Un autore avventizio o dilettante
Mi riconosco nella definizione di “autore avventizio”, che Romano Luperini usa per riferirsi a se stesso come ad un autore, che provenendo da una lunga carriera di tutt’altro genere (nel suo caso come critico letterario) si sperimenta in una fase avanzata della vita come scrittore. Ovviamente non lo è nel senso professionale del termine, anche se la sua esperienza letteraria è limitrofa, ma dalla critica alla scrittura è come saltare dall’altra parte della barricata. Mi riconosco nella sua storia: sin qui mi sono considerato un “dilettante”, citando cripticamente un grande che non era uno scrittore di mestiere, Italo Svevo, che di professione produceva e vendeva vernici. Così ho scritto nella quarta di copertina del mio romanzo d’esordio uscito nel 2004 presso un piccolo editore milanese: “delle lettere è un dilettante”.
Quando parlo con me stesso mi definisco “scrittore della domenica” o “della notte”, perché ho sempre scritto nei ritagli di tempo lasciati dal lavoro, che faccio per vivere, il medico, psichiatra per giunta, con tutti i pregiudizi che si porta dietro, molto spesso in termini negativi. Le ingenuità commesse sin qui sono le stesse di Romano, quindi capisco che si sia rivolto ad una delle agenzie letterarie, le quali oggi – anche le migliori – contrariamente ad ogni etica leggono solo a pagamento. E’ come se il mondo dell’editoria ti chiedesse un pedaggio da subito, in più mi è sembrato che l’essere medico – che è ancora considerato nel mondo globale un stato sociale invidiabile – susciti moti di ripulsa, appunto invidiosi. Del resto medici scrittori ce ne sono sempre stati tanti, forse per la necessaria formazione umanistica (almeno un tempo), anche se a memoria devo risalire fino a Francesco Redi, archiatra del Granduca di Toscana, passato alla storia quasi unicamente per il ditirambo a Bacco, ma devo ricordare Cronin, Conan Doyle, Cechov, Celine. Gli ingegneri hanno dato di meglio (ricordo Dostoyevsky e Gadda), gli avvocati ancora di più (non ultimi Volponi e Turow), per non parlare degli impiegati (Kafka, Zola, Tozzi, Pessoa, Saramago).
Questo mi rimanda ad un’altra considerazione, che quasi certamente Romano condividerà: i nomi citati sono datati, di autori non viventi. La figura dell’intellettuale “complessivo” come si diceva una volta, cioè di un intellettuale, che si guadagnava un rispetto sociale o una vera e propria fama nel proprio settore e poi la spendeva in un altro campo (ad esempio la politica, la critica della cultura o la scrittura), è ormai estinta, travolta delle caratteristiche dell’ipermoderno. Mi viene in mente Noam Chomsky, famoso linguista e critico dell’estabilishment americano (fino all’appoggio recente del movimento Occupy Wall Street), ma è ormai vecchissimo, appunto. Vuol dire che nell’attuale fase del modo di produzione capitalistico la settorializzazione del sapere ha raggiunto forme estreme, che ricordano la divisione del lavoro dei ranghi inferiori della produzione e della piramide sociale. È come dire: ognuno stia nel suo e non pretenda non dico di controllare, ma anche di avere una visione complessiva del processo produttivo non solo nel campo delle merci, ma anche in quello del linguaggio, che nell’era dell’ informatica è la merce per eccellenza, nonostante tutto il fumo che si fa sul fatto che sia “immateriale”. La vicenda del copyright nella rete elettronica è l’esempio lampante di questa situazione: praticamente è impossibile proteggere il diritto d’autore in rete e non è – secondo me – una questione di legislazione. L’autore di “prodotti dell’ingegno” – come si dice in gergo – come l’operaio nella divisione del lavoro in fabbrica non è più un artigiano proprietario di quanto produce.
Veniamo così ad un altro passaggio cruciale del discorso che fa Romano e che, se tanto mi da tanto, è uno dei topos del romanzo: il passaggio epocale tra la nostra generazione e quella dei giovani, che a suo avviso data negli anni Ottanta del secolo scorso con la correlata distinzione che egli fa tra “patetici” (i primi) e “cinici” (i secondi). E’ vero tale passaggio c’è stato, qualcuno ha parlato di mutazione antropologica (Baricco), secondo me esagerando. Non vi è stato un cambiamento del modo di produzione, ma delle macchine: da quelle elettromeccaniche a quelle elettroniche. Vi è un problema di datazione: il mutamento c’era già tutto nei suoi termini essenziali alla fine degli anni Sessanta, come ho cercato di dimostrare in uno scritto sul ruolo degli intellettuali, dedicato proprio a Romano Luperini ed al suo impegno politico, ma esso è diventato fatto di massa negli anni Novanta con la diffusione massiccia del personal computer e del videoregistratore, poi seguito da tutti gli altri apparati elettronici che dominano la nostra vita (il cellulare, i lettori di CD e i vari riproduttori di immagini e testi). Che senso ha spostare in avanti la datazione di un decennio rispetto a quella proposta da Romano ? L’ultimo decennio del Novecento, che sta alla base del concetto di “secolo breve”, non solo coincide con il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda per passare a quella calda combattuta ai confine dell’impero occidentale, ma rappresenta uno spartiacque che vale un secolo a livello di massa. Coloro che si sono affacciati alla scena del mondo in quell’epoca, coloro che avevano trenta o quarant’anni allora, gli yuppies che assaltavano le borse, le banche e i sistemi di welfare sono i cinici di cui parla Romano. La generazione successiva, quella senza futuro, la “generazione perduta” della crisi economica, i ventenni e i trentenni di oggi sono di tutt’altra pasta, essi sono la generazione dell’epoca delle passioni tristi come l’ha definita, in un libro del 2004, uno psicoterapeuta argentino, che aveva combattuto con Guevara ed era sfuggito alle persecuzioni della dittatura per poi diventare uno dei leader del movimento no global, Miguel Benasayag. Egli aveva intuito quanto stava avvenendo nelle banlieux parigine, dove lavorava come terapeuta, e ragionando sulle rivolte di allora aveva profetizzato lo scontro che poi è avvenuto a Parigi tra i terroristi dell’ISIS e i ragazzi del Bataclan, che sta anche lungo un discrimine di classe (purtroppo egemonizzato da una ideologia del medioevo prossimo venturo). Ricordo un documento “politico” (credo l’ultimo) che abbiamo firmato insieme con Romano ed un piccolo gruppo di compagni, dove definivamo “triste” l’orizzonte su cui il capitalismo vittorioso apriva il nuovo millennio e preannunciavamo la stagione della crisi, che sarebbe venuta di lì a poco senza sbocchi non dico rivoluzionari, ma neppure progressivi. Questa generazione di giovani è triste perché è stata privata della stessa nozione di futuro come promessa – come diceva Benasayag, essa è pervasa dall’angoscia (un’ansia venata di tristezza per usare il termine caro a Freud in un’epoca che sia avviava alla propria fine con la deflagrazione mondiale e due conflitti durati trent’anni). È una generazione attanagliata dall’angoscia per la sicurezza quando tutto dalla tragedia delle due torri attesta che non c’è alcuna sicurezza nel nostro mondo né all’esterno e neppure all’interno. Complessivamente mi sembra che la letteratura contemporanea esprima questa angoscia.
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