coloro che rimarranno grandi lettori anche in età adulta.” Per Ricci “scegliere la fiction pura non significa stare dalla parte dell’intrattenimento a discapito della dimensione morale o etica, anzi, tutt’altro. (…) La fiction pura, per fortuna, non è solo quella dei generi ormai iper-codificati (thriller e giallo, su tutti) e delle scritture da classifica”.
Anche il posizionamento rispetto a una “partecipazione civile” della scrittura genera analoghe difformità: se Valenti propende per una scrittura “al servizio di una politica testuale di resistenza, parte di un realismo affettivo” e Janekzec sente di riconoscersi nello “slancio vivificante” degli autori decisi a “prendersi quel poco spazio – politico in senso lato – che riescono ad affidare alle loro opere” al polo opposto Missiroli respinge recisamente la dimensione politica e civile (“Non condivido le posizioni di quei critici che prendono le distanze dagli scrittori contemporanei che non sanno denunciare il tempo presente, la realtà circostante.”). Covacich invece concepisce l’impegno solo in senso allegorico: come “se fossi l’imputato e il giudice dello stesso processo” […] come “sfida politica alla Kafka”.
Tra i modelli – nella maggior parte attestati sull’Otto-Novecento, più spesso anglosassone, russo e italiano- non mancano incursioni nel mondo figurativo (Sarchi), cinematografico (Covacich, Affinati) musicale (Tuena), nei videogiochi e nei giochi di ruolo (Santoni) – e fra le proposte per i lettori in formazione, tra i tanti libri suggeriti, spicca La strada di Cormac McCarthy: forse potrebbe essere il caso di pensare davvero a questo testo come un modello per una didattica della letteratura all’altezza del presente.
Tra i molti aspetti di questa plurivoca riflessione sulla letteratura del presente, crediamo, insomma, che il più denso di conseguenze sia in definitiva la convergenza sorprendente e solo in apparenza paradossale fra lo scrittore più vicino alla storia e al “ritorno alla realtà” (Valente) e quello più fedele alla pura fiction e dichiaratamente più lontano dalla cronaca e dall’attualità (Ricci): “La finzione è naturalmente contaminata, colonizzata, come tutte le forme del racconto, dall’ideologia dominante, la cui forma tangibile è appunto l’intrattenimento. E tuttavia la finzione mantiene un potere da utilizzare a buon fine per scardinare il racconto consumistico. Credo nel potere di rivelazione e verità della finzione, credo che il suo potere taumaturgico non sia ancora esaurito.”, scrive Stefano Valente; dal canto suo Ricci afferma: “La «cultura bestsellerista» minaccia costantemente lo stile. Da una parte l’autore di best seller fa di tutto per sparire dal testo, per portare in primo piano unicamente la storia (in modo che il suo lavoro si trasformi in una specie di libro pop up per adulti); dall’altra è importante solo come firma, come brand per attirare la clientela.”
Da ciò, la totale unanimità sulla ineluttabilità della ricerca linguistica e sull’attenzione per lo stile come principi operativi della scrittura; la letteratura dunque, può ancora opporsi “alla peste del linguaggio”, al suo impoverimento e alla sua omologazione. Si tratta infatti per tutti gli autori interpellati, di molte varianti di una medesima “narrativa di ricerca” e tutti sembrano condividere l’idea che “ciò che non ha lingua e stile non è letteratura, per definizione: è la trascrizione di una sceneggiatura, è intrattenimento testuale, magari divertente, per carità, ma è altro e non dovrebbe preoccuparci”. (Santoni)
Oltre la fine delle poetiche comuni nel campo della narrativa, attestata già dalla metà degli anni Ottanta, pare tuttavia che gli autori interpellati, pur nella loro autonomia, condividano la coscienza della reattività nei confronti dell’entertainment: dunque, tra neomodernismo e realismo, tra fiction e non fiction, tra partecipazione civile e narrativa d’invenzione, come si diceva un tempo, che «cento fiori sfoggino i loro colori; cento scuole facciano a gara».
Fotografia: G. Biscardi, Cornice, Palermo 2017
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