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diretto da Romano Luperini

Daniele 1993 0041

Gli studenti sapranno ancora scrivere in futuro? Sull’”appello dei 600″

L’appello dei 600 professori sul cattivo italiano degli studenti è tutto sbagliato. Eppure hanno ragione.

Non inizio così questo intervento per gusto del paradosso. Lo inizio così perché quando tutti gli altri posti sono già occupati, tocca sedersi dalla parte del torto. Intervengo infatti nel dibattito da buon ultimo.

Le reazioni all’appello sono già state molte. Eccezion fatta per quella solidale, anzi di rilancio aggressivo, di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, tutte sono state critiche, alcune ferocemente critiche. Grossolanamente, possiamo distinguere due generi di repliche: quelle concentrate sul merito “stretto” della questione, l’educazione linguistica (il contro appello di molti linguisti italiani, Giuseppe Bagni per conto del Cidi, Silvana Loiero per conto del Giscel, Alberto Sobrero sempre per il Giscel) e quelle che reagiscono ad aspetti più generali o impliciti dell’appello (Antonio Brusa; Lorenzo Renzi in difesa di Tullio De Mauro; Mariangela Galatea Vaglio nella sua rubrica Non volevo fare la prof; il maestro Franco Lorenzoni; Simone Giusti e Christian Raimo, in un intervento articolato che sintetizza un po’ tutto il dibattito, su Minima et moralia). Il 6 febbraio anche Tutta la città ne parla di Radio Tre ha dedicato una puntata al tema, in un confronto utile e interessante.

Quasi tutto ciò che c’è di sbagliato in quell’appello è stato ampiamente illustrato in questi interventi: approssimazione nell’individuazione del problema e delle sue cause; idee confuse, anzi arcaiche, sull’educazione linguistica, che sembra essere questione riservata alla sola scuola del primo ciclo; soluzioni generiche e punitive, come l’invocare verifiche cadenzate degli apprendimenti a livello nazionale, la presenza di docenti dell’ordine scolastico superiore agli esami conclusivi di ciascun ciclo, la riscrittura delle Indicazioni nazionali, che però già prevedono quanto chiesto nell’appello.

Tutto giusto. Ma quell’appello è un sintomo; persino la sua stessa genericità è un sintomo. E a me pare che ad esso si sia risposto con un accanimento a tratti non meno sintomatico.

Primo sintomo: la fede nelle rilevazioni standardizzate e la squalifica dell’esperienza

Promotore effettivo dell’appello, cui i seicento accademici si sono solo accodati, è il Gruppo di Firenze. Basta fare un giro sul loro blog, per inquadrare abbastanza chiaramente le idee di fondo che li ispirano, gli avversari che si sono scelti, le battaglie che conducono.

Tra le richieste che hanno avanzato nell’appello c’è quella di introdurre

verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo: dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano.

La formulazione non è affatto chiara, perché sembra alludere a un ricorso più esteso alle prove Invalsi; ma prove come il riassunto e la scrittura corsiva a mano non sono standardizzabili. L’impressione è che questa richiesta sia sovradeterminata da una pretesa assai generica di rigore e di obiettività, e che poco altro le dia coerenza. Ma visto che tutti i critici dell’appello hanno inteso questo passaggio come un invito ad estendere l’uso delle prove Invalsi, mi preme osservare una cosa.

Troppo impegnati a leggere dietro quell’invito solo una volontà punitiva nei confronti della scuola, nessuno dei critici ha trovato alcunché da obiettare alla sua logica più profonda: il rafforzamento del controllo centralistico degli apprendimenti tramite l’ormai abituale prelievo statistico di pezzetti di realtà, la loro trasformazione in dati e il successivo inserimento in ricerche e ranking nazionali e internazionali.

Come è possibile che a persone che si sono gettate a capofitto nella polemica contro dei passatisti accigliati che vorrebbero più severità dal Ministero, questo centralismo parascientifico non crei alcun turbamento di coscienza? È una domanda retorica. I passatisti accigliati e i loro critici condividono, in quest’ambito, lo stesso orizzonte di valori.

Infatti fra le accuse mosse al documento (Brusa, Giusti-Raimo) c’è stata quella, pesantemente ironica e squalificante, di essere impressionistico, di non citare neanche un dato. Il problema della scrittura degli studenti c’è, lo ammettono quasi tutti, ma guai a non citare neanche una ricerca se si decide di denunciarlo. A rigore nemmeno io, che vedo quotidianamente con i miei occhi come gli studenti scrivano male, dovrei aprir bocca. La mia non è esperienza: è ubbia privata.

Soprattutto Giusti e Raimo sono caduti nell’equivoco, inerpicandosi fino alla citazione di statistiche sulla dispersione scolastica, sull’analfabetismo funzionale degli adulti, sulle abilità rilevate dall’OCSE, per dimostrare che la scuola deve essere inclusiva e non selettiva. A me però sfugge quale sia la pertinenza di questi dati rispetto al problema della scrittura degli studenti.

Decisamente più utile sarebbe stato citare, ad esempio, Come scrivono gli adolescenti. Un’indagine sulla scrittura scolastica e sulla didattica della scrittura (a cura di Pietro Boscolo e Elvira Zuin, Il Mulino, 2014: ospiteremo un intervento della professoressa Zuin prossimamente sul nostro blog), dove si trova un’analisi dettagliata dei testi degli studenti, sia pure attraverso un processo di loro riduzione a fini di misurazione percentuale (procedimenti di coesione, tasso di informatività, …).

Se avessimo ricerche del genere per i nostri anni e per i decenni precedenti (e non le abbiamo, a quanto ne so), potremmo davvero fare un confronto tra il presente e il passato e potremmo stabilire se le cose siano peggiorate o rimaste uguali. Probabilmente scopriremmo che la scrittura degli studenti è, sotto certi aspetti, migliorata (ipotizzo: nell’interferenza dialettale sull’italiano), mentre sotto certi altri è peggiorata (ipotizzo: nella ricchezza lessicale e nella complessità sintattica, ma forse solo negli studenti di fascia medio-alta; quelli che una volta, oggi non più, appartenevano al ceto colto).

Senza questi dati, è impossibile dare la colpa della decadenza della scuola a chicchessia; ma è anche superfluo citarne altri per nulla pertinenti, nazionali o internazionali che siano.

Secondo sintomo: il wishful thinking

Veniamo al merito “stretto” della discussione, l’educazione linguistica. Secondo il Gruppo di Firenze, tra i responsabili del presunto imbarbarimento ci sarebbe l’educazione linguistica democratica degli anni Sessanta-Settanta che si riconosce nella figura di Tullio De Mauro, contro il quale essi hanno polemizzato post mortem («Doverose integrazioni al doveroso omaggio a Tullio De Mauro», 6 febbraio, sul loro blog), citandone una frase sull’insegnamento dell’ortografia. La frase è in verità citata di seconda mano, poiché è ripresa da un intervento di Galli Della Loggia, che infatti l’ha tirata di nuovo fuori nel suo intervento sul Corriere, definendola «maoista»: l’ossessione per la correttezza ortografica come strumento di assuefazione e disciplinamento delle classi subalterne da parte di quelle dominanti.

Prendiamo le importantissime (ma semisconosciute agli insegnanti) Tesi Giscel, di cui De Mauro fu ispiratore. Esse non sostengono affatto che gli strafalcioni dei “poveri” vadano tollerati per simpatia proletaria. Sostengono, fra le altre cose, che la lingua è corpo, che è radicata nella vita biologica, emozionale, intellettuale, sociale, che è fondata insomma su quella «grammatica implicita» che tutti posseggono in quanto parlanti, e che è prioritaria rispetto alla grammatica formalizzata, che qualcuno sa perché l’ha studiata a scuola per fare l’analisi logica e per tradurre dal latino.

Qual è però il problema delle Tesi Giscel? Che nella loro lucida giustezza erano ambiziosissime, ed è forse ancora solo un eufemismo. Non che gli estensori non ne fossero consapevoli:

Non c’è dubbio che seguire i principi dell’educazione linguistica democratica comporta un salto di qualità e quantità in fatto di conoscenze sul linguaggio e sull’educazione. In una prospettiva futura e ottimale che preveda la formazione di insegnanti attraverso un curriculum universitario e postuniversitario adeguato alle esigenze di una società democratica, nel bagaglio dei futuri docenti dovranno entrare competenze finora considerate riservate agli specialisti e staccate l’una dall’altra. Si tratterà allora di integrare nella loro complessiva formazione competenze sul linguaggio e le lingue (di ordine teorico, sociologico, psicologico e storico) e competenze sui processi educativi e le tecniche didattiche. L’obiettivo ultimo, per questa parte, è quello di dare agli insegnanti una consapevolezza critica e creativa delle esigenze che la vita scolastica pone e degli strumenti con cui ad esse rispondere (Tesi 9).

Le Dieci Tesi invitano a curare una enorme quantità di aspetti: il rapporto tra la lingua e l’espressione personale e corporea, il «retroterra linguistico-culturale personale, familiare, ambientale dell’allievo», la priorità della comprensione sulla produzione, l’importanza dell’oralità …

Una delle idee di fondo è che si dovrebbe sempre partire dalla concreta esperienza e competenza implicita del parlante (allora dialettofono, oggi italofono ma secondo una molteplice varietà regionale e socio-culturale), per arrivare, per approssimazioni successive, a una più adulta formalizzazione.

Quest’idea rivoluzionaria è mai stata applicata? Sì, ma non in Italia: in Norvegiai.

La Norvegia ha una condizione sociolinguistica peculiare: ci sono due lingue ufficiali e numerosi dialetti. Come lavorano, fin dalle elementari, nella scuola di quel paese? Non usano grammatiche prescrittive e normative, non usano nemmeno dei libri di testo nazionali. Gli insegnanti partono dal dialetto orale dei bambini e insegnano a trascrivere quello, con una certa libertà. Solo successivamente, e per gradi, si insegna loro a scrivere le due lingue in cui sono scritti libri, giornali, circolari ministeriali (che forse in quel felice paese non esistono). Questo approccio consente di far comprendere in modo spontaneo e non imposto dall’alto, come se l’ortografia fosse una dogma divino indiscutibile, il rapporto tra orale e scritto, tra la propria lingua “corporea” e la pagina a stampa. Ma bisogna dire una cosa importante: fra i dialetti del norvegese e fra questi e le due lingue nazionali c’è una altissima intercomprensibilità. Per avere un’idea di quanto siano affini, si può aggiungere che c’è intercomprensibilità persino al di fuori dei confini linguistici nazionali, tra il norvegese, il danese e lo svedese.

La situazione sociolinguistica dell’italiano è da sempre radicalmente diversa, e non c’è bisogno di rifare qui l’arcinota storia della questione della lingua nell’Italia postunitaria, salvo il ricordarne un episodio rivelatore.

Fatta l’Italia, restava da insegnare agli italiani la loro stessa lingua, visto che, secondo i calcoli fatti proprio da De Mauro, solo il 2,5% dei nostri connazionali la parlava (i toscani, i romani, il ceto colto)ii. Fra le proposte di Alessandro Manzoni, che nel 1868 presiedeva una commissione voluta dal ministro dell’Istruzione Broglio, ci fu quella di sguinzagliare in tutto il territorio nazionale maestri toscani, o vissuti in Toscana, per i quali, insomma, la lingua fosse cosa viva: esperienza “corporea”, si potrebbe dire. La proposta di Manzoni era, ovviamente, politicamente inapplicabile per costi e logistica. Così ci si dovette accontentare di insegnanti che avevano imparato l’italiano solo e soltanto sui libri, qualcuno magari nemmeno troppo bene.

Oggi le cose sono molto diverse, ovvio, e di acqua sotto i ponti ne è passata tanta. Bene o male abbiamo una lingua nazionale. Ma tra le diverse ragioni che potremmo addurre per spiegare la nostra tendenza a un’astrattezza così poco norvegese nell’insegnamento della lingua, questo imprinting non sarà da sottovalutare.

Ho tirato fuori la storia lontana. Naturalmente ci sono moltissime altre ragioni extralinguistiche per cui l’insegnamento della lingua madre funziona bene in Norvegia ma non in Italia (magari, chissà, c’entra anche il petrolio lungo le coste e i soli cinque milioni di abitanti per la cui educazione impiegarne i preziosi proventi). Quello che volevo dimostrare con questo excursus bislacco è che le ragioni per le quali un popolo scrive bene o male la propria lingua sono complesse e stratificate.

Non basta, perciò, esigere severità dalla scuola di base, come chiede il Gruppo di Firenze. Anche perché, se oggi gli studenti scrivono male, sarà soprattutto per l’enorme impatto dell’apprendimento informale che proviene dalla cultura di massa, contro il quale la scuola ha mezzi poveri e limitati.

Ma se hanno ragione le Tesi Giscel – e hanno ragione – per una educazione linguistica finalmente capace di dare strumenti utili a tutti, gli insegnanti dovrebbero essere dei finissimi linguisti, sia a livello teorico che pratico. Ma avere ragione non sempre serve.

Tutti i linguisti intervenuti contro le genericità glottodidattiche dell’appello hanno ricordato che le Indicazioni ministeriali già prescrivono un’educazione linguistica “norvegese” e che le conoscenze e gli studi in merito sono ormai avanzatissimi, basterebbe solo aggiornare il sistema e le pratiche didattiche, ovvero gli insegnanti.

Ma io insegno anche letteratura italiana, lingua latina, letteratura latina, storia, geografia. Si può pensare di fare di me un finissimo cultore di ciascuna di queste materie? Su molte cose vado a orecchio, sono generico. Ed essere generici significa essere astratti, tradire – maledizione – la corporeità del sapere. E della lingua.

C’è poi bisogno di ricordare quali siano le priorità della nostra formazione secondo il più recente Piano di aggiornamento ministeriale? Non certo le discipline e la loro didattica (su questo si veda l’intervento di Bagni).

Insomma, nell’educazione linguistica io sto con le Tesi Giscel, ma temo che il nostro sia un esercizio di wishful thinking.

Terzo e ultimo sintomo: la battaglia tra Progresso e Reazione

Nel testo dell’appello del Gruppo di Firenze si legge:

obiettivo urgente [è] il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti.

In effetti, un’affermazione che fuori dal suo contesto potrebbe addirittura sembrare democratica. Ma il Gruppo di Firenze sembra precisamente il contrario di un covo di democratici.

Ho già detto della polemica contro la frase “maoista” di De Mauro. È stato volgare tirarla fuori per attribuire allo studioso la colpa della decadenza. In effetti si tratta di posizioni ormai consegnate alla storia. O no?

Nel loro intervento, Giusti e Raimo scomodano Bourdieu (sia pure citando parole altrui) e tornano a ribadire quest’idea dell’ortografia come strumento di classe: ne consegue che posizioni come quelle del Gruppo di Firenze sarebbero addirittura reazionarie e classiste.

Nel loro appello, in effetti, non è detto come la severità invocata dovrebbe concretamente realizzarsi. Che cosa si dovrebbe fare se, alla fine del primo ciclo, la “grande maggioranza degli studenti” non dovesse ottenere un “sufficiente possesso degli strumenti linguistici”? Li si dovrebbe bocciare fino a quando non avranno imparato la lezione? Questa è l’impasse in cui cadono tutte le posizioni meramente moralistiche.

Ma qual è l’impasse in cui cadono le posizioni democratiche? Le riflessioni di Mariangela Galatea Vaglio – non a caso un’insegnante, cui tocca confrontasi con tutte le complicazioni della realtà scolastica – sono altamente emblematiche al riguardo. L’appello non piace neanche a lei, cita Rodari, lancia strali contro la scuola classista del passato… ma, poi:

Sì, hanno ragione i professori universitari, che bisogna tornare a fare i dettati, e i riassunti, e le prove di grammatica, e tartassarli perché imparino i verbi. Ma dirò loro di più. Non basta. Non basta tornare ai vecchi programmi per recuperare gli alunni, perché i vecchi programmi non garantiscono quello che dovrebbe essere il compito fondamentale della scuola, e cioè una società più giusta. Bisogna tornare a fare i dettati ma anche in ogni classe andare a recuperare ad uno ad uno quelli che non ce la fanno. Non regalando loro dei voti inutili per far finta che i loro problemi non ci siano, ma seguendoli e tampinandoli per permettere loro di risolverli, quei maledetti problemi, e di imparare davvero. Non consentire loro di essere pigri, non consentire loro di venire su faciloni, perché la vita non consentirà loro di essere questo, e noi dobbiamo prepararli e corazzarli ad affrontare il mondo.

Ha ragione anche la collega, che dice che abbiamo tutti un po’ ragione, che bisogna essere sia molto esigenti sia molto inclusivi. Persino quei reazionari del Gruppo di Firenze, dunque, hanno ragione, pur avendo torto. Sull’apprendimento della lingua non si scherza.

Dobbiamo quindi assicurarci che i nostri studenti sappiano scrivere una tesi di laurea, che non vengano respinti a un colloquio di lavoro per una lettera di presentazione mal redatta, che non siano derisi su un social network per aver scritto “ce troppi politici che rubano”.

Ma fermiamoci un attimo a riflettere. La scrittura è un’attività di straordinaria complessità. Per essere non solo ortograficamente e grammaticalmente corretti (come piace moralisticamente pensare a certi reazionari) ma anche perspicui, scorrevoli, efficaci (perché la scrittura poco chiara è uno strumento di potere con cui si esclude, come volevano sia De Mauro che don Milani) occorre pretendere tantissimo da se stessi, scrivere scrivere scrivere: è richiesto un autodisciplinamento che ha qualcosa di ascetico.

Ma se, nonostante tutta la nostra buona volontà nel tampinare gli studenti perché risolvano il maledetto problema della scrittura, loro non dovessero imparare? Li promuoveremo lo stesso? Senza gli strumenti per un esercizo pieno della cittadinanza democratica?

La nostra società è accelerata: la scrittura richiede lentezza. La nostra società è approssimativa: la scrittura richiede precisione e cura. Può darsi che gli errori di ortografia e una sintassi a pezzi diventeranno a tal punto la norma che ciò non scandalizzerà nessuno e, soprattutto, non danneggerà nessuno, né nella ricerca di un lavoro né nell’espressione del proprio qualunquismo in Rete. L’ortografia, d’altra parte, è l’aspetto più superficiale e culturalizzato della lingua. Petrarca scriveva «ne gliocchi» e «radevolte», eppure l’italiano lo sapeva. Chissà quali errori che oggi ci paiono orrori accetteremo in futuro. Difficile dirlo. Difficile perciò anche per la scuola capire su cosa resistere e su cosa sforzarsi di cambiare, su cosa essere intransigenti e su cosa essere comprensivi.

(Io accolgo gli studenti in ingresso, e spesso constato che non sanno scrivere; li licenzio in uscita, e alcuni – non tutti, ma neppure pochi – ancora non sanno scrivere. Eppure io sono un rompiscatole: faccio scrivere e riscrivere i temi, faccio focus sui loro errori, obbligo all’autocorrezione, uso un blog in cui pubblicare le recensioni ai libri letti, e pure quelle obbligo a riscriverle. Eccetera).

Insomma, tutto è molto difficile e incerto. Una cosa invece non lo è. Immaginare che, in questo futuro opaco per le cose che conterebbe sapere, non mancherà certamente un bel dibattito dal titolo: Reazione contro Progresso. Almeno anche allora non ci annoieremo.

 

NOTE

i Vittorio Dell’Aquila – Gabriele Iannacaro, La pianificazione linguistica. Lingue, società, istituzioni, Carocci, 2004, pp. 65-66 e 124-126.

ii Il calcolo è stato poi messo in discussione negli anni Ottanta da Arrigo Castellani, che portò il dato a circa il 10%. Sul dibattito della lingua e il rapporto tra lingua e scuola nell’Italia postunitaria, cfr. Luca Serianni, Storia della lingua italiana. Il secondo Ottocento, Il Mulino, 1990.


Fotografia: G. Biscardi, Cygne muet, Parigi 1993. 

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