Classi capovolte. Un libro e alcune domande
Un libro e un metodo
Marco Maglioni e Fabio Biscaro sono due insegnanti, il primo insegna chimica a Roma, il secondo informatica a Treviso. Insieme hanno scritto La classe capovolta. Innovare la didattica con la flipped classroom, Erickson, Trento 2016, con una prefazione di Tullio De Mauro, da poco scomparso.
L’insegnamento capovolto prevede, come è noto, che gli alunni entrino in classe già informati dell’argomento che verrà trattato. Avranno infatti già ascoltato e visto a casa un video di presentazione, auspicabilmente preparato da un loro stesso insegnante. La spiegazione avviene quindi a distanza, in differita, mentre in classe rimane molto tempo a disposizione per riprendere, puntualizzare, approfondire, esercitarsi sugli argomenti affrontati insieme all’insegnante, per il quale, una volta disceso dalla cattedra, si prefigura un ruolo di facilitatore del processo didattico, di accompagnatore o, se si preferisce, di tutor d’aula.
Questo il metodo, in breve. Nel libro invece c’è anche altro: consigli pratici su come preparare i video e allestire una videoteca (capitolo 2), alcune considerazioni didattiche e pedagogiche sullo studio individuale e le teorie dell’apprendimento (capitolo 3), riflessioni sulla valutazione (capitolo 4) e sulla didattica per competenze (capitolo 5). Questi capitoli più teorici non sono però i capitoli migliori: provano a fondare la metodologia attraverso ragionamenti non sempre stringenti e principi di autorità che rimangono un po’ estrinseci. La parte più interessante del libro è senz’altro quella esperienziale, da cui si possono ricavare indicazioni, spunti e considerazioni per l’insegnamento concreto.
Un metodo di moda
Il metodo delle classi capovolte sta dilagando rapidamente. Basta aprire un qualsiasi manuale scolastico per accorgersi che gli apparti didattici sono ormai confezionati anche in modalità flipped. Qualche tempo fa il frequentatissimo sito scolastico orizzontescuola ci ricordava che in questi giorni si tiene il terzo convegno internazionale di didattica capovolta. Insomma, la didattica capovolta va di moda.
Credo che la fortuna del metodo consista nella sua apparente chiarezza e facilità d’applicazione: basterebbe cambiare l’ordine dei fattori (presentazione dei contenuti a casa, attività di studio in classe) per trasformare la didattica frontale “istruttivista” in ”costruttivista”; nonché nella sua apparente praticità: inviando per video la lezione si guadagna molto tempo per lavorare in classe e assistere gli studenti nello studio. Del resto a scuola, come si sa, siamo sempre a corto di tempo. Costruttivismo e pragmatismo sono i capisaldi del nuovo metodo.
Tuttavia a me pare che la fortuna delle flipped classrooms poggi su due postulati indimostrati e cioè: sull’ipotesi che la didattica costruttivista (ammesso che la didattica capovolta lo sia) sia di per sé migliore o più efficace di quella tradizionale e sull’idea che il tempo di cui i nostri studenti hanno bisogno debba essere eroso dal tempo didattico delle lezioni. Insomma, i pro della didattica capovolta mi sembrano inoppugnabili solo se si guarda alla scuola in modo un po’ schematico.
Del resto, i dati che provengono dalle ricerche internazionali (Mayer 2004)1, riprese anche da Antonio Calvani (2014) dicono che «i modelli d’istruzione più efficaci rimangono quelli ricettivi e direttivi» e ancora che «le attività didattiche più valide rientrano nella cornice dell’istruzione diretta»2. La cosiddetta istruzione diretta, infatti, non si limita a dare informazioni, ma guida l’apprendimento in modo procedurale, esemplificandolo e modellizzandolo nel momento stesso in cui viene proposto.
Mi mette in allerta anche l’entusiasmo privo di riserve di studiosi come De Mauro che nella prefazione al libro citato in apertura, sulla cresta di un fastidio ormai dilagante verso la lezione frontale, afferma che:
è addirittura impietoso il confronto fra le lezioni frontali dell’anche più bravo professore che incontriamo nelle aule e che tratti una certa materia e buone trasmissioni divulgative del canale culturale europeo Arte o di Piero e Alberto Angela che trattino la stessa materia. Arte o Angela stravincono.
Non mi soffermerò qui a commentare l’affermazione avventata di De Mauro (che non a caso poco dopo avverte la necessità di precisare che gli insegnanti hanno però dalla loro la possibilità di interagire in modo diretto con gli allievi e di lavorare al loro fianco) e neppure rintraccerò argomenti contro la demonizzazione stantia e ingiustificata della lezione frontale di cui abbiamo già discusso in questo blog. Mi porrò invece alcune domande:
-
sull’idea di insegnante che si prefigura nella didattica capovolta;
-
sulla validità e sulle implicazioni educative della lezione presentata in video;
-
sul lavoro d’aula con gli studenti.
Avviso i lettori che si tratterà di domande formulate sotto il segno del rifiuto della retorica corrente, che colloca “l’innovazione purchessia” dalla parte del bene e “la tradizione qualunque essa sia” dalla parte del male.
Classi capovolte e insegnanti. Prima domanda: il maestro dove lo metto?
La prima questione che mi sembra interessante riguarda la ridefinizione della funzione dell’insegnante che avviene capovolgendo la lezione. Il docente che utilizza questo metodo deve possedere la capacità di maneggiare con facilità i nuovi strumenti tecnologici, il che è senz’altro un bene, e la disponibilità di tempo necessario per farlo, il che non sempre avviene. È infatti oneroso preparare per ciascuna lezione tenuta in classe altrettanti video di presentazione dei contenuti proposti. Credo che sia ragionevole affermare che se per un’ora di lezione accurata un docente esperto impiega circa venti/tenta minuti di preparazione a casa, per la preparazione di una lezione capovolta è necessario almeno il doppio, se non il triplo, del tempo; dato che non è sufficiente pianificare la lezione e predisporre il materiale, ma è necessario svolgerlo per esteso e caricarlo su un supporto informatico. Non è quindi un caso se le risorse video offerte dalle case editrici sono in aumento o se vengono sempre più usate le videoteche on line e i materiali già disponibili in rete: è inverosimile poter preparare il materiale che occorre per tutte le lezioni di ciascuna classe in modo personale e calibrato per ciascun contesto.
Che ruolo svolge allora in questi casi l’insegnante? Quello di selezionatore di contenuti già esistenti. Il che vuol dire che l’insegnante nell’interazione con gli studenti rinuncia a una buone dose della propria originalità, persino a quella minima che risiede nel ripetere con enfasi individuale quanto scritto nel libro di testo. Ma se così fosse sarebbe un bene attenuare o non far sentire la nostra “voce” personale nella mediazione didattica? E soprattutto, in termini di ricaduta sui ragazzi, è a costo zero far ascoltare loro una voce standard presa da un archivio personale e riutilizzata di classe in classe? Siamo entrati nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’insegnamento? Sappiamo che dell’insegnamento è riproducibile soltanto l’aspetto informativo, mai la situazione concreta e il contenuto educativo, tanto che, anche quando lavoriamo in classi parallele, i nostri piani di lavoro finiscono sempre per essere svolti in modo diverso. L’orizzonte dello studente è sempre inscritto nella lezione del docente. Ed è bene che sia così perché la relazione umana è la base di ogni apprendimento e insegnare non è soltanto comunicare informazioni.
Un secondo elemento, una seconda rinuncia che potrebbe implicare l’adozione di questo metodo riguarda il senso stesso della nostra “presenza” in aula. Il “docente capovolto” sta in classe assumendo prevalentemente il ruolo di “facilitatore” degli apprendimenti e invece affida a un video (come già detto preso da internet nella maggioranza dei casi) il compito di attivare l’interesse, la curiosità, la passione per lo studio. Ma non è questa una forma piuttosto ingenua di rinuncia ad assumere un ruolo da intellettuali (oso dirlo) all’interno della nostra tradizione culturale? Dobbiamo ripiegare su di un ruolo esclusivamente tutoriale per lasciare l’autorità della parola ad altri? E infine, smorzare la nostra presenza in quanto autori di un discorso culturale non è anche una forma di deresponsabilizzazione verso gli alunni stessi, innanzi ai quali ci poniamo sempre meno come modelli di pensiero e di azione da prendere ad esempio? Mettersi al fianco di qualcuno non è un gesto neutro e non comporta necessariamente una maggiore disponibilità ad aiutarlo. Insomma, che fine fanno nella didattica capovolta la voce e la presenza del maestro? Il docente capovolto è un docente stravolto? Davvero Piero Angela stravince su di noi? Per Maglioni e Biscaro non ci sono dubbi: con la flipped classroom «si profila un modello didattico orizzontale dove l’insegnante è il facilitatore e non l’intermediario della conoscenza» (p.28). Nella didattica capovolta l’insegnante non è più un intellettuale.
Classi capovolte, video, tempo e parola. Seconda domanda: bastano 10 minuti in .mp4?
Come si sarà capito ho molte perplessità circa l’uso esclusivo dei video come modalità di presentazione dei contenuti. La prima perplessità, come dicevo, riguarda l’autorialità dei video, che spesso non sono espressione dell’insegnante e finiscono per essere forme di standardizzazione dell’insegnamento, con buona pace per i tentativi di personalizzazione e adattamento dei contenuti e quindi di inclusione didattica. Tralascio però in questa sede questo aspetto che ci porterebbe a discutere di altri problemi della scuola italiana e cioè della sua schizofrenia educativa e culturale.
Mi concentrerò invece su una seconda perplessità che riguarda la natura del medium stesso. Il video presuppone l’asincronia del rapporto educativo e un taglio vertiginoso dei tempi. Gli stessi Maglioni e Biscaro raccomandano ai colleghi di non utilizzare video che durino più di dieci minuti, pena l’assoluta inefficacia del video stesso. Al più, se l’argomento lo richiede, si potranno frammentare i contenuti in più unità di breve durata. Il perché è noto a tutti: senza interazione con l’insegnante la capacità di ascolto degli studenti si estingue presto. Anche nella più noiosa delle lezioni frontali questo aspetto è tenuto in debito conto: se non ci soccorrono la capacità oratoria e inventiva saranno il contatto oculare, la modulazione della voce, il movimento del corpo in aula, alcune domande di controllo, il richiamo verbale a far sì che l’attenzione degli studenti non si spenga del tutto. Parlando in video, invece, non possiamo misurare il grado di noia o di confusione degli studenti, non possiamo ripetere o rispiegare parti della lezione, in breve non abbiamo alcun feedback. L’unica possibilità di essere incisivi è terminare il discorso prima che finisca la concentrazione degli studenti e al più ricapitolare brevemente alla fine quanto detto. Ma con quali conseguenze? Penso con la conseguenza di disabituare i ragazzi ad ascoltare e seguire discorsi complessi e quindi ad articolare ragionamenti elaborati a loro volta. Cosa divento se quotidianamente imparo solo quello che può stare in un video di dieci minuti? E siamo sicuri che proprio tutti i contenuti possono stare in video? Guardando un video, ad esempio, posso ascoltare la musica, ma non posso imparare a suonare. E allora il problema del “fare lezione” è solo rimandato ad un momento successivo, con conseguente aggravio di tempo, o è del tutto abolito, con conseguente perdita secca di ogni complessità?
Inoltre, l’idea che l’immagine conquisti e che invece la parola annoi è un’idea culturalmente subalterna al mondo dello spettacolo, ma del resto se l’insegnante non svolge più un compito di mediazione intellettuale è ragionevole che finisca per avallare l’idea che i video «sono uno strumento molto più coinvolgente del libro di testo e possono essere guardati e riguardati dagli studenti» (p.31). All’interno di questa visione dimissionaria di vari secoli di insegnamento la riproposizione di abitudini da telespettatori faciliterebbe l’apprendimento:
I bambini vengono abituati già dal primo anno di vita a una cultura partecipativa. Se i famosi Teletubbies (dotati di display addirittura sulla pancia) sono i personaggi più amati dai bimbi di tutto il mondo, c’è una ragione. Altri cartoni animati destinati alla fascia tra i 2 e i 7 anni, come Peppa Pig e tanti altri, sono ormai tutti orientati alla condivisione e ai rapporti informali e paritari. Questi personaggi imparano sempre dall’esperienza informale e quando vanno a scuola non incontrano mai dei sapienti, ma sempre adulti che, partendo da un’esperienza, li stimolano al lavoro di gruppo (p.27).
Certo. Credo di comprendere: se il maestro è come Alberto o Piero Angela, l’alunno può benissimo essere come Lala o George pig. L’insegnamento e l’apprendimento sono intrecciati anche all’interno della società dello spettacolo e nell’epoca del consumatore perfetto. Qualche video permette di vivacizzare la lezione, introduce altre forme di linguaggio, rende la lezione più ricca e, come si dice in gergo tecnico, aiuta l’apprendimento attraverso un tipo di insegnamento multimodale. Ma da qui a far parlare in pillole sistematicamente dei video di pochi minuti al nostro posto ne corre.
Classi capovolte e alunni. Terza domanda: chi abbiamo davanti?
Secondo gli autori del libro in questione il momento più interessante della didattica flipped riguarda la seconda parte della lezione, «perché all’improvviso ci si trova con molto tempo a disposizione da utilizzare per attività di ogni tipo. Possiamo portare in aula lo studio individuale, lo svolgimento dei compiti e la fase di interiorizzazione dei contenuti» (p. 35). Il tempo liberato dalla spiegazione, inoltre, aprirebbe le porte alla didattica per competenze, alle strategie e alle metodologie della ricerca scientifica e all’apprendimento collaborativo. Anche in questo caso penso sia interessante discutere più che altro della cornice mentale che organizza e anticipa l’azione didattica proposta. A mio modo di vedere la cornice è formata da due pregiudizi, un’ingenuità e una grave sottovalutazione.
Il primo pregiudizio è -come già visto riguardo al ruolo dell’insegnante- ancora una volta l’idea che il nemico da abbattere ad ogni costo sia la lezione frontale, intesa sempre in modo riduttivo e monologico (va da sé). Va quindi tolto tempo alla voce dell’insegnante e va consegnato alla classe. A questo pregiudizio si associa poi una ingenuità e cioè che l’attivazione di una didattica collaborativa, investigativa e per competenze sia soltanto una questione di tempo. Il secondo pregiudizio, invece, mi preoccupa assai di più e riguarda il modo in cui vengono visti gli alunni:
«Il vecchio materiale didattico […] fatto di libri e fotocopie, non è certamente lo strumento più coinvolgente per i cosiddetti nativi digitali». E ancora «leggere, ripetere, studiare e trascrivere può annoiare e spegnere questi giovani cervelli tecnologicamente modificati» (p. 27).
Insomma, per i nostri studenti, in quanto modificati antropologicamente dalle tecnologie, le forme di testualità tradizionale non andrebbero più bene. Eppure Roberto Casati3, con argomenti al momento mai confutati, ci ha dimostrato che i nativi digitali non esistono. Sono una legittimazione ex post di un indirizzo del nostro sistema di consumo, cui ha fatto gioco un’etichetta inventata da Marc Prensky4 e ripresa in Italia da Paolo Ferri5. Ad oggi non è stata riscontrata nessuna modificazione dei cervelli delle nuove generazioni e non abbiamo evidenza di nessuna nuova forma di intelligenza. Non si nasce predisposti alla fruizione del digitale, semmai nei nuovi dispositivi tecnologici vengono creati dei sistemi di interfaccia con l’utente talmente intuitivi da poter essere attivati (non usati consapevolmente) anche da bambini molto piccoli. Di contro, è ormai acclarata, anche dalle indagini internazionali, la sostanziale inutilità per gli apprendimenti della didattica digitale dura e pura e da più parti è iniziata la stima dei danni.
Ma se i nativi digitali non esistono, non esistono neppure gli inetti ancestrali. È una grave sottovalutazione degli studenti quella di pensare che la loro attività di studio, di rielaborazione e appropriazione personale vada sistematicamente gestita da un docente-allenatore, che proprio mentre viene meno al suo ruolo di insegnante rischia di invadere quello dello studente. Siamo certi che i nostri alunni siano del tutto insofferenti verso la parola, incapaci di ascolto prolungato e totalmente dipendenti dalle immagini? E se è così è questa una tendenza da avallare o da contrastare? E ancora non è paradossale pensare che gli alunni siano tutti uguali in fase di ricezione dei contenuti (al punto che si fornisce loro un video uguale per tutti) e tutti bisognosi di assistenza in fase di rielaborazione e appropriazione dei saperi? I miei alunni passati (di una scuola professionale) e presenti (di un liceo artistico) sono in grado di ascoltare trenta minuti di spiegazione interattiva, di rivolgere domande sensate, di riflettere su quello che dico e di farmi riflettere su quello che dicono. E questo ovviamente non perché le mie lezioni siano perfette, tutt’altro: spesso sono allestite in fretta, supportare da materiali scelti male, interrotte da difficoltà di vario tipo. Ma in ogni caso mi sfidano al dialogo, visto che oltre ad essere dei consumatori digitali sono delle persone intelligenti, qualche volta sorprendenti, e in ogni caso vive. Prima di metterci al loro fianco con la pretesa di aiutarli abbiamo ben capito chi abbiamo davanti?
Vecchi e nuovi metodi: chi sta sbagliando?
Il supporto concettuale alle tesi di Biscaro e Maglioni è assai debole, così come lo è quello empirico, visto che non esistono ad oggi studi che dimostrino l’efficacia del metodo6. E tuttavia non sempre è possibile dare una risposta univoca alle domande che ho formulato. Alcune, anzi, sono state poste in modo volutamente dilemmatico per sottolineare che in questo momento, forse, la classe capovolta è più interessante come oggetto di studio che come pratica didattica. Sospetto infatti che questa, al pari di altre forme di attivismo pedagogico improvvisato, sia più che altro un segnale che ci permette di misurare la trasformazione che stanno attraversando gli insegnanti e la scuola italiana. Un termometro del nostro grado di inquietudine.
Di contro non credo che adottare questo metodo sia una questione da poco, un semplice slittamento delle fasi di lavoro e neppure che si tratti di una vera innovazione. Scrivono Maglioni e Biscaro:
Rupert Murdoch afferma spesso che la scuola rappresenta oggi l’ultimo ostacolo alla rivoluzione digitale, perché non ha ancora compreso l’enorme potenzialità culturale dello strumento audiovisivo accessibile e condiviso. (p. 28).
Con queste convinzioni gli autori, certi di stare dalla parte del progresso, si mettono all’opera e non è escluso che il loro lavoro, se non altro perché fortemente orientato e motivato, possa avere un qualche impatto sulla scuola reale, soprattutto tra le materie scientifiche dove il metodo si sta diffondendo più velocemente. Eppure la concezione degli insegnanti come gangli passivi all’interno di una catena di distribuzione delle conoscenze, la riduzione degli studenti a fruitori digitali incapaci di ascolto profondo e di rielaborazione autonoma prefigurano un’idea di scuola – ma la scuola è allegoria del mondo di domani – come spazio inerte, come colonia di mode e di soluzioni già pronte per l’uso; una visione di scuola, in conclusione, come fucina di consumatori passivi. Oppure mi sbaglio? Tra tutte le domande che ho posto a questa soltanto vorrei poter rispondere con nettezza.
_______________
NOTE
Fotografia: G. Biscardi, Il falso riflesso, Palermo 2013.
1R. E. Mayer, Should there be a three-strikes rule against pure discovery learning? The case for guided method of instruction, in «American Psycologist», 59.
2A. Calvani, Come fare una lezione efficace, Carocci 2014, p. 47
3 R. Casati, Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 58-65.
4M. Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants. On the Horizon, vol. 9, n. 5, MCB University press, 2001
5P. Ferri, Nativi digitali, Bruno Mondadori, Milano 2011
6 Cfr. Magioni Biscaro, La classe capovolta. Innovare la didattica con la flipped classroom, Erickson, Trento 2016, pp. 65-66.
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Caporedattore
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Editore
G.B. Palumbo Editore
RE: Classi capovolte. Un libro e alcune domande
senza saperlo, ho fatto anch’io delle classi capovolte. Ho assegnato qualche lettura dicendo agli studenti che ne avremmo riparlato la lezione seguente.
Risultato? Di solito meno di 1/4 degli studenti aveva letto il brano.
Per funzionare, una classe capovolta dovrebbe avere studenti davvero motivati, che si preparano bene a casa.
Si distraggono di fronte a una lezione frontale e sono capaci di prepararsi in autonomia? E se nella preparazione autonoma non capiscono uno snodo fondamentale del discorso, che fanno? telefonano, anzi chattano con il prof.?