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Perché la scuola non uccida la creatività

 Pochi mesi fa è arrivata anche in Italia la nuova edizione di un libro fortunato di Ken Robinson, Out of our minds, uscito la prima volta nel 2001. Nella traduzione italiana il sottotitolo propositivo Learning to be creative ha assunto il colore fosco della cronaca nera ed è diventato Perché la scuola uccide la creatività (versione assertiva dell’interrogativo Do schools kill creativity?, titolo di una famosa conferenza TED dell’autore). Un’accusa diretta all’istituzione scolastica, insomma; e la promessa implicita di spiegare dettagli e movente del delitto.

La promessa è disattesa e il libro è importante, non per la soluzione del delitto, che di fatto (e per fortuna) non fornisce. Al contrario, le ragioni per cui trovo utile questo libro sono legate proprio alla sua natura aperta: più che spiegare, pungola; più che risolvere, fornisce dati per riflettere; più che asserire, dubita.

Si tratta di quasi trecento pagine in cui, funzionali all’intento divulgativo, non mancano le ripetizioni, gli aneddoti e le battute a effetto; ma che, se pazientemente sfrondate da certi addobbi, risultano preziose per orientarsi in un campo minato come quello della creatività nell’insegnamento e nell’apprendimento.

La tesi di fondo di Robinson è nota (almeno per i frequentatori di youtube, dove le sue conferenze TED hanno milioni di visualizzazioni): poiché il nostro sistema educativo affonda le radici nella cultura dell’illuminismo e nel sistema economico nato con la prima rivoluzione industriale, vi prevalgono un’idea di intelligenza basata sul ragionamento logico deduttivo e un’organizzazione modellata su quella del lavoro nella fabbrica moderna (nei tempi, nei rapporti tra le materie e nella divisione degli studenti in base all’età), in cui, come nella produzione industriale, l’apprendimento è indotto a procedere per tappe standardizzate verso risultati uniformi; da qui una critica al sistema di prove in cui a una domanda corrisponde una sola risposta predefinita, vero e proprio anestetico di quella preziosissima quota di pensiero divergente innata in ciascuno di noi.

Il libro riprende il filo di questa tesi, lo sviluppa e lo tende fissandolo simultaneamente a tre capi: istruzione, economia, cultura. Perché nel «futuro» ci sia una «stretta coordinazione tra loro». Scrive Robinson:

In tutto il mondo, i governi riversano enormi quantità di risorse nella riforma dell’istruzione. Nel frattempo, i decisori politici generalmente restringono il curricolo per dare rilievo a un piccolo insieme di discipline, avviluppano le scuole in una cultura delle valutazioni standardizzate e limitano la discrezione degli insegnanti nel formulare giudizi professionali riguardo a cosa insegnare e come. Queste riforme solitamente soffocano proprio le abilità e le qualità che sono essenziali per affrontare le sfide che ci troviamo di fronte: creatività, conoscenza culturale, comunicazione, collaborazione,  problem solving. […] Paradossalmente, promuovono queste politiche nell’interesse dell’economia. (pp. 25-26)

Per affrontare le grandi sfide culturali ed economiche del presente, non dobbiamo cercare – spiega – nuove risposte a vecchie domande, ma nuove domande; dobbiamo cioè cambiare le idee culturali sulla conoscenza e sull’intelligenza che hanno caratterizzato gli ultimi tre secoli e fondarne, in conclusione, di nuove. La chiave di volta per raggiungere l’ambizioso obiettivo è la promozione di una cultura della creatività a partire dalla scuola. Dal momento che «racchiude la promessa sempre aperta di modi alternativi di vedere, pensare e fare» (p. 161), la capacità creativa stimola l’innovazione in tutti i campi: «in ogni processo creativo oltrepassiamo i confini di quello che sappiamo ora per esplorare nuove possibilità; ci avvaliamo delle abilità che abbiamo ora, spesso estendendole e sviluppandole secondo le necessità» (p. 149).

È questa l’idea forte che attraversa i dieci capitoli del libro. Ma che cos’è la creatività? Robinson la definisce «processo» di generazione di idee «originali e di valore». Benché possa a prima vista apparire scontata, questa descrizione, mettendo l’accento sulla natura processuale dell’atto creativo, è particolarmente calzante e permette di ruotare lo sguardo portando l’attenzione su almeno due aspetti che mi sembrano imprescindibili in una seria didattica “creativa”: l’educazione all’errore e l’educazione al vincolo.

Un processo è fatto di tante tappe: implica errori, ripensamenti, cambiamenti. In particolare il processo creativo, come scrive Robinson, «può implicare false partenze, prove ed errori e una serie di approssimazioni successive lungo il percorso che conduce al risultato definitivo» (p. 265); nelle prime fasi può consistere «nel giocare con un’idea, nel pasticciare o nell’improvvisare sul tema» (p. 149). L’abitudine alla prova e al “pasticcio”, l’educazione all’errore e all’insuccesso sono componenti ineludibile di una didattica che promuova sul serio la creatività. Non insegnare ad affrontare l’insuccesso sarebbe una «svista gravissima» (p.82). Se non si è pronti a sbagliare, non si può sperimentare il processo creativo, occasione che, a sua volta, abitua ad affrontare l’insuccesso. E poiché in quest’ottica ogni indagine conoscitiva, di fatto, è un atto creativo, la creatività non è di esclusiva pertinenza delle arti:

Il lavoro artistico può essere altamente creativo, ma può anche esserlo quello in ogni attività che implichi l’intelligenza. Ci sono molti ottimi motivi per includere le arti nell’istruzione, ma associarle in via esclusiva alla creatività è un errore. Implica che le arti sono principalmente delle opportunità per prendersi una pausa dal lavoro scolastico più serio: un’occasione per diventare creativi per un po’, un’idea che fraintende la natura sia della creatività sia delle arti. Implica che le altre discipline, come la matematica e le scienze, non siano creative, il che è semplicemente falso. (pp. 246-247).

Che significa, concretamente, promuovere la creatività a scuola? Ancora troppo spesso – lo ricorda giustamente Robinson – questa idea viene associata alla libera espressione individuale, a una sospensione delle regole, a uno stato, insomma, di allegra anarchia. Ma la creatività non richiede «libertà da ogni vincolo» o «carta bianca». Al contrario, sono proprio i «vincoli» a stimolarla: rispettare dei vincoli, delle regole, dei confini, non inibisce l’espressione creativa, bensì le offre «un’impalcatura» che la sostenga nei movimenti.

Una didattica creativa è quella che sa trovare un punto di equilibrio tra rispetto del limite e libertà di pasticciare, fermezza dei vincoli e accettazione dell’errore, tra «rigore e stupore».

Perché la (malintesa) creatività non uccida la scuola.

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