Esuli di carta. Una rappresentazione romanzesca della precarietà intellettuale globale
“Studiare in America” è un’esperienza che, nell’immaginario collettivo italiano, risulta ormai scissa fra vecchio prestigio e nuova angoscia, emblema di un ambìto successo e, al contempo, esilio forzato e anticamera della precarizzazione internazionale dei lavoratori della conoscenza. Un giovane studioso italiano, reduce da un Phd umanistico negli Stati Uniti, prova a farne ora materia di narrazione romanzesca. Beppi Chiuppani in Quando studiavamo in America (Il Sirente editore, 2016) tenta di recuperare coraggiosamente a tal fine due modelli forti della narrativa moderna, il romanzo di formazione e il romanzo-saggio, per raccontare l’esperienza del protagonista Marco, un dottorando veneto a Chicago negli anni precedenti e successivi all’elezione di Obama.
La voce del narratore-testimone, che si finge abbia condiviso con il personaggio le vicende del campus, dichiara di muovere dall’intento di capire in cosa diverga il suo tragitto da quello dell’amico «diventato un altro uomo» (p. 7) al ritorno in Italia. Ma, a ben guardare, tra narratore e protagonista la distanza è assai esile: il trattamento di un dettaglio anticipatore, la piccola agnizione data dei calici plastificati in equilibrio, perfettamente simili a quelli in vetro, in una festa universitaria americana, lo rivela già in esergo. L’esperienza di Marco, secondo lo schema della Bildung che fin dal Settecento ha opposto provincia e metropoli, muove dall’entusiasmo per il modello accademico e sociale americano e dal parallelo disgusto per la povertà culturale veneta, al rovesciamento di questa iniziale opposizione binaria.
Due sono i nuclei attorno a cui ruotano le frequenti digressioni, descrittive o argomentative: la descrizione dello spazio iperurbano di Chicago comparato allo spazio veneto e la riflessione sul sistema universitario americano come sineddoche dell’intera civiltà liberale colta in uno dei suoi luoghi simbolici. In tal modo, il libro è anche il resoconto di un viaggio, lungo una tradizione (Moravia, Pasolini, Parise…) di reportage spaesanti nell’altrove statunitense: esemplare, a questo riguardo, il rilievo dato alla facilità “infantile” con cui ci si può muovere alla guida di un’auto o negli uffici del campus, analoga a quella su cui ha riflettuto Baudrillard in America (p.101) .
In uno dei suoi rientri in Italia, Marco compara i due spazi (la provincia veneta e la megalopoli americana) confondendone i dati delle percezioni: un tempio canoviano rivisto allo specchietto retrovisore, le ville palladiane «coi parchi mozzati dall’asfalto», il revival architettonico che riproduce le epoche precedenti sia intorno a Vicenza che nei grattacieli di Michigan Avenue. A metà della vicenda, il giovane protagonista si sente infatti «confuso»: «era come se adesso l’una e l’altra immagine – Vicenza e Chicago – fossero sì il rovescio l’una dell’altra, e tuttavia non in maniera da essere compiutamente contraddittorie quanto entrambe parti di uno stesso sistema (…) come se ogni Atene avesse in fondo bisogno di una sua Roma e soprattutto dei suoi legionari (p. 137)».
All’indistinzione segue tuttavia, in una crescente presa di coscienza, una nuova capacità di discernimento. Al ritorno in America, accompagnato in auto dalla bella Sajani il protagonista ha modo di immergersi nel cuore dei quartieri più alti, «inaudito sfoggio di ricchezza privata» e di «falsità architettonica» e di esperire, d’un tratto, la vera differenza tra questo spazio allegorico imperiale e quello veneto. Tanto da poter riattivare, nella sua mente sempre cogitante, l’idea di “borghesia”, un concetto sociologico ritenuto desueto: «una borghesia al quadrato», in cui «la ricchezza non era rendita o mero sfoggio» ma «il culmine di una serie di azioni che essa quindi rappresentava» (pp. 155-56).
Non è un caso, dunque, che il libro si chiuda, nel capitolo Riapertura, con due immagini contrapposte e tra loro non più reversibili: quella di un vecchio professore americano e quella dello spazio intorno a Treviso. Il vecchietto accademico arzillo e feroce, dalla vita passata fra workshop, conferenze e articoli, è un economista della Chicago School, il gruppo che, dopo il Golpe in Cile, ha fatto di quella università il centro del modello economico e ideologico neoliberista egemone in occidente. Per lui, Marco avverte acuta pietà: quel modello gli appare «in tutta la sua natura dominatrice, ma anche velleitaria e fallimentare». (p. 260) Lo spazio del definitivo ritorno a casa è sempre quello del periferico degrado veneto, con le file di platani dalle radici affioranti ai margini dell’asfalto, con le croci o fotografie alla memoria delle vittime degli incidenti, con i resti di parchi «tranciati dalla viabilità». Eppure quelle ferite nel «corpo dell’Italia», agli occhi di Marco sembrano ora feconde di futuro perché riproducono «le fessure, i paradossi, le contraddizioni» della scrittura letteraria, e alludono alla vitalità mentale e creativa che la bolla plastificata del campus avrebbe spento per sempre in una progressiva atrofia, nell’«avvenuta tecnicizzazione del sapere letterario» (p. 221). E’ solo appigliandosi a quella crepa o fessura della sua provincia malandata che al protagonista sembra possibile una rinascita dell’esperienza e della scrittura.
L’addio di Marco a Chicago, dunque, si qualifica come il tentativo di riapertura di senso di una generazione: decrescita, conversazione, letteratura, socialità, «con la sua straordinaria impurità» (p. 277). Si connota insomma come valorizzazione dell’ «anello che non tiene» e della provincia e come conseguente definitivo rigetto del fascino dei processi di omologazione e standardizzazione di cui Chicago è, nel testo, emblema. I finti calici di plastica che non si rompono cadendo a terra, scoperti in esergo dal narratore sono, dunque, segno e sintomo della scoperta del vuoto fallimentare dell’apologia dell’occidente: della finta «pace morale in cui vivono gli americani e di quella loro straordinaria convinzione e serietà, così pervasa di idealismo che ogni altro tipo di moralità cessa per loro di avere senso». Una «pace morale» fittizia e di superficie perché impermeabile al dialogo e al conflitto: «non sono in grado di conversare perché non si può iniziare una conversazione senza essere disponibili a mettere in qualche modo in discussione i propri principi» (p. 224).
Se i risultati cognitivi a cui punta la narrazione di Chiuppani sono, dunque, molto alti e coraggiosi riguardo allo stato presente delle cose (qualcosa del genere accade anche nel suo primo romanzo, Medio occidente, 2014, ambientato fra Padova e la Siria) la forza stilistica del testo non pare reggerli per intero. La forma e lo stile di Quando studiavamo in America sembrano dettati dalla necessità di condurre costantemente per mano il lettore: insistenza esibita su elementi di regia («se un giorno riuscissi a scrivere», «diamo tempo al tempo», «ma non precipitiamo e andiamo con ordine»), lingua piana, inserzioni enciclopediche sui luoghi della narrazione, continue digressioni dubitative fin troppo argomentate. Questo intento didascalico a bassa figuralità contrasta con quanto sembra promettere la titolazione dell’indice fatta viceversa di nove movimenti o situazioni, vere e proprie memos calviniane del tutto metaforiche, astratte e geometriche (Visione, Impulso, Purezza, Struttura, Flusso Sbocco, Affioramento, Ritrovamento, Riapertura) che ripartiscono la vicenda in capitoli contraddistinti da numeri romani.
La “conclusione inaspettata” della lezione americana di Marco («che la cultura italiana fosse ancora vitale proprio perché non del tutto moderna», p. 253) non giunge al lettore in fondo così inaspettata: lo svelamento dell’altra faccia della modernità neoliberale, nell’epoca della sua crisi, sembra preparato minuziosamente ad ogni pagina del romanzo, sin dall’inizio. Nel trionfo vuoto della Western way of life, l’esperienza di una ricerca critica e costruttiva per un giovane probabilmente oggi può darsi, evitando l’anestesia del cinismo, disgusto o disperazione, solo in forma romanzesca e figurale: a causa della palese, tragica mancanza di un’alternativa politica. Ma ancora non è stato inventato il dispositivo discorsivo di questa ricerca di un senso e, insieme, di un destino generazionale, disposto fra precarietà e speranza, fra locale e globale. Per il momento, Beppi Chiuppani ne indica, con coraggio, alcuni vettori praticabili (il saggismo narrativo, la Bildung), accentuandone (con un eccesso sintomatico di autocontrollo) la latitudine didattica e esplicativa, confinando ai titoli una rarefatta ambiguità metaforica e assumendo le vesti didascaliche di un narratore di secondo grado del tutto implicato con il suo personaggio, in modo che l’intento di capire domina su quello di rappresentare, quello di descrivere sul raccontare.
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