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Teoria e metodi/2 . Critica del nonostante. Perché è ancora necessaria la critica letteraria

 

 Guido Guglielmi, Critica del nonostante. Perché è ancora necessaria la critica letteraria, a cura di Valerio Cuccaroni, prefazione di Niva Lorenzini, Pendragon, Bologna 2016, € 14.

Il bel libro postumo di Guglielmi Critica del nonostante ci fa ragionare sull’utilità e la dignità del pensiero critico e in particolare della critica letteraria, in un tipo di società, quella di mercato, che nonostante le apparenze non offre reali possibilità di libera scelta. La società civile è ridotta a semplice “pubblico”, chiamato a esercitare di volta in volta una fra le varie opzioni, tutte fungibili, che costituiscono un panorama culturale di fatto monotono. Il gusto delle masse viene  standardizzato e uniformato, per cui non si sceglie più. Piuttosto si eseguono “ordini” dolcemente impartiti, secondo procedure mentali inoculate nel vissuto più intimo delle persone. Viene così meno una reale capacità di scegliere, oltre che il bisogno di farlo. Tutto questo ha molto a che fare con il bisogno della critica.

Il volume di G. ha come pregnante sottotitolo: «perché è ancora necessaria la critica letteraria». I saggi, tutti scritti e pubblicati fra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, sono divisi in due gruppi. Il primo comprende degli interventi di natura teorica; il secondo si concentra su autori centrali del modernismo novecentesco italiano ed europeo (Joyce, Svevo, Beckett). La silloge si chiude con un penetrante saggio su Corporale di Volponi, uno scrittore che intrattiene col modernismo fecondissimi rapporti. In questo articolo tratterò quasi esclusivamente di questioni legate alla prima parte del libro. Il punto cruciale attorno a cui si svolge il discorso di G. è infatti il postmoderno e la sua critica.

 

Nonostante il postmoderno

La cultura del postmoderno è vista essenzialmente da G. come la «cultura di una società di consumatori». Da un punto di vista estetico assisteremmo a un rovesciamento dell’avanguardia che cercava di trasformare il consumatore, ovvero il lettore, in produttore. Adesso il consumo assume una netta preminenza rispetto al momento della produzione. In questo senso la questione della ricezione diventa decisiva, perché quest’ultima soppianta la produzione. E questo vale sia al livello della produzione materiale, sia a quello della riproduzione sociale. All’interno di questa dinamica si situa pienamente la crisi della critica e di un certo tipo di letteratura non digestiva e non di consumo, ma complessa e problematica. Una letteratura incline a lasciare sfrangiati e aperti i margini della interpretazione testuale, piuttosto che a rinchiuderli in schemi logori, banali; di certo facilmente consumabili. Per G. la letteratura modernista, col suo «ascetismo estetico» (Adorno), si oppone al riduzionismo merceologico in atto. Ma lo fa insieme alla critica letteraria, in un fecondo rapporto di coimplicazione, per cui non c’è critica senza letteratura, e viceversa. Scrive l’autore: «La ricezione diventa importante quando diventa produttiva, cioè produce la critica».

Essere percepiti è tutto

La perdita della dimensione temporale e l’appiattimento storico tipici del postmoderno conducono a degli evidenti effetti di derealizzazione, per cui esse est percipi. La fantasmagoria spettrale delle merci e dei simulacri prende il posto del reale, lo svuota dall’interno, diventando un paradigma esperienziale diffuso, onnipervasivo, totalizzante. Fortini aveva parlato non a torto di «surrealismo di massa». Ma l’importanza dell’essere percepiti, cioè l’elemento spettacolare della nostra società non è totale appannaggio della fase postmoderna. È qualcosa che arriva, probabilmente, da più lontano, e che alcuni scrittori particolarmente sensibili hanno saputo intercettare e rappresentare sulla pagina letteraria. Ad esempio Joyce, cui G. dedica delle interessantissime osservazioni, nel quadro di un parallelo con Svevo. Ne trascelgo una su tutte. Quella per cui nella tecnica narrativa «impressionista» di Joyce «non è importante l’oggetto, ma il suo percipi, il suo essere percepito». Tracce di derealizzazione nel cuore del modernismo? Può darsi. Sta di fatto che G. sottolinea nell’opera di Joyce la massiccia presenza di un versante descrittivo e una netta preminenza spaziale, che mina alla base l’ordine narrativo temporale. Nell’Ulisse si ha «intensificazione della descrizione, ed ellissi della narrazione». Joyce «trasforma la storia in descrizione e geografia».

Ma il problema della crisi della critica nella fase storica del postmoderno ha per G. implicazioni ancora più vaste.

Dall’egemonia al dominio?

L’esercizio della critica è storicamente uno degli elementi distintivi della società democratico-borghese d’impronta illuministica. Il borghese non mira solo a comandare, ma ha bisogno di giustificare agli occhi di tutti il proprio potere, vuole convincere le altre classi sociali della giustezza del proprio privilegio. Gramsci ha parlato di una transizione dalla sfera aristocratica del dominio tirannico all’egemonia democratica. Non è dunque un caso che tra romanticismo e modernismo la critica non abbia mai smesso di accumulare un indiscutibile potere simbolico. Per De Sanctis opera e critica dovevano formare un’unità organica solidale, all’insegna della consapevolezza. La critica infatti «non deve dissolvere l’universo poetico; dee mostrarmi la stessa unità divenuta ragione, coscienza di sé stessa». È invece proprio nell’agguerrito criticismo kantiano che G. individua al contrario l’origine, ovviamente involontaria, di un lungo processo culturale che porterà all’odierna «critica della critica». La «libertà dell’arte» teorizzata da Kant, ritrae lo scrittore nell’atto di sganciarsi dalle convenzioni estetiche. L’arte non è più vista come riproduzione mimetica, ma come assoluta creatività, produttività scevra da mediazioni concettuali. Ma, precisa il saggista, si tratta di «una libertà da assicurare contro i vincoli etici ed estetici che non erano più giustificati in quella che era avviata ad essere la società di mercato».

La deriva del senso comune, per cui la critica è degna del massimo discredito, è da porre in rapporto anche con il trionfo epistemologico dello scientismo e dello strutturalismo. Il primo squalifica a priori ogni tipo di giudizio che non sia ricalcato sul modello scientifico. Ma qui G. precisa che gli oggetti positivi e gli oggetti storici non appartengono allo stesso insieme concettuale: «per gli oggetti storici vale la ragione dialettica, non quella logico-formale». Il secondo antepone la lingua all’autore e dunque, implicando «non una produzione del soggetto, ma una condizione del soggetto», induce a un certo grado di passività.

Uno degli interrogativi più pressanti, e stimolanti, che il libro di G. ci lascia è dunque così formulabile: si può leggere la crisi della critica, rappresentata dal momento del postmoderno, come segnale pericoloso di un sostanziale trionfo del mondo del dominio?

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