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diretto da Romano Luperini

Baldi Berlin 2369

Giusto mezzo e metri che ormai non misurano più. Su La sfida della scuola di Guido Baldi

 Guido Baldi, autore del noto manuale, ha raccolto alcuni suoi interventi sulla scuola e la didattica della letteratura in un piccolo volume dal titolo La sfida della scuola. Crisi dell’umanesimo e tradizione del dialogo (Paravia, 2016). La lettura del libro di Baldi suscita sentimenti contraddittori: d’istinto, si vorrebbero sottrarne molte e molte pagine, piene di considerazioni sensate e proposte condivisibili, dall’abbraccio di uno spirito aristocratico e risentito, percepibilissimo nonostante la parola «democrazia» ricorra spesso in endiadi con «scuola», che spinge a domandarsi se, parlando di «difesa dell’umanesimo», intendiamo tutti precisamente la stessa cosa.

Ma vediamo innanzitutto il contenuto della raccolta. Si tratta di riflessioni di diverso taglio e finalità, le quali, come dichiara l’autore stesso nella premessa, sono «spesso nate da incontri con insegnanti e dal dialogo con essi, e suggerite di volta in volta dai problemi che la contingenza presentava» (p. 7): alcuni saggi prendono posizione su questioni generali, forse epocali, come il nesso tra scuola e società o scuola e politiche ministeriali (Le famiglie e la scuola pubblica: un conflitto di valori?; La scuola del nostro scontento e una buona scuola), altri hanno la chiara intenzione di schizzare uno stato dell’arte della didattica della letteratura (Insegnamento letterario ed educazione alla democrazia; La coperta troppo corta: classici del passato e autori del Novecento a scuola), altri ancora sono puntualmente dedicati a consigli pratici ai docenti o avanzano proposte di riforma (Narratologia e didattica della storia letteraria; La prova scritta di Italiano alla maturità: proposta di una nuova articolazione). In tutti, comunque, si intravede una conoscenza di prima mano dei problemi della scuola e si apprezza uno spirito pragmatico improntato al buon senso.

Per un saggio eclettismo

La mesótes (p. 56) di Baldi è, oggi, quasi un atteggiamento obbligato: sono ormai lontani gli anni nei quali un dibattito – a tratti veemente scontro – tra fautori di un approccio “selvaggio” alla lettura e un approccio “scientifico” (si legga: strutturalista) rimbalzava per mesi di rivista in rivista, coinvolgendo studiosi e scrittori della levatura di Berardinelli, Enzesberger, Ossola, Siti, Giudici, volando alto e però, forse, un po’ troppo oltre la testa dei docenti. Baldi, pur abbastanza scettico riguardo alle possibilità di una lettura istintiva e psicologicamente proiettiva (ma si vedano, come contrappeso e a dimostrazione dell’equilibrio dell’autore, le considerazioni sulla mortificazione di possibili interpretazioni personali imposta dall’attuale forma di analisi del testo dell’Esame di Stato), invita a un saggio eclettismo, nel quale dimensione storica, strumenti di analisi formale, attualizzazione, attenzione alla sensibilità e agli interessi degli studenti, siano ingredienti tutti presenti, ciascuno nella giusta misura.

Forse è proprio questo il triste paradosso di questi giorni: ora che siamo tutti più o meno d’accordo sul fatto che una letteratura che non sappia parlare agli adolescenti diventa inutile erudizione, senza che ciò significhi però deflettere dal rigore disciplinare, ci è altrettanto evidente la sua sopraggiunta irrilevanza storica dentro il sistema dei saperi. E forse è proprio la condizione di emergenza in cui versa l’insegnamento della letteratura ad aver reso sorpassati i dibattiti ideali e le guerre partigiane: non ce li possiamo più permettere. (Ma forse ci siamo anche resi conto che le opzioni teoriche, quando si parla di didattica, in una certa misura e almeno in un certo senso, sono di secondaria importanza, perché la domanda urgente sarà sempre “che fare?”, e, soprattutto, “come?”).

Condivisibile, allora, una lettura di Leopardi esplicitamente attualizzante, politica e civile, non solo a partire dall’arcinota Ginestra, ma anche dalla meno frequentata Palinodia al marchese Gino Capponi (L’attualizzazione dei classici: uso del digitale, vissuto dei giovani e dimensione civile). Del pensiero leopardiano, certamente non “progressivo”, ma tutt’altro che reazionario, Baldi invita a valorizzare la carica demistificante, umanamente fraterna e a suo modo illuminista, suggerendo un buon numero di quelli che comunemente chiamiamo “collegamenti all’attualità”, che solo grazie alla collocazione dentro categorie storiografiche forti possono evitare il rischio della banalizzazione e dell’improvvisazione generica.

Quale narratologia?

Sempre nella prospettiva di un saggio eclettismo, l’intervento più interessante è quello dedicato a  Narratologia e didattica della storia letteraria, in cui si dichiara esplicitamente la persistente utilità degli strumenti narratologici, a condizione, però, di domandarsi: «quale narratologia?». Baldi manifesta chiaramente la propria preferenza per una narratologia del «discorso», contro una della «storia» (la distinzione è di Seymour Chatman): una narratologia del “come” e non del “che cosa”, più interessata alla focalizzazione, cioè alle modalità di costruzione dei punti di vista di narratore, autore, personaggi e al loro rapporto con l’ideologia e la poetica, che ad astratti concettismi come la distinzione tra fabula e intreccio o la struttura attanziale. Le analisi concentrate sulla sola storia, infatti, elidendo completamente le specificità di discorso di una novella di Boccaccio o de Le relazioni pericolose, rendono questi testi indistinguibili da altri, come lo sarebbero degli esseri umani ridotti al loro scheletro.

Baldi offre quindi un’esemplificazione delle potenzialità interpretative di una narratologia del discorso, confrontando la mutazione della focalizzazione in cinque scrittori, Manzoni Verga D’Annunzio Svevo Pirandello, per mostrare il rapporto necessario tra scelta della voce e del punto di vista e posizione storica degli scrittori rispetto al problema della conoscibilità della realtà: dalla fiducia provvidenziale di Manzoni in un senso del reale garantito al relativismo novecentesco di Pirandello e Svevo (anzi, ai relativismi di Pirandello e Svevo: quello del primo, infatti, coinvolge solo le certezze epistemiche, pur conservando un forte autore implicito che dà modo ancora di misurare la fallibilità del personaggio-narratore; quello del secondo, più radicale, coinvolge anche la struttura narrativa, per cui non esiste più alcuna funzione di controllo, neppure implicita, della fondatezza del resoconto di Zeno). In poche parole, Baldi esorta a perseguire uno studio della letteratura in cui prospettiva storica e prospettiva formalista e strutturalista non siano opposti, ma sinergici; anzi, in un senso ancor più preciso, che lo studio delle forme sia storicizzato, irrorando del sangue della storia degli uomini lo studio altrimenti tecnico e fine a se stesso delle forme e chiedendo al racconto storico di verificare la propria stessa consistenza sui testi, cioè sul linguaggio, che è l’unico effettivo costituente della letteratura.

A questo riguardo Baldi, pur riconoscendo che non si potrebbe pretendere dai docenti di letteratura l’adeguamento a un esercizio critico così alto, addita come modello (direi come limite matematico, asintotico) l’Auerbach di Mimesis, che dall’analisi di pochi tratti stilistici ricostruiva un intero capitolo della storia della letteratura. Auerbach è insomma proposto come guida per una didattica che superi l’ormai sempre più ingiustificata (e dannosa) separatezza tra un biennio dedito alle analisi narratologiche e un triennio ancora fedele alla nostra tradizione storicistica. (Ci sarebbe, semmai, da domandarsi se la proposta di Baldi sia intesa per il biennio o il triennio. Per esperienza, direi che un percorso che preveda lo studio e la lettura di questi autori sarebbe praticabile solo negli ultimi tre anni: ma forse le questioni più urgenti per la didattica della letteratura vengono proprio dal biennio della scuola superiore, ormai da troppo tempo vera e propria terra di nessuno).

Letture antologiche o integrali?

Baldi fiuta poi sagacemente l’aria che tira parlando di un tema cui forse pochi insegnanti hanno dedicato attenzione, perché è, ad oggi, più una vaga minaccia del futuro che un problema concreto: leggere tanti autori, ma in antologia, o pochi, ma integralmente? In effetti ci sono paesi (la Francia, ad esempio) nei quali lo studio della letteratura viene affrontato soffermandosi su pochi testi classici, letti per intero e minuziosamente. Siamo agli antipodi rispetto alla nostra tradizione, dove invece è pratica corrente leggere un numero cospicuo di autori, trascegliendo i brani più significativi della loro produzione. Nonostante le molte critiche che si possono muovere (e sono state mosse) all’arbitrarietà di ogni scelta antologica, questa abitudine consente comunque di fornire una conoscenza ampia e diffusa dei classici del passato (si può tutt’al più approfondire questo o quello, con letture integrali fatte a casa), evitando di assistere a scene come quella che Baldi stesso racconta: una lettrice di francese che sgrana gli occhi davanti al nome, ignoto, di Stendhal. Dicevo che l’autore fiuta l’aria che tira, perché non è affatto improbabile che in un futuro prossimo dovremo confrontarci con riforme che piegheranno la letteratura (in parte anche per ragioni fondate) proprio verso questa direzione, più allineata a una scuola europea che riduce in estensione le conoscenze in favore di percorsi “verticali”, in cui, intorno a pochi contenuti esemplari, viene costruita una didattica laboratoriale. Baldi, ben consapevole della necessità di tesaurizzare ogni ora di lezione e non volendo rinunciare a una conoscenza ampia del passato, invita a limitare i discorsi “di contorno”, gli inquadramenti storici e le introduzioni agli autori, concentrando la propria attenzione sulla lettura diretta di alcuni testi esemplari, dai quali ricavare quelle stesse informazioni contestuali, ma induttivamente, mostrandole nel loro concreto manifestarsi nell’opera stessa.

Riforma della prima prova dell’Esame di Stato

Merita una menzione anche la proposta di riforma dell’Esame di Stato contenuta in uno dei saggi. Baldi analizza punti deboli e punti di forza di ciascuna delle quattro tipologie dell’attuale prima prova e ne suggerisce una rimodulazione del tutto condivisibile, soprattutto perché invita a darsi obiettivi meno ambiziosi ma più precisi: per lo studioso, l’analisi del testo è soffocata da una griglia «troppo spesso rigida e pedantesca, che lungi dallo stimolare le capacità interpretative e critiche dello studente le mortifica, obbligandolo a seguire pedissequamente schemi che magari non corrispondono al suo modo di leggere quel testo, e inducendolo così a eliminare considerazioni estranee rispetto alla griglia ma che potrebbero essere interessanti» (p. 102); il saggio breve e l’articolo di giornale, nonostante pretendano di proporsi come scritture “in situazione”, risultano in verità astratti e velleitari.

L’autore propone perciò uno scritto di Italiano articolato «in una serie di sottoprove più mirate a obiettivi specifici» (p. 106): comprensione del testo, riassunto, prova di competenza lessicale, analisi di un testo letterario, prova di riflessione critica (in cui si fonderebbero il saggio breve e l’articolo di giornale, sofisticamente distinti nell’attuale esame).

Queste, fra altre, sono le pagine di questo libro di Baldi da “staccare e conservare” e da far circolare tra i colleghi. Ma, dicevo, su queste buone proposte spira quasi costante un’interpretazione risentita del presente che lascia perplessi.

La frana del presente

All’ombra dell’alto sdegno di un Alfieri citato in esergo («ma, non mi piacque il vil mio secol mai») e con il supporto di alcune citazioni dai libri di Paola Mastrocola, Baldi constata uno slittamento ormai decennale della scuola italiana lungo il piano inclinato della rinuncia ad ogni rigore pedagogico e addita come soluzione una resistenza morale, intellettuale, professionale al presente. A onor del vero, bisogna aggiungere che la sua mesótes lo tiene lontano da affermazioni troppo perentorie o lo spinge, in parecchi casi, a correggere le proprie stesse conclusioni con controdeduzioni di tenore opposto, quando un eccesso di recisione gli scivoli dalla penna: ad esempio quando le critiche (ormai ben note) alle pedagogie post-sessantottine sono immediatamente riequilibrate dalla constatazione che la scuola precedente era effettivamente autoritaria e classista. Tuttavia, il giudizio sostanzialmente negativo sul Sessantotto (o su ciò che esso eponimamente rappresenta) resta: «all’azione destruens non si è saputo poi opporre una pars construens che sostituisse al vecchio un sistema didattico diverso, creasse una scuola fondata su principi nuovi ma egualmente seria e rigorosa […]. Ci si è baloccati con slogan sempre più privi di contenuto. […] Della distruzione sono rimasti i detriti, in un caos di tendenza contrastanti, da cui non si è riusciti a creare un ordine nuovo» (p. 134). Il presente, dunque, è una frana cui si dovrebbe opporre una volontà quasi eroica di fare argine.

Se questa retorica fosse davvero apocalittica o profetica, forse avrebbe un suo fascino e una sua forza; al contrario, troppo spesso risulta improduttivamente piegata sul suo stesso lamento. Si può certamente intendere il lavoro nella scuola come una forma di lotta o resistenza all’incuria spirituale, all’approssimazione intellettuale, al degrado morale e civile, ma questa lotta e questa resistenza dovrebbero giovarsi di maggior spregiudicatezza strategica, abbandonando trincee che non è davvero più possibile tenere: c’è una soglia oltre la quale la determinazione anche nobilmente cocciuta diventa irrigidimento in un sacrificio inutilmente eroico. Per esprimersi in termini più analitici: se il sottotitolo del libro di Baldi recita «crisi dell’umanesimo e tradizione del dialogo», si potrebbe osservare che umanesimo e dialogo sono due parole che, proprio in virtù della loro generalità, sopportano infinite riletture e sono aperte ai nuovi (e a volte imprevedibili) significati che la storia può loro attribuire.

Quando Baldi, sdegnosamente, difende l’utilità del latino per distinguere correttamente (nel parlato!) vocali aperte e chiuse e, mettendo esplicitamente sullo stesso piano errori d’ortografia e di ortoepia, auspica corsi di dizione per politici, giornalisti, attori, insegnanti che hanno pronunce «spesso pesantemente dialettali o scorrette» (p. 115), o quando  denuncia il livello di formazione carente di tutti gli studenti, anche liceali, che non abbiano fatto il classico (p. 141), non si può non pensare che la sua idea di umanesimo abbia ancora qualcosa di monolitico e normativo, di fronte a cui il multiforme cangiare della vita linguistica e culturale, e della vita tout court, finisce per risultare una sorta di devianza imbarbarita.

Quale umanesimo?

Confesso di aver sorriso (bonariamente), leggendo queste ultime considerazioni, perché io stesso, parlante del nord, non distinguo pésca da pèsca (inoltre, ahimé, ho fatto il liceo scientifico…). Ma se sono pronto a difendere l’importanza del latino per lo studio dell’etimologia e delle trasformazioni fonetiche da esso subite nel passaggio ai volgari (conoscenze che dovrebbero far parte del repertorio di ogni docente), difendo altresì orgogliosamente, come tratto di varietà e identità, la mia pronuncia nordicheggiante, spesso divertendomi, anzi, a trasformarla in occasione per riflessioni sociolinguistiche contrastive con i miei studenti toscani: dopo decenni di studi linguistici sappiamo che scritto e parlato obbediscono a regole diverse e che il secondo non è solo la derivazione spuria e degradata del primo. Non si può, perciò, stendere su di essi la patina uniformante di un grammaticalismo grafocentrico d’antan, scambiandolo per umanesimo, e scambiando a sua volta questo con un rigore un po’ fine a se stesso (perché mal indirizzato, non perché sbagliato in sé).

Là fuori (al di fuori del liceo classico, cui si iscrive ormai poco più di uno studente su 10, come al di fuori dell’univocità della pagina scritta) ci sono migliaia di ragazzi che sarebbe angusto e ingiusto pretendere di misurare tutti su un metro che, semplicemente, non è più in grado di misurare la realtà.

La polemica contro il degrado del presente di Baldi, peraltro, rischia talvolta di liquidare in forme moralistiche questioni molto complesse. Ad esempio, parlando della selezione dei docenti e invocando in essa serietà e rigore, egli accenna all’assunzione di più di centomila docenti in base alla legge 107, paventando che questa immissione massiccia in ruolo possa assomigliare alle «assunzioni indiscriminate» fatte a partire dagli anni Settanta (p. 147). Baldi però forse ignora che l’attuale provvedimento si è limitato a svuotare le graduatorie ad esaurimento e quelle di merito del più recente concorso, riguardando dunque docenti già selezionati dallo Stato. Certo, la gestione della formazione e del reclutamento dei docenti di questi anni è stata confusa e quasi sempre criticabile, ma non si fa certo giustizia a quei poveretti che in questi anni sono rimasti impigliati nella rete del precariato, non per propria volontà, se si interpreta la loro vicenda come un capitolo della storia dell’universale declino morale e intellettuale dell’Italia, invece che come un capitolo del ben più prosaico libro delle confuse politiche scolastiche dei nostri ministri dell’Istruzione.

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NOTA

Fotografia di G. Biscardi,  Pergamon Museum, Berlin 2015.

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