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Flâneur. The Art of Wandering the Streets of Paris

 Pubblichiamo la presentazione e un estratto dal libro di Federico Castigliano, The Art of Wandering the Streets of Paris.

Flâneur. The Art of Wandering the Streets of Paris

Un uomo cammina per le strade di Parigi, solo e senza una destinazione. Percorre i lunghi viali dai palazzi grandiosi, si perde tra la folla dei Grands Magasins. Abbottonato nel cappotto nero, vaga per la città irrequieto. Ma cosa cerca? Dove va? La parola “flâneur” deriva dal verbo francese “flâner” che significa “gironzolare”, “perdere il proprio tempo”. Essere un flâneur significa passeggiare libero da impegni, immergersi nello spettacolo vivo di Parigi. Flâneur insegna a vagabondare senza una meta, a perdersi nella città. Contiene alcune storie di vagabondi, di persone che hanno smarrito la strada e che hanno poi scoperto cose nuove e meravigliose sul loro percorso. Fornisce informazioni sui personaggi, gli artisti e gli autori che hanno fatto la storia della flânerie a Parigi. Il lettore ha due possibilità: una lettura consequenziale, dal primo all’ultimo capitolo, oppure una lettura libera che permette di tracciare all’interno del testo il percorso che preferisce. La regola del gioco è semplice: i capitoli dispari sono narrativi, mentre i capitoli pari sono saggistici. Flâneur è, infine, un esercizio per la mente. Insegna a immergersi nell’esteriorità, a dare meno importanza a se stessi e ai propri piccoli bisogni. Perché per ascoltare la voce del mondo bisogna in primo luogo far tacere l’io.

 


I sintomi si facevano ogni giorno piu chiari. Ricordo un giorno di febbraio di qualche anno fa. Camminavo lungo il boulevard Bonne Nouvelle, vagavo per la città senza una meta. Osservavo i grandiosi palazzi e le vetrine che si susseguono lungo la via. Batteva una pioggerellina fredda che mi tormentava il volto, mentre un sole figurava a tratti, pallido, dietro a un velo di nubi. Ero febbricitante, alla deriva. Avevo lasciato da pochi giorni il lavoro e, ignaro di cosa stessi cercando, percorrevo l’arco dei boulevard della rive droite: da République alla Madelaine, dalla Madelaine a République. Perché mi fossi ridotto in quello stato, questo non lo saprei dire. Forse qualcun altro avrebbe cercato una spiegazione. Ma io mi lasciavo felicemente cullare, con cinico compiacimento, dall’abbaglio di questa nuova vita senza progetti.

Che io avessi una ragazza, una famiglia, un lavoro, che frequentassi o meno degli amici aveva poca importanza in quel momento. Tutto il mondo che mi circondava, la mia vita e il mio futuro sembravano inghiottiti nella stessa melma. Stavo ormai sviluppando un’insofferenza per Parigi, senza pertanto riuscire a sfuggire dal turbine che proprio questa città aveva creato attorno a me. I sintomi, dicevo. All’inizio leggeri: un sentimento di progressivo distanziamemnto dagli altri e poi di disgusto per il “buon senso”, per il pensiero comune. L’angoscia per le abitudini, per la meccanica ripetizione degli atti. E infine il vago desiderio di una nuova vita, di una lontananza. Mi forzavo a restare chiuso in casa, isolato, per meditare una via d’uscita. Ma il mio corpo non resisteva immobile, mi costringeva ad uscire. Appena mi gettavo per strada, senza una destinazione, aborrivo la confusione della città e avrei voluto ritornare in casa. Mi trovai piu di una volta a camminare in circolo, e i miei giorni erano imprigionati in quella giostra insalubre. La flânerie era diventata un vizio, una malattia.

Fu allora che capii pienamente il significato di quell’espressione usata da Baudelaire: “lo spleen parigino”. La vita che conducevo non apportava alcun insegnamento, alcun progresso: era un malinconico trascorrere del tempo, la presa di coscienza del divario tra me e il mondo. Così era quel febbraio e io vagavo senza una meta, libero da impegni, da costrizioni materiali, e mentre la pioggia imperterrita cadeva tra le facciate sfavillanti del boulevard Haussemann, sui volti finti dei passanti che si afflosciavano come maschere di cartone, io mi addentravo passo a passo nel dedalo del pensiero dominante, della malattia. Mi tornavano così in mente i versi delle Fleurs du mal: “Chaque jour vers l’Enfer nous descendons d’un pas,/ sans horreur, à travers des ténèbres qui puent”. Una di quelle frasi che si studiano a scuola e che lì per lì sembrano scritte bene ma lontane dall’esperienza comune, mere farneticazioni letterarie, ma che poi, in un momento preciso, tutto d’un tratto, balzano fuori dalla memoria e si capisce esattamente che cosa vogliono dire. La discesa nell’abisso ad occhi aperti, senza orrore: ecco cosa stava succedendo a me.

(testo tradotto in italiano dall’autore)

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