Saggio su Rosso Malpelo
(Testo letto al convegno sul commento organizzato dalla Università per Stranieri di Siena, novembre 2016)
Rosso malpelo: quale commento?
Affronto qui due problemi: il primo è preliminare a ogni commento, perché riguarda quale testo considerare, quando si diano edizioni diverse di una stessa opera e si sia in presenza di varianti significative, il secondo riguarda la questione intertestuale dei debiti, dei prestiti linguistici, delle reminiscenze e delle corrispondenze con altri testi.
Di un terzo problema, che etichetterei sotto il titolo “Rosso Malpelo e noi”, avrei voluto parlare, ma non c’è spazio in mezz’ora. Sarà per un’altra volta, se un’altra volta ci sarà.
Qual è il testo di Rosso Malpelo?
Prestigio storico dei testimoni e ultima volontà dell’autore: questo è il titolo significativo di un saggio teorico di Claudio Giunta[1], sviluppato anche attraverso un confronto fra le due edizioni di Novelle rusticane, quella del 1883 e quella del 1920. Partirò proprio dal dittico da lui proposto.
Anche Vita dei campi presenta due edizioni fondamentali: quella del 1880, la princeps, e quella del 1897, che esprime l’ultima volontà dell’autore. Eppure oggi circola prevalentemente la edizione del 1880, ripresa nei Meridiani ( e poi negli Oscar) curati da Carla Riccardi, che nel 1987 ha pubblicato anche la edizione critica della raccolta[2]. Minore fortuna sembra arridere alla edizione critica di Tellini, uscita nel 1980, che opta invece per la redazione del 1897[3].
Per Riccardi la ragione del prestigio storico deve prevalere in questo caso sull’ultima volontà dell’autore. E tuttavia bisogna intendersi: cosa significa “prestigio storico”?. Riccardi spiega che ha scelto la princeps del 1880 «soprattutto per motivi di ordine storico, in quanto cioè testo veramente significativo nella storia della narrativa italiana e nell’evoluzione della tematica e dello stile verghiano»[4], ma è affermazione convincente solo in parte, in quanto nella storia della narrativa italiana sono state presenti entrambe le redazioni: quella del 1880 ha influenzato gli scrittori fra d’Annunzio da un lato e Tozzi e Pirandello dall’altro, quella del 1897 (ripresa, seppure scorrettamente, dalla mondadoriana dei Perroni nel 1940 e nuovamente nel 1959), gli scrittori fra Pavese e Fenoglio da un lato e Pasolini o Sciascia dall’altro, mentre negli ultimi trentasei anni gli scrittori postmodernisti o ipermodernisti possono essersi ispirati sia all’una che all’altra. Insomma, sul piano della continuità storica, le cose non sono così chiare come si vorrebbe. È vero invece che, per quanto riguarda l’evoluzione stilistica e tematica di Verga, la redazione del 1880 ha un valore storico indubbio in quanto contribuisce a gettare le basi del verismo italiano, mentre quella del 1897 riflette una fase in parte diversa della ricerca verghiana, anch’essa di notevole rilievo ma senza dubbio storicamente meno impattante della prima.
In questa sede però non dell’intera raccolta è questione, ma di una sua singola novella che ha una storia (anche editoriale) molto particolare. Scritta nei primi mesi del 1878 e pubblicata all’inizio di agosto di questo anno sul «Fanfulla della domenica», ristampata con refusi in una edizione pirata della Biblioteca dell’Artigiano curata dal «Patto di fratellanza» nel febbraio 1880[5], Rosso Malpelo fu, pochi mesi dopo, accolta in Vita dei campi, come terzo testo della serie, dopo Fantasticheria e Jeli il pastore, e infine, dopo un’altra pubblicazione intermedia non molto significativa (in Cavalleria rusticana ed altre novelle, del 1892), apparve nella edizione Treves 1897, illustrata da Ferraguti.
Per ragioni di brevità mi concentrerò sulle due versioni in volume, quella del 1880 e l’altra del 1897. A vantaggio della princeps, Riccardi aggiunge un’altra ragione a quella d’ordine storico, una ragione d’ordine linguistico e stilistico, attraverso la quale si fa strada però un criterio non d’ordine storico, bensì di valore estetico. La redazione del 1897, sostiene, sarebbe normalizzatrice e sostanzialmente banalizzante. A suo avviso, seppure non senza contraddizioni, sostituirebbe termini del linguaggio parlato con termini letterari e toscani o toscaneggianti, renderebbe regolare la sintassi riducendo l’indiretto libero (anche in questo caso, però, ammette Riccardi, non senza, di nuovo, contraddizioni e andirivieni fra una soluzione e l’altra) e azzerando lo sperimentalismo del primo Verga verista; insomma anche Rosso Malpelo sarebbe espressione, nel 1897, di una fase di crisi (sia del verismo sia della creatività artistica dell’autore). Ora, se ci limitiamo all’analisi di Rosso Malpelo, si può anche parlare di una certa normalizzazione (nel senso proprio di ritorno a una norma), ma limitata esclusivamente alla sintassi e comunque volta al chiaro tentativo di ridurre il periodo lungo dando vita a un ritmo più intenso e scandito e anche più teso e drammatico. Si sente insomma che l’autore è passato attraverso Mastro-don Gesualdo e vuole far tesoro anche dei risultati raggiunti in quest’opera, ma ciò non significa ovviamente che la nuova forma espressiva esprima necessariamente una fase di decadenza o involuzione (il 1897 è anche l’anno di un piccolo capolavoro verghiano caratterizzato da periodi brevi, asciutti e altamente drammatici, La caccia al lupo).
Invece non direi proprio che ci siano normalizzazione e banalizzazione linguistica e stilistica. Riccardi sostiene che, passando dalla redazione 1880 a quella 1897, si riscontrerebbero in Vita dei campi «due direzioni contraddittorie» di varianti, «una di soppressione di toscanismi, parole letterarie, disusate o imprecise, l’altra di ripescaggio di quei termini letterari, toscani e indefiniti, a scapito di quelli popolari» e che la seconda direzione sarebbe largamente prevalente[6]. Insomma nel 1897 il linguaggio sarebbe normalizzato sullo standard del toscano letterario a svantaggio del parlato popolare. Ma poi, quando Riccardi passa alla esemplificazione, appare chiaro che, almeno per Rosso Malpelo e Jeli il pastore, una evoluzione di questo tipo è tutt’altro che scontata o, tanto meno, prevalente. Non lo è neppure su un piano strettamente numerico: Riccardi riporta infatti in Rosso Malpelo sette esempi di soppressione di toscanismi e di parole letterarie o desuete e di inserimenti, al loro posto, di termini dialettali siciliani (come ingrottato che nel 1897 prende il posto di “cava”) e cinque esempi soltanto del procedimento opposto, e cioè di (cosiddetta) “normalizzazione” (d’altronde, anche per Jeli, gli esempi di normalizzazione che la stessa Riccardi fornisce sono soltanto cinque contro sette, invece, di soppressione di toscanismi e di termini letterari). Inoltre questi esempi di supposta normalizzazione sono assai poco convincenti.
Ecco i cinque esempi, che contrassegno come A, B, C, D, E:
1880 1897
A)sussurrava negli orecchi (101-2) sussurrasse nelle orecchie
B) se avesse visto che razza di cognato se vedeva con qual gente gli toccava imparen-
gli toccava sorbirsi (189-90) tarsi
C) come le mani del babbo che solevano come le mani del babbo, (…) capelli, quan-
accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi tunque fossero così ruvide e callose
com’erano (267-8)
D) sciara (318) lava
E) gli dicevano Bestia (344-5) lo chiamavano Bestia.
Nel primo esempio (A) il passaggio dal plurale in –i di “orecchi” a quello in –e di “orecchie” è scarsamente significativo, tanto è vero che il Dizionario De Mauro marca il secondo termine come ”comune” e il primo come “fondamentale”, e non può comunque essere considerato un omaggio al toscano (in Toscana, infatti, si usa quasi sempre il maschile, sia al singolare che al plurale). Semmai il fatto che un congiuntivo subentri a un imperfetto può sembrare una regolarizzazione dei tempi verbali, ma tale presunta normalizzazione è subito smentita dal secondo esempio (B), dove si ha il procedimento opposto, e cioè il passaggio dal congiuntivo del 1880 all’imperfetto del 1897. Gli esempi terzo (C) e quinto (E) sono egualmente poco significativi (anzi nel 1897 viene abolito in C il termine «solevano», che doveva suonare all’autore troppo scolastico e letterario), mentre la parola “lava” che nel quarto (D) esempio sostituisce il siciliano “sciara” è solo una variatio una tantum dovuta al fatto che nello stesso rigo e subito dopo compare di nuovo il termine siciliano “sciara”, che resta d’altronde frequentissimo in tutto il testo del 1897.
Insomma gli esempi stessi esibiti da Riccardi smentiscono (almeno per Rosso Malpelo ma anche, come non sarebbe difficile dimostrare, per Jeli il pastore) la tesi da lei sostenuta, e cioè che «L’indagine condotta sulle novelle» appurerebbe che «solo una minima percentuale delle varianti» della edizione 1897 si inserirebbe «nella prima direzione correttoria»[7]. È vero il contrario, come possono mostrare, fra l’altro, i seguenti quattro esempi, che ho scelto fra i molti possibili:
1880 1897
F) L’ingegnere se ne andò a veder seppel- Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la
lire Ofelia; e gli altri minatori si strinsero faccia ed urlava, come una bestia davvero.
nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno. –To’- disse infine uno – è Malpelo – Di dove
Nella ressa e nel gran chiacchierìo non bada- È saltato fuori, adesso? Se non fosse stato
rono a una voce di fanciullo, la quale non a- Malpelo non se la sarebbe passata liscia.
veva più nulla di umano, e strillava: – Scava-
te! Scavate qui! Presto! – To’! . disse lo Scian-
cato – è Malpelo!- Da dove è venuto fuori Mal-
pelo?. Se tu non fossi stato Malpelo, non te la
resta scappata, no! – Gli altri si misero a ride-
re, e chi diceva che Malpelo avea il diavolo
dalla sua, un altro che avea il cuoio duro a mo’
dei gatti. (80-87)
G) Quella sera in cui vennero a cercare in tutta L’ingegnere che dirigeva i lavori della ca-
fretta l’ingegnere che dirigeva i lavori della cava, va, si trovava a teatro quella sera, e non
ei si trovava a teatro, e non avrebbe cambiato avrebbe cambiato la sua poltrona con un
la sua poltrona con un trono, perch’era un gran trono, quando vennero a cercarlo per il bab-
dilettante. Rossi rappresentava l’Amleto,e c’era bo di Malpelo, che aveva fatto la morte del
un bellissimo teatro. Sulla porta si vide accer- sorcio.Tutte le femminucce di Monserrato,
chiato da tutte le femminucce di Monserrato, che strillavano e si picchavano il petto per an-
strillavano e si picchiavano il petto per annunzia- nunziare la gran disgrazia ch’era toccata
re la gran disgrazia ch’era toccata a comare San- a comare Santa, la sola, poveretta, che non
ta, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e dicesse nulla, e sbatteva denti invece, quasi
sbatteva i denti quasi fosse di gennaio. L’ingegne- avesse la terzana. L’ingegnere, quando
re, quando gli ebbero detto che il caso era accadu- gli ebbero detto il come e il quando, che
to da circa quattro ore, domandò cosa venissero la disgrazia era accaduta da circa tre ore,
a fare da lui dopo quattro ore. Nondimeno ci andò e Misciu Bestia doveva essere bell’e
con scale e torce a vento, ma passarono altre due arrivato in Paradiso, andò proprio per
ore, e fecero sei. (64-74) scarico di coscienza, con scale e corde, a
fare il buco nella rena.
H) Tutt’a un tratto non disse più nulla, e Mal- Tutt’a un tratto, punf! Malpelo, che si era
pelo, che si era voltato a riporre i ferri nel cor- voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un
bello, udì un rumore sordo e soffocato, come tonfo sordo, come fa la rena traditora allor-
fa la rena allorché si rovescia tutta in una vol- ché fa pancia e si sventra tutta in una volta,
ta; ed il lume si spense. (61-63) ed il lume si spense.
I) e i denti che gli laceravano le viscere i denti che gli laceravano le viscere non lo
non gli avrebbero fatto piegar la schiena come avrebbero fatto piegare di un pelo, come
il più semplice colpo di badile che solevano quando gl accarezzavano la schiena a ba-
dargli onde mettergli in corpo un po’ d vigore dilate, per mettergli in corpo un po’ di vi-
quando salva la ripida viuzza. (295-298). gore nel salire la ripida viuzza.
Le varianti dei brani F e G sono decisive. Non riguardano solo qualche parola o qualche locuzione, ma l’impostazione stessa della narrazione, il punto di vista della voce narrante. In essi a parlare non è più la comunità paesana degli aguzzini, come nel resto della narrazione, ma un narratore colto che, come accadeva in Nedda, interviene a compiangere il suo personaggio e usa modi di dire tipici di un linguaggio borghese. Insomma nella edizione del 1880 il principio verista della impersonalità viene violato e le correzioni rivelano la volontà di ripristinarlo. Non vi si avverte alcuna crisi del verismo. Guardiamo meglio. In F troviamo «la voce del fanciullo la quale non aveva più nulla di umano», dove il termine «fanciullo» esprime una delicatezza espressiva che è agli antipodi del «ragazzaccio» e del «brutto ceffo» che spettano in genere a Malpelo, mentre l’espressione «non aveva più nulla di umano» è chiaramente un commento dello scrittore borghese. Nella variante del 1897 («si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero») il commento è invece dei paesani. Ed è sempre il loro punto di vista anonimo e collettivo, e non più quello individuale dello Sciancato, a riflettere sulle capacità di Malpelo di scamparla. In G le modifiche sono ancor più profonde. L’intero episodio dell’ingegnere, che rivelava l’indignazione dello scrittore (come frequentemente in Nedda), è drasticamente ridimensionato, mentre vengono aboliti i termini, le locuzioni, i riferimenti culturali del mondo borghese: quello a Ofelia è già cassato in F, in G scompaiono anche quelli all’Amleto, al direttore della compagnia teatrale Rossi (si tratta molto probabilmente di Ernesto Rossi, attore e capocomico allora famoso), o modi di dire come «c’era un bellissimo teatro» o «era un gran dilettante». La polemica contro il ritardo dei soccorsi cessa di essere esplicita. Viene anche soppressa l’esagerazione sul ritardo dei tempi di soccorso (sei ore nel 1880, tre o poco più nel 1897). Sono poi aboliti anche alcuni eccessi che rendevano inverosimile la scena, come quelli dei compagni di lavoro che ridono guardando Malpelo che urla subito dopo la tragedia.
Inoltre il linguaggio è rivisto scartando le soluzioni più antiquate e letterarie e scegliendo parole e modi di dire popolari o semplicemente più immediati ed espressivi. Così in F abbiamo «Da dove è saltato fuori Malpelo» al posto di «Da dove è venuto fuori Malpelo», e in G l’inserimento ex novo di modi di dire più vicini al parlato come «la morte del sorcio» o «fare il buco nella rena», o la sostituzione di un riferimento generico e convenzionale («sbatteva i denti quasi fosse in gennaio») con uno invece assai più preciso in quanto riferito all’esperienza reale della malaria («sbatteva i denti quasi avesse la terzana»). D’altronde anche in I un periodo che si presentava nel 1880 faticoso e infelicemente tortuoso e con termini troppo letterari e antiquati («solevano», «onde», entrambi aboliti nel 1897; d’altronde il verbo “solere”, come già abbiamo visto, era stato cassato anche in C), è stato semplificato, reso più svelto ed efficace anche attraverso l’inserimento di espressioni dotate di maggior valore icastico («accarezzavano la schiena», «badilate»). Dal punto di vista linguistico particolare riguardo merita l’esempio F. Qui non solo vengono sostituiti termini poco incisivi o troppo letterari (l’aggettivo «soffocato» viene abolito, il sostantivo «rumore» corretto con uno meno generico e più espressivo, «tonfo»), ma vengono inseriti ex novo interiezioni, termini e locuzioni verbali che rendono l’immediatezza del parlato popolare, come l’onomatopeico «punf!», o «traditora» (più efficace e popolaresco dell’equivalente “traditrice”), o «fa pancia» e «si sventra».
Altro, verrebbe voglia di dire, che banalizzazione e normalizzazione del linguaggio! Sostenere che la novella Rosso Malpelo, alla pari delle altre di Vita dei campi, nel 1897 sarebbe «appesantita da termini letterari imprecisi o toscani»[8] e che vi verrebbero eliminati i modi di dire popolari e le parole dialettali, mi pare del tutto privo di validi riscontri testuali.
Si dirà che questo discorso vale soprattutto per Rosso Malpelo (ma anche Jeli il pastore, come si è detto, potrebbe rientrarvi), e meno per altri racconti di Vita dei campi, ma, anche ammettendo che ciò corrisponda a realtà (bisognerebbe fare un’analisi specifica di ogni singolo testo, e non è questa la sede), resta ovviamente il problema di questa novella, che fra l’altro è indubbiamente il capolavoro della raccolta. Bisognerà per esempio cercare di capire perché Rosso Malpelo è, con Jeli il pastore, la novella più corretta della intera serie. Tutte le altre, infatti, presentano un numero di varianti nettamente inferiore.
La ragione a mio avviso è chiara. La novella è la prima di argomento rusticano scritta da Verga dopo Nedda. In altri termini è il primo tentativo verista di Verga (non è verista infatti Fantasticheria, che è dello stesso periodo, ma per un verso è una dichiarazione di poetica, e per un altro è scritta secondo lo scontato registro borghese e mondano già noto ai lettori di Verga). Ebbene fra Rosso Malpelo e le altre novelle, elaborate di seguito fra la fine del 1879 e i primi mesi del 1880, c’è almeno un anno e mezzo di silenzio. Quando, dopo l’interruzione, Verga riprende a scrivere novelle di tema rusticano, compone Jeli il pastore, che a sua volta è cronologicamente la prima di questa ripresa e dunque, agli occhi dell’autore, analogamente bisognosa di interventi capaci di adeguarla alla nuova poetica, nel frattempo ampiamente sperimentata nella stesura in corso dei Malavoglia ma non ancora nella misura del racconto breve. Se Rosso Malpelo e Jeli il pastore sono le due novelle più corrette della serie, è dunque perché entrambe rappresentano per l’autore una novità ancora provvisoria che lo scrittore sente il bisogno in seguito di consolidare. Per questo Verga ha continuato a lavorare su Rosso Malpelo: si era reso conto che vi aveva adottato soluzioni contraddittorie, che in alcuni punti (come quello della polemica contro l’ingegnere) violavano il principio di impersonalità, e nel 1897 ha corretto coerentemente il testo in questa prospettiva. Insomma nel 1897 Verga ha portato a termine il progetto del 1880 avvalendosi naturalmente degli strumenti acquisiti nel frattempo e particolarmente dell’esperienza stilistica del Mastro.
Rosso Malpelo è una novella nata come riscrittura rovesciata di Nedda. Il tema è lo stesso, la storia di un orfano vittima dell’ambiente sociale, una creatura all’ultimo gradino della scala sociale perseguitata in quanto rossa di capelli o in quanto più debole e indifesa e poi madre illegittima e per questo esclusa dalla comunità che si accanisce contro di lei. Ma il punto di vista è ora rovesciato: mentre in Nedda lo scrittore assume un atteggiamento pietoso di tipo filantropico-sociale e difende esplicitamente il suo personaggio, in Rosso il narratore assume il punto di vista della comunità che lo perseguita. E tuttavia nel Rosso Malpelo del 1878 e del 1880 restano ancora tracce evidenti dell’atteggiamento di Nedda e tutto il lavoro correttorio è volto a superarle e a ispirare il testo al metodo impersonale e verista. Il non aver considerato la genesi e la storia della novella può forse spiegare la singolare incomprensione di cui essa è stata oggetto. Privilegiare la redazione del 1880 significa non concedere adeguato rilievo al lavoro correttorio su un testo che evidentemente Verga considerava in alcuni punti inadeguato e dunque ignorare una volontà d’autore che solo nella ultima redazione, quella del 1897, si esprime completamente.
Mi si obbietterà che un editore deve considerare l’opus nel suo complesso, e cioè nella serie completa delle novelle. Ma in questo caso sarebbe operazione più corretta pubblicare insieme, in parallelo, le due edizioni di Vita dei campi (come fa Tellini per le Novelle rusticane del 1883 e del 1920, pur privilegiando la seconda). Ma quando poi si pubblicasse da sola la novella di Rosso Malpelo, a esempio in una antologia scolastica, non c’è dubbio che si dovrebbe offrire in lettura la redazione definitiva del 1897.
Debiti linguistici e stilistici, slittamenti analogici «reminiscenze dantesche»
Sulla questione degli accostamenti analogici e delle reminiscenze letterarie una studiosa, Maria Gabriella Riccobono, s’impegna a lungo in un densissimo libro di quasi cinquecento pagine dedicate prevalentemente a Rosso Malpelo[9], in cui considera la «memoria poetica» dell’autore, le «relazioni analogiche» e il «fonosimbolismo». Bisogna dunque di necessità partire da questa opera, anche perché può implicitamente farci capire ciò che è giusto e ciò che non è giusto fare nel commento a un testo.
Riccobono ha l’indubbio merito di mostrare l’alto tasso di letterarietà di Rosso Malpelo, illustrandone le corrispondenze o le analogie con testi fondamentali della nostra tradizione, con Foscolo, con Leopardi e soprattutto col Dante dell’Inferno (ma anche, e già qui sarei meno incline a seguirla, con i preromantici e soprattutto con Monti). Che Foscolo, Leopardi e Dante fossero ben percepibili nella novella era cosa nota, ma ora Riccobono intende passare in rassegna tutte le riprese, le corrispondenze, le analogie, i calchi fonici senza però distinguere mai con precisione quando si tratti di riusi consapevoli e oggettivamente dimostrabili, quanto sia da addebitare a una forse ipotizzabile ma insicura e difficilmente accertabile «memoria poetica», ovviamente involontaria, e quanto sia invece il frutto solo di coincidenze casuali (questione, quest’ultima, troppo rapidamente sfiorata in un passo del libro [p. 206]). Una cosa, per esempio, è affermare, come sembra plausibile, che «le strida disperate» di Rosso Malpelo sono una ripresa dell’analogo sintagma di Inf. I, 115 [p. 35], un’altra dire che Verga «riassume» e «traduce» (sic) [p. 34] l’Inferno nel corso di tutta la novella, trovando quasi in ogni parola una ripresa o un’eco di Dante. Una cosa è sostenere legittimamente la possibilità che l’aggettivo “fiero” nel sintagma «fiero orgoglio» indichi non fierezza ma, come in Dante, ferinità [p.63], un’altra sostenere che la «materia canagliesca» (sic) è analoga, che «Ranocchio e per certi versi “Malpelo” sono stati tolti dalla bolgia dei barattieri» (sic) o che «come i Malebranche e come, in genere, tutti i fraudolenti, Malpelo è ingannatore e canagliesco» [p. 34,37, 39].
Mi limito qui a un minimo elenco, fra i numerosissimi possibili, di casi in cui la tendenza di Riccobono all’ iperinterpretazione mi pare non solo evidente ma clamorosa. Ovviamente ogni commentatore ha il dovere di formulare ipotesi nel campo delle reminiscenze e delle riprese, ma deve essere comunque consapevole che, se esse non sono controllate e verificate oggettivamente su accertabili basi filologiche, tali echi possono essere solo vaghe suggestioni analogiche e che una sopraffazione del testo da parte dell’interprete è sempre possibile. Esiste, insomma, una deontologia del commento, e questa va rispettata.
Secondo la studiosa, non solo in Rosso Malpelo c’è una atmosfera infernale e dantesca, il che è evidente, ma l’intera novella sarebbe densa di «reminiscenze dantesche» (è questo, anzi, il titolo di un capitolo). Se Malpelo si chiama cosi non è (o, voglio pensare, non è solo) perché in siciliano esiste il modo di dire popolare russu malu pilu, ma perché il termine sarebbe attratto da quelli analoghi di Malebolge, Malebranche, Malacoda; Ranocchio prenderebbe il nome dai ranocchi di Inf. XII; se si dice che Rosso ha il «diavolo in corpo» sarebbe perché nelle Malebolge ci sono i diavoli; se la rena è «traditora» è perché i traditori stanno in Malebolge; se un minatore dà sulle spalle di Malpelo un calcio che risuona «come su di un tamburo» sarebbe non per un calco ovvio del parlato quotidiano ma una ripresa di Inf, XXX, 103 (dove «l’epa croia» di un peccatore, percossa con un pugno, «sonò come fosse un tamburo»); se Malpelo dopo la morte del padre è più «tristo e cattivo» del solito sarebbe perché questi due aggettivi sono usati da Dante nell’episodio di Ecuba che vede il figlio Polidoro morto (e poco importa se in Dante “cattiva” vale propriamente “prigioniera” e non certo genericamente “sciagurata”, come ipotizzato), e siccome la vedova di Priamo «forsennata latrò sì come cane» (Inf.,XXX, 16-20) di questo verso Verga si sarebbe ricordato quando nei Malavoglia descrive padron ‘Ntoni che, a causa dei reumatismi, abbaierebbe come un cane in seguito appunto a questa reminiscenza dantesca [p. 46]; la scena dei cani che spolpano il grigio risentirebbe dell’atmosfera «cannibalesca» del canto di Ugolino [pp. 205-210]; se l’aria della miniera è «malsana» sarebbe perché in Dante c’è l’«aere sì pien di malizia» di Inf. XXIX, 61 [p. 47]; se Malpelo è «selvatico» sarebbe perché all’inizio dell’Inferno c’è la selva selvaggia; se dice a Ranocchio «è meglio che crepi presto» sarebbe perché Dante usa questo verbo in Inf. XIV, 121 (seppure qui, ma Riccobono non lo rileva, nel senso proprio di “screpolarsi” e non in quello spregiativo di “morire” usato da Malpelo: «la sete onde ti crepa/ la lingua») [p. 48]; la «rena rossa» della novella sarebbe dovuta alla «rena arsiccia» di Inf. XIV, 74 e al «sabbione» della settima bolgia [pp. 59-62], e così via.
Ora deprecare questa sorta di delirio interpretativo (che, come si è visto, sfiora talora il grottesco) è facile, ma serve a poco. Serve di più identificare l’atteggiamento o il metodo, se così si può chiamare, che esso presuppone. Qui siamo in presenza delle estreme propaggini della intertestualità infinita cara all’ideologia e alla pratica del poststutturalismo che ha rovesciato l’approccio scientifico dello strutturalismo mantenendone tuttavia l’atteggiamento antireferenziale e l’ottica astrattamente linguistico-formalistica. Per suggestione analogica o fonica una parola rimanda all’altra, un testo all’altro, un autore all’altro, all’infinito, senza incrociare mai il mondo della storia e della esperienza reale. Non ci sono più cose, ma solo parole. Ma se il commentatore vive in un mondo solo di parole e di echi fonici, finisce per smarrire il principio di realtà, e tutto ciò che legge diventa memoria intertestuale, senza più rispetto per il testo e per il suo vettore comunicativo e referenziale. Si entra insomma nel campo dell’arbitrio interpretativo.
Faccio ancora due esempi per mostrare come è facile scivolare in questo iperinterpretativismo intertestuale. Riccobono dedica ampio spazio alla parola «ghiaja» che è presente nel manoscritto verghiano ma già qui cancellata e sostituita con la parola «rena», che poi compare per ben ventiquattro volte nel testo a stampa sia del 1880 sia del 1897. Secondo lei, i due termini sarebbero «sinonimi» [p. 61] e Verga sceglierebbe il secondo perché attratto dalla «rena» dantesca (e infatti, argomenta, la parola “rena” compare solo in Rosso Malpelo che appunto all’Inferno si ispirerebbe e non nelle altre novelle). Ma “ghiaia” e “rena” non sono affatto sinonimi, hanno significati e contenuti referenziali molto diversi (chi comprerebbe per i vialetti del proprio giardino un quintale di rena?) e infatti Verga non solo ha optato subito per il secondo, ma ha cancellato sempre “ghiaia” non lasciandola neppure come isolata variatio. Resta da spiegare la ragione per cui in un primo tempo, sul manoscritto, aveva fatto ricorso alla parola “ghiaia”. E la ragione che mi sembra di gran lunga più probabile chiama in causa non Dante, bensì la concreta realtà linguistica e referenziale, ed è facilmente accertabile attraverso una ricerca in loco. A Catania chiamano le gallerie sotterranee che percorrono il sottosuolo cittadino, naturali o costruite dall’uomo, “cave di ghiara” (“ghiara” è termine antico ma ancora di frequente uso regionale). In esse si estrae la rena rossa (“ghiara russa”, in dialetto) prodotta dai detriti lavici e particolarmente ricercata per l’edilizia dato che con essa si fa l’intonaco delle case. Dato il loro nome (“cave di ghiara”) Verga in un primo tempo aveva tradotto il termine “ghiara” con la parola corrispondente in italiano corrente, “ghiaia”. Poi, consapevole della differenza di valore semantico che divide in italiano “ghiaia” da “rena” e della ragione che spingeva allo sfruttamento industriale delle cave, e cioè l’estrazione della sabbia rossa, ha scartato “ghiaia” e ha scelto decisamente e definitivamente “rena”. È una spiegazione meno suggestiva e fantasiosa, ma anche molto più verosimile. Il secondo esempio riguarda la parola “greppi” che Verga userebbe nella scena della visita al carcame del grigio (i cani «si aggiravano ustolando sui greppi») per attrazione da Inf. XXX, 95 [p. 47]. Ovviamente è una ipotesi dotata di una qualche, seppure scarsa, attendibilità. Ma perché il termine non potrebbe derivare, per esempio, da Ariosto (dove compare associato alla parola “traditore”, che, come si è visto, tanta importanza ha per Riccobono: Orl. Fur. XXIV, 23: «Io me n’andai, poi che la cosa seppi,/ il traditor cercando fra quei greppi»), o dai romanzi storici di Guerrazzi, dove è documentato e che Verga aveva sicuramente letto e imitato nella sua esperienza giovanile di autore di romanzi di questo tipo o, ancor più probabilmente, dal Manzoni del coro famosissimo dell’Adelchi, Dagli atri muschiosi, dai fori cadenti, certamente conosciuto alla scuola patriottica di Antonino Abate frequentata da Verga adolescente, dove troviamo, a proposito delle imprese guerresche dei Franchi, «per greppi senz’orma le corse affannose»? Voglio dire che Dante è il padre della lingua italiana, il suo lessico costituisce da solo oltre la metà dell’attuale patrimonio linguistico dell’Italia, e per affermare la ripresa o la reminiscenza specifica di una parola dalla Commedia occorrerebbe qualche solido argomento in più. Sarebbe stato possibile, invece, lavorare sulla parola “greppi”, non per cercarne la supposta eco dantesca, ma per sottolineare con quanta coerenza Verga riesca nella difficile impresa di fondere il livello popolare del linguaggio con quello letterario (“greppi” è infatti parola di sapore molto letterario e non certo «rustico», come scrive Riccobono).
L’alta tragicità di Rosso Malpelo è anche dovuta alla capacità di Verga di rivivere in modo nuovo e originalissimo l’esperienza letteraria del passato, e qui soprattutto quella di Dante e di Leopardi, a cui si ispira tutta la scena della visita al carcame del grigio e della successiva sosta sotto il cielo stellato nelle notti senza luna. Ma, mi sia permesso di aggiungere, il Leopardi qui presente è quello della Ginestra, non certo quello contemplativo degli idilli: è il Leopardi duramente ateo, pessimista e materialista per cui è funesto a chi nasce il dì fatale, e Rosso Malpelo che si gode il riposo è anche quello che, lungi dall’abbandonarsi, come è stato supposto[10], all’incanto luminoso delle stelle, pensa «Per noi che siamo fatti per vivere sotterra ci dovrebbe essere buio sempre e dappertutto», frase che sembra rovesciare in senso orgogliosamente positivo la massimo giovannea, invece deprecativa, che Leopardi pone in esergo («E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce»). Anzi il rapporto con La ginestra leopardiana mi pare abbia assai più solide basi di molti passi dell’Inferno sopra citati: non solo infatti vi sono puntuali riprese di singole parole (precisamente dai versi 158-166: la campagna «più desolata» rinvia a «rive …desolate», «la luminaria dell’alto» a «dall’alto fiammeggiar», «le stelle» che «splendevano lucenti» al «fiammeggiar le stelle», il «mare che formicola di scintille» al mare che rispecchia il cielo luminoso e alle «scintille» che brillano in giro), ma medesimi sono anche i contenuti referenziali, il paesaggio e la situazione esistenziale e meditativa (quella di un soggetto che di notte guarda il cielo, il mare e la campagna desolata dalle pendici laviche di un vulcano) , mentre indubbiamente simile è la filosofia che ispira i due testi.
[1] C. Giunta, Prestigio storico dei testimoni e ultima volontà dell’autore, in «Antico-moderno», 3, 1997.
[2] G. Verga, Vita dei campi, a cura d C. Riccardi, Le Monnier, Firenze 1987.
[3] G. Verga, Le novelle, a cura di G. Tellini, Salerno, Roma 1980.
[4] C. Riccardi, introduzione a G. Verga, Vita dei campi, ct., pp. XLVIII-XLIX.
[5] Su questo punto rimando a un mio saggio giovanile, scritto dopo aver scoperto e pubblicato per la prima volta il testo del 1878, R. Luperini, Verga e le strutture narrative del realismo. Saggio su «Rosso Malpelo», Liviana, Padova 1976, poi Utet, Torino 2009. Questo saggio è da integrare, anche per ulteriori notizie sulla edizione della Biblioteca dell’Artigiano, con R. Luperini, «Rosso Malpelo» trent’anni dopo: lettura storico-ideologica e confronto con «Ciàula scopre la luna», in Verga moderno, Laterza, Roma-Bari 2005.
[6] C. Riccardi, Introduzione cit, p.LI.
[7] C. Riccardi, ivi, p. LII.
[8] C. Riccardi, Introduzione cit, p. LIII.
[9] M.G. Riccobono, Dai suoni al simbolo. Memoria poetica, relazioni analogiche, fonosimbolismo in Giovanni Verga, dalle opere ultraromantiche a quelle veriste, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2002.
[10] È, di nuovo una tesi di Riccobono che interpreta in questo modo anche un passo controverso della novella, fornendone una parafrasi a mio avviso inaccettabile, come ho mostrato in R. Luperini, «Rosso Malpelo» trent’anni dopo: lettura storico-ideologica e confronto con «Ciàula scopre la luna», cit.
Fotografia: G. Biscardi, Libri, Palermo 2016.
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