Trump o Clinton? Sì o no? Liceo Mamiani o Tasso? Che cosa le ultime vicende elettorali italiane e mondiali ci insegnano sull’ossessione per le classifiche tra scuole
Se fossi genitore e dovessi decidere a quale scuola iscrivere mio figlio, probabilmente farei così: scorrerei fino al fondo la classifica stilata anche quest’anno dalla Fondazione Agnelli (Eduscopio) e sceglierei il peggior liceo d’Italia. Sai mai che alla Fondazione ci prendano come i sondaggisti americani con la vittoria della Clinton o come Matteo Renzi con la percentuale di italiani che non lo amano.
Vergognarsi delle proprie pessime opinioni
L’elezione di Trump non era stata prevista da nessuno; è probabile che Renzi prevedesse la vittoria del no, ma non in queste proporzioni. Forse guardando alla recente virata anti-sistema della politica europea avremmo potuto almeno avere fondati sospetti; ma anche limitandosi a parlare soltanto dei sondaggi americani, l’affermazione è falsa.
Leggo su Repubblica del 16 novembre la storia di un economista, Arie Kapteyn, dell’Università della California del Sud. Lui quell’elezione l’aveva prevista eccome, anzi, per questo era stato perfino irriso e velatamente minacciato. Kapteyn ammette: tutti i sondaggi sono fallibili, anche il mio, infatti avevo previsto un vantaggio maggiore per Trump. Però c’è un fatto: è l’unico che abbia sbagliato i margini della previsione, non la previsione stessa.
Come ha fatto? Ha capito che le modalità con le quali i sondaggisti raccolgono oggi i dati non funzionano, per due ordini di ragioni: il “campione” non viene fidelizzato e motivato; a un sondaggista si può mentire, e sono soprattutto quanti hanno votato Trump che non si sono lasciati inquadrare. Kapteyn ha usato un sistema apparentemente più macchinoso e datato: se oggi si usa quasi soltanto la Rete, che garantisce facile accessibilità, risposte rapide, poca fatica, egli ha usato la vecchia posta e ha garantito un compenso in denaro; soprattutto, non ha preso di punta gli intervistati (“per chi voterà?”), come hanno fatto i colleghi, ma ha costruito un sistema più sofisticato per sondare l’intenzione di voto, prevedendo che ci si autoassegnasse la probabilità di votare ciascuno dei candidati, probabilità poi raffrontata alla scelta nelle elezioni del 2012.
Leggendo le parole di Kapteyn, è evidente che egli ha capito una cosa molto semplice: chi partecipa a un sondaggio non è un “campione”, ma un essere in carne e ossa, che, innanzitutto, va motivato a perdere un po’ del suo tempo per rispondere alle domande e, soprattutto, che ha intenzioni celate, pudori, ambiguità, perché partecipa a “giochi di faccia”, per dirla con Goffman, ovvero tiene a preservare la propria credibilità sociale. In altre parole: se Trump fa emergere le nostre viscere, in pubblico ci vergogniamo ancora di mostrarle (c’è bisogno di aggiungere “per fortuna”?), fatta eccezione, naturalmente, per qualche leghista o suprematista bianco. Noi in Italia non dovremmo stupirci: non era forse un ritornello della Prima Repubblica quello per cui tutti votavano Dc ma nessuno lo diceva?
Kapteyn ha sfumato l’invasività delle domande dirette, non ha chiesto di denudarsi in pubblico, ha rispettato la vergogna sociale di dire ad alta voce “sì, voterei uno xenofobo mitomane sessista perché è pur sempre meglio di una della casta” (naturalmente le ragioni della vittoria di Trump sono anche molte altre) e si è avvicinato, almeno un po’ di più degli altri, alla realtà delle scelte elettorali.
A favore dei dati, contro i dati
Ecco il punto. Quando l’ansia di ottenere un risultato – di avere un dato – sopravanza la considerazione su come lo si ottiene, quando si ignorano totalmente le semplificazioni e le riduzioni cui si sottopone la realtà per arrivarci, si commette sempre un arbitrio.
Naturalmente non c’è nulla di strano o riprovevole se nell’attuale incertezza di confini e prospettive delle nostre società complesse tutti ci appigliamo a qualche punto fermo: da qualche parte dovrà pur esserci un terreno solido su cui piantare fermamente i piedi. Ma ciò che è comprensibile a parte subiecti lo è molto meno a parte obiecti: i “dati” non sono “dati”, hanno bisogno di interpretazione e bisogna considerare attentamente cosa possono dirci e, soprattutto, cosa non possono dirci.
Che cosa ci dicono i “dati” sulla scuola? Ma, più precisamente, che cosa ci dicono i dati sulla scuola che ci fornisce Eduscopio, quella che è diventata la principale fonte “obiettiva” sui risultati degli studenti dopo il diploma?
I dati della ricerca della Fondazione Agnelli sono basati su rilevazioni precise e complesse: non si limitano a verificare una sola “prestazione” degli studenti, come sarebbe il considerare i voti all’Esame di Stato o nelle prove Invalsi, perché incrociano il numero di esami e il voto in ciascuno di essi degli studenti provenienti dai licei e dagli istituti tecnici d’Italia. Si tratta perciò di una seria ricerca longitudinale della resa all’università, rapportata alla scuola superiore frequentata. Non ho alcuna intenzione di fare una critica della metodologia della ricerca, per la quale non ho le competenze. Però credo che da persona interessata ai destini della scuola abbia il diritto di domandarmi quale influenza abbia una classifica come questa sui nostri discorsi.
Si possono raccogliere dati per scopi diversi, ad esempio per monitorare un processo, per individuare correlazioni statistiche fra fenomeni, per indagare le cause di un malfunzionamento, per fare una diagnosi che prelude a una cura.
L’obiettivo di Eduscopio è quello di fornire empowerment agli studenti della terza media e ai loro genitori nella scelta delle scuole superiori. Al centro, insomma, non c’è la scuola, la sua salute, le cure per le sue possibili malattie, ma c’è la scelta individuale (individualistica?) delle famiglie; e questa scelta, si ritiene, deve essere fondata su dati affidabili e trasparenti, uscendo dalla condizione di opacità per la quale è il passaparola fra genitori o la vaga “fama” di un istituto a guidare la decisione. È uno scopo legittimo, però gravido di conseguenze. Si sono già scritti fiumi d’inchiostro su alcuni effetti perversi dell’autonomia, con la scuola che diventa un’agenzia che eroga un servizio e le famiglie che diventano clienti nella scelta fra prodotti. In quest’ottica, nulla di strano che la pubblicità sul prodotto debba essere non ingannevole e obiettiva.
Non è nemmeno il caso di riaprire la discussione sull’autonomia scolastica, che è peraltro argomento ben più complesso della mera competitività tra istituti. Ma la competizione innescata da una classifica, intenzione esplicitamente perseguita dalla Fondazione Agnelli, ha almeno una ricaduta molto preoccupante: la narrazione che ne fanno i media.
Il reality show della scelta della scuola
Ecco qualche stralcio da La Repubblica e dal Corriere della sera del 16 novembre 2016: il Parini e il Berchet «da anni cercano di sfilarsi a vicenda la poltrona del liceo di Milano per eccellenza»; a Torino «l’understatement sabaudo [sic] impone di non vantarsi né di disperarsi, ma alla fine tutte le scuole torinesi attendono con curiosità le classifiche della Fondazione Agnelli», e si scopre che i migliori sono il Cavour, l’Umberto I e il Galileo Ferraris; a Roma assistiamo addirittura a un confronto in stile Coppi e Bartali nell’«eterna rivalità tra Tasso e Mamiani». Il titolo di Repubblica è «Licei d’Italia, promossi e bocciati. “Da qui escono gli studenti migliori”», quello del Corriere della sera è «Scuole buone (e cattive)».
Queste parole sono accompagnate su entrambi i giornali da una carta dell’Italia con didascalie geolocalizzate, a indicare, città per città, le scuole eccellenti. Particolare è l’insistenza sulla vetta della classifica e sui primi due tre piazzamenti: come nel Palio di Siena, il secondo arrivato, pur se, a rigore, si trova in ottima posizione, ne esce “purgato”. È l’altra scuola che ha vinto.
Insomma, qual è la morale di questa narrazione? Che le categorie con le quali leggiamo il panorama scolastico italiano non sono nemmeno quelle della competizione, della “meritocrazia” e dell’“eccellenza”, ma quelle dell’agonismo individualistico, della lotta al vertice. Certo, bisogna ammettere che, letta sulle pagine di un quotidiano, la battaglia perde molti dei suoi caratteri cruenti e diventa quasi romanzesca, divertente. “Ma dai! Guarda in cima il mio ex liceo!”, “e tu? tu hai fatto quell’altro, vero?”.
È anche una narrazione che, lo si ammetterà, non è recente, perché risale almeno al conflitto tra Achille ed Ettore. Ma è una narrazione, oggi, onnipervasiva: dai reality show canori a quelli culinari, dai Pil ai debiti, dalle città in cui si vive meglio e peggio ai sistemi scolastici mondiali, tutto è confrontato a tutto, e tutto deve rendere conto della propria posizione nel ranking. Ci eccita la nobile tenzone tra Achille ed Ettore, ma anche quella furbesca tra chef Rubio e chef Cracco.
E mentre i contendenti lottano, noi tutti siamo collocati nella posizione di spettatori dello show (ir)reale: dalla sicura condizione della riva, guardiamo il nostro simile dibattersi e, magari, affogare. Ci sfugge, naturalmente, che siamo tutti imbarcati. La scuola è di tutti noi.
Forse, per analizzare la condizione della scuola e per parlarne in pubblico, non ci farebbe male riscoprire la virtù della pazienza di cui ha fatto mostra Kapteyn. Altrimenti il rischio è di perdersi per strada parecchi pezzi della realtà.
Fotografia: G. Biscardi, Il libro bianco, Palermo 2016.
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