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diretto da Romano Luperini

len 20160826 0063

Ultime notizie dalla scuola

 

Dappertutto è il medesimo progetto di una ristrutturazione senza comunità.

Guy Debord, La società dello spettacolo,  1967         

Ultimi giorni d’estate: impressioni  

I miei ultimi giorni d’estate – quelli più intensi e malinconici, in cui la diversa inclinazione dei raggi solari ti rende epidermicamente consapevole che un ciclo sta per finire – quest’anno li ho trascorsi in compagnia di alcuni cari amici e poi, quando loro sono partiti, di alcune letture molto belle, rese ancora più belle dal posto in cui mi trovavo con la mia famiglia: una casa al mare bianca e solitaria, piccola e silenziosa. In quei giorni la tv era lontana, lontani i rumori della città, le voci, non sempre gradite, delle persone. E’ decisamente rigenerante riuscire a vivere qualche tempo senza rumori di fondo. Anche se alla fine qualcosa o qualcuno comunque ti raggiunge.

Come molti altri, io sono stata raggiunta da una serie di articoli sulla scuola che dalla stampa nazionale rimbalzavano sui vari social  alimentando, per dirla con Gottschall, una serie di  «confabulazioni patologiche» 1.  In quegli articoli si parlava di mobilità degli insegnanti (10 agosto ), dei voti attribuiti al Sud e al Nord agli Esami di Stato (11 agosto) e poi del concorso dei docenti (22 agosto). Insieme alla polemica sulla lettera del genitore che non fa fare i compiti estivi al figlio (13 settembre), sono queste per il grande pubblico le ultime notizie dalla scuola, intervallate da avvenimenti ben più penosi che hanno risucchiato la nostra attenzione. 

Sulla scuola di tutto un po’, insomma, e non sempre legittimato, come si dice in gergo, dall’agenda giornalistica, visto che quando il Corriere ha pubblicato l’articolo sugli esiti degli Esami di Stato questi erano terminati da quasi un mese, un’eternità nel campo dell’informazione2 .  Il dibattito, se così si può chiamare il parlare forsennato di tutti contro tutti senza un adeguato rigore argomentativo, è stato aperto dal Corriere della Sera con una delle sue prime firme, quella di Gian Antonio Stella. Le parole di Stella sono state riprese da esponenti del governo per motivare alcune loro scelte, come spesso accade per effetto della circolarità dei media, del servilismo di alcuni giornalisti e dell’opportunismo dei politici. I pezzi di Stella sono stati anche censurati da gruppi di insegnanti e organizzazioni di categoria che hanno gridato al complotto mediatico-politico, spesso con imbarazzante volgarità; mentre singoli studiosi o esperti hanno cercato di confutare le tesi dell’uno o dell’altro fronte con dati e argomenti alla mano. Un gran bailamme, insomma, a cui si è unita anche la nostra redazione con articoli schierati  ma, si spera, di taglio riflessivo. Il caos di voci e opinioni è però risultato tale che in fin dei conti non saprei dire se nel nostro piccolo siamo riusciti a  partecipare democraticamente a un conflitto interpretativo, o se invece anche noi non abbiamo fatto altro che alimentare il rumore di fondo. In ogni caso, visto che non posso tornare nella mia casa al mare, mi tocca fare i conti con questo rumore.

 Il rumore di fondo: l’altezza dei suoni

Il rumore di fondo sulla scuola a mio avviso nasce dalla confusione di “un suono alto” e “un suono basso”, che  vengono emessi in modo disuguale e incostante tutte le volte che si discute di didattica o di organizzazione, di politica scolastica o di contenuti culturali. Va avanti così ormai da diversi anni  (se dovessi indicare una data direi dal ministero Berlinguer, il ministro con cui iniziò a smottare l’asse paradigmatico della scuola italiana). Si tratta  di due linee di pensiero e di condotta che possono essere così raffigurate: il suono alto, con oscillazioni più fitte e numerose, coincide con una visione economicistica della scuola; il suono basso, che ogni anno registra una diminuzione delle vibrazioni e rischia di sconfinare nel campo inudibile degli ultrasuoni, è quello della scuola modellata sulla Costituzione. Il suono alto, acuto e stridulo è prodotto dai poteri macroeconomici che in molte riforme del Miur, come in diversi articoli di esperti ed opinionisti, hanno le cinghie di trasmissione; il suono basso è prodotto da una parte delle istituzioni e per l’appunto “dal basso”, cioè dai docenti in forme sparse, da alcuni studiosi e da organizzazioni i cui fini reali possono anche non essere del tutto coerenti con le parole d’ordine improntate ai vecchi valori. I valori del suono alto sono quelli della “scuola che deve servire a qualcosa”, e quindi dell’ingegnerismo organizzativo e del nuovismo incessante, inteso sopratutto come archiviazione di vecchie pratiche non più coerenti coi nuovi scopi. I valori del suono basso sono invece quelli della “scuola che deve servire a qualcuno” e cioè della scuola disegnata dagli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione, con cui si istituisce la finalità emancipatrice della scuola italiana, la sua vocazione all’uguaglianza, la sua imprescindibile libertà dagli altri poteri. Per riassumere in uno slogan potremmo dire che per coloro che propagano i suoni alti la scuola deve essere “aperta a tutto”, mentre per coloro che diffondono i suoni bassi la scuola deve essere “aperta a tutti”. Non sono giochi di parole, in questi anni sta mutando realmente la missione dell’istruzione pubblica, università inclusa.

Due esempi: mobilità e concorso

Prendiamo ad esempio l’articolo sulla mobilità dei docenti meridionali di Stella  già citato e tornato in qualche modo d’attualità perché ripreso da Renzi per dichiarare che non potendo spostare gli studenti al Sud  deve portare i docenti al Nord (Renzi dice proprio “io”, senza nessun imbarazzo egolatrico). Per l’esattezza Stella,  che come sappiamo ha usato come fonte un pezzo di Tuttoscuola mutandone però il piano delle intenzioni, nel suo articolo scrive:

Allora: spostiamo gli studenti al Sud? A leggere certi strilli sulla «deportazione» dei docenti meridionali al Nord cadono le braccia. Certo, è possibile che il famigerato «algoritmo» che ha smistato maestri e professori abbia commesso errori. E vanno corretti. Ma i numeri sono implacabili: 8 insegnanti su 10 sono del Mezzogiorno però lì c’è solo un terzo delle cattedre disponibili. Non per un oscuro complotto anti meridionalista: perché gli alunni delle «primarie» e delle scuole di I° grado sono oggi mezzo milione in meno di vent’anni fa.

Stella dice proprio così: «i numeri sono implacabili», perché per lui è prioritariamente questione di numeri, di cattedre da una parte e di docenti dall’altra. Eppure ci sarebbe, anche solo a guardare quei pochi dati citati nell’articolo, tanto su cui riflettere. Innanzitutto sullo spopolamento del Sud, sul fatto che le coppie del Sud fanno meno figli che in passato, sui giovani che vengono a mancare e, se ci sono, che non terminano la scuola e, se terminano la scuola, che non trovano lavoro. Insomma ci sarebbe molto su cui riflettere e scrivere se si guardasse all’urgenza di riequilibrare questo Paese  e non alle tabelle del Miur, alla scuola come istituzione fondata per creare condizioni di uguaglianza e non alla scuola come organizzazione burocratica. Al di là dei numeri e dell’uso che se ne vuole fare,  è un fatto che se dal Sud va via il ceto medio colto va via un’altra occasione di sviluppo del meridione. Non bisogna far parte di quel ceto per reclamarlo. E’ interesse di tutti. Per cui non sono i numeri ad essere implacabili, ma certe logiche ingegneristiche che annullano gli sfondi sociali, storici e politici delle questioni.

Facciamo un altro esempio, questa volta attingendo dal suono basso  e commentato un’altra notizia sulla scuola, quella degli aspiranti docenti bocciati al concorso. In questa polemica per Alessandro Viti, del comitato dei TFA,  non ci sono molti dubbi. Le altissime percentuali di bocciati denotano  non che i docenti sono impreparati e neppure che le università che li hanno formati hanno fallito, ma che sono state calibrate male le prove concorsuali. Della stessa opinione Claudio Giunta, che dopo aver analizzato i quesiti d’italiano e dimostrato che il tempo assegnato per le prove era del tutto insufficiente, prova a interrogarsi, lasciando aperto il dubbio,  sulla ratio di sottoporre i candidati a una vera e propria corsa contro il tempo. All’articolo del 22 agosto si potrebbe quindi obiettare che  se in una classe venti alunni su trenta non sanno fare il compito di italiano per loro predisposto, pur avendo superato tutte le altre prove di italiano durante l’anno scolastico (fuor di metafora tutte le precedenti selezioni del sistema: laurea, TFA, anni di supplenze), il problema verosimilmente è che quel compito è stato tarato male. Non è tagliato per la classe da valutare, ma per un altro idealtipo di studente. Nè Viti, né Giunta, che hanno scritto cose sensate sul punto, si spingono comunque oltre la constatazione tecnica delle prove pesate male (Giunta) e l’ipotesi di una deliberata volontà di decimare i candidati (Viti). Tuttavia a me sembra chiaro un secondo aspetto e cioè che le prove dell’ultimo concorso presuppongono un altro tipo di insegnante rispetto a quello che normalmente circola nelle scuole: un tipo rapido, sveglio e perfomativo, capace di confezionare in poco tempo il suo prodotto didattico; uno che forse non approfondisce e riflette molto [1]  ma che è abilissimo nel desigin didattico. Per chi si muove nelle armoniche del suono basso questo docente semplicemente non c’è, né può esserci. Per il suono alto è l’uomo nuovo che stiamo aspettando.

Prese d’atto

I due esempi riflettono solo due poli di una questione che ho semplificato. Semplificare mi serviva a distinguere nel rumore di fondo le voci principali che tuonano ad ogni nuova notizia e i motivi in funzione dei quali si alimentano. Eppure quel che ricavo dalle ultime notizie sulla scuola è ancora qualcos’altro rispetto a questa schematica rappresentazione dei duellanti (tra i quali mi colloco, come si sarà capito, tra i vociferanti del “suono basso”) e  ha a che fare di più con la cornice discorsiva in cui ci ritroviamo tutti quanti a parlare. Questa cornice per me è ormai più importante del quadro e misurarne l’incombenza mi spinge ad un’ amara presa d’atto.

Innanzitutto prendo atto che i protagonisti del dibattito sulla scuola, i giornalisti e gli esperti che scrivono sulla grande stampa,  non parlano per convincere chi la pensa diversamente da loro o per affrontare una questione comune. La loro forma del discorso predominante non è  argomentativa, ma enunciativa, serve ad affermare una visione delle cose e a fare in modo che il mondo somigli a questa e soltanto a questa. Chi non vi si riconosce ma ne è implicato reagisce, talvolta, con violenza e  volgarità scomposta. Le voci più complesse e riflessive stanno scomparendo dal dibattito pubblico sulla scuola. E forse dal dibattito pubblico italiano tout court.

Inoltre prendo atto che in questo parlarsi addosso non c’è solo superbia, arroganza, incapacità d’ascolto ma un deterioramento delle qualità dialogiche e democratiche del ceto colto del nostro Paese. Come se, da una parte, una nuova egemonia culturale si potesse fondare solo su falsificazioni deliberate, mentre dall’altra non si possa che rispondere a queste che con insulti e rifiuti del confronto. A partire dalle ultime notizie sulla scuola, prendo dunque atto che siamo nel pieno di un arretramento civile che coincide con una precisa idea di mondo. Si tratta di un mondo senza comunità in cui il discorso pubblico è solo un rumore di fondo e le persone non sono  più capaci di armonizzare i suoni. Proprio come nella lettera di quel padre che per tenere in piedi il ragionevole principio del valore pedagogico del tempo libero, demoliva pubblicamente, senza pensarci due volte, il pilastro educativo della collaborazione e del rispetto reciproco che gli adulti devono sapersi scambiare per crescere i più piccoli.

In un mondo senza comunità, in cui per accompagnare una scelta politica bisogna stigmatizzare l’intera categoria che vi si oppone o in cui per confutare una scelta politica sbagliata bisogna urlare ferocia, come posso insegnare? Prendo atto che l’estate è finita e che devo tornare a misurarmi con fasci di voci discordi, senza più illudermi che questo basti a fondare il mio agire.


1    J. Gottschall, L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani, Bollati Boringhieri, Torino 2014, p. 124. La confabulazione patologica è «una fantasia esagerata e assolutamente non plausibile a cui tuttavia chi l’ha creata crede ciecamente».

2     L’inattualità del pezzo sulla differenza di valutazione agli Esami di Stato potrebbe fornire argomenti a sostegno di chi lamenta una stampa “ad orologeria”, pronta ad accorrere in soccorso dei poteri di turno. In questo caso l’articolo estivo avrebbe introdotto  nell’opinione pubblica il tema della necessità di “oggettivare” le prove dell’Esame di Stato. Dopo il pezzo  dell’11 agosto, il 19 settembre leggiamo nei siti specializzati di  una possibile riforma degli Esami di Stato che inserisca una prova Invalsi al V anno obbligatoria e i cui esiti siano allegati agli atti della commissione http://www.orizzontescuola.it/esami-stato-ii-grado/ , e, con nuove indiscrezioni,   http://www.orizzontescuola.it/riforma-esami-superiori-prove-invalsi-computer-based-obbligo-somministrazione-e-media-del-6-per-lammissione/ . Ma questo tema meriterebbe una trattazione seria e approfondita che non può essere svolta qui.

[1]     Diversamente da uno studioso come Giunta che infatti dichiara: «in due ore e mezza io avrei saputo rispondere dignitosamente a due, forse a tre di queste domande».


Fotografia: G. Biscardi, Tramonto di fine estate, Capaci 2016.

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