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Il non impiegato di Elsa Morante: Aracoeli. La figura dell’impiegato nella letteratura dell’Otto e del Novecento/6

Pubblichiamo il sesto di una serie di interventi sul tema dell’impiegato nella letteratura del XIX e del XX secolo. Questi interventi hanno la loro origine nel corso di Letterature comparate dell’Università di Perugia, e sono stati scritti sia da docenti, che da studenti che a quel corso hanno preso parte attivamente. L’introduzione a questo ciclo di post si può leggere qui. Il secondo intervento qui. Il terzo qui. Il quarto qui. Il quinto qui.

 

«Da circa due mesi, io dispongo di un impiego avventizio in una piccola azienda editoriale, dove sono adibito alla traduzione o lettura dei testi in esame, dei quali poi devo stendere una breve relazione scritta. Sono, per lo più, opuscoli o trattatelli divulgativi, di argomento scientifico-pratico, o politico-sociale, o anche istruttivo-mondano. L’azienda, ch’io sappia, è rappresentata in tutto da due stanzette d’ufficio, corredate di un cesso buio e senza finestre. Una delle stanzette serve, più che altro, da magazzino; l’altra è occupata da me. Sebbene il Capo (nelle sue comparse non infrequenti ma frettolose) abbia alluso talvolta a un suo invisibile “personale d’azienda”, là dentro, secondo ogni apparenza, l’unico personale sono io. La porta a vetri sulla scala, recante l’insegna Editoriale Ypsilon e più sotto, la scritta Spingere, annuncia i visitatori con un lungo sibilo, al quale segue immediatamente la libera entrata del visitatore di turno. Si tratta, per lo più, di aspiranti autori, in gran parte anziani, i quali, col loro aspetto allupato e quasi torvo, aumentano il gelo naturale dell’ambiente e mi precipitano subito in una ambascia confusa. Dentro l’ufficio, secondo gli accordi, io devo trascorrere le mie giornate, dalle 9 alle 13 e dalle 16 alle 19,30. Io sul momento, avevo accolto questo impiego come un colpo di fortuna (infatti la mia rendita, già misera, negli ultimi tempi, non bastava più nemmeno a pagarmi l’affitto di una cameretta) ma prestissimo mi resi conto che il mio cervello lo dannava a un rigetto senza rimedio. Alla lettura di quei trattatelli, fino dalle prime righe, avevo la sensazione di deglutire della colla. Dei loro argomenti non m’importava nulla, anzi non concepivo che altri cervelli pensanti potessero prendersene cura» [Elsa Morante, Aracoeli, Einaudi 19892, pp. 7-8].

L’impiegato secondo Elsa Morante, o meglio, il non-impiegato si incarna nel protagonista del romanzo Aracoeli, Manuele: un uomo di quaranta anni attraversati dalla voragine irrisolta del rapporto con sua madre, per cui prova un «eterno amore». Di fronte all’unicità del sentimento e alla trama intessuta di «ricordi apocrifi», il presente di Manuele perde di significato, e così il suo lavoro assume poca importanza, è trascurabile. La quotidianità di un uomo borghese nel novembre 1975 trascorre in modo piatto, qua e là illuminata dalla luce distorta delle descrizioni di Manuele, unica voce narrante, unico sguardo miope attraverso cui è possibile filtrare la realtà, e in particolare l’esperienza lavorativa.

Il lavoro per il non-impiegato morantiano si riassume nell’aggettivo «avventizio», non a caso posto proprio all’inizio del brano citato: il termine non è da intendersi nel suo significato più proprio, ossia di colui che viene da fuori, adventicius appunto, ma nel senso di “instabile, incerto, provvisorio”. E proprio la precarietà e la temporaneità dell’impiego ne rendono più facile l’accettazione. Si tratta infatti di un accadimento capitato in sorte a un uomo che avrebbe, molto volentieri, fatto a meno di lavorare, e che non sarebbe in grado di reggere un posto fisso e a vita. Perciò Manuele sopporta la precarietà della soluzione lavorativa, che non risolve i problemi della sua vita: il rapporto con la madre morta non può certo esserne scalfito e altri rapporti umani non sembrano neanche possibili a causa della sua «timidezza forastica». Piuttosto l’incapacità di lavorare del personaggio è la manifestazione diretta della sua incapacità di vivere, quasi un’inettitudine forgiata dal destino familiare e poi rafforzata dalla miopia, che Manuele definisce «l’ergastolo decretato alla mia bruttezza».

Tuttavia questa connaturata incapacità di lavorare non diventa mai problematica per Manuele, che, troppo preso dall’interiorità che fabbrica sogni, ricordi, descrizioni inventate del reale, non si preoccupa troppo della sua esteriorità di borghese. Eppure la borghesia, condizione ereditata dalla famiglia paterna assieme alla proprietà immobiliare a Torino che gli procura una rendita adeguata per vivere modestamente, nell’infanzia di Manuele è stata «come un marchio di razza inferiore», infamante e vergognoso. Ormai adulto, egli si definisce «povero», sebbene rimanga «un vecchio borghese inutile, laido, loro sfruttatore e nemico». Proprio a causa dell’appartenenza a una categoria sociale, Manuele si ritiene «disadatto al Lavoro», impossibilitato a lavorare per definizione, adatto soltanto a vivere di rendita; anche se poi ricorda al lettore che a Milano nel 1950 lo aspettava un «piccolo impiego al comune» trovato dai parenti.

Così Manuele nel 1975 arriva al lavoro «avventizio» nella piccola azienda editoriale, accettato «come un colpo di fortuna» e vissuto con l’attenzione miope verso il tipico ambiente asettico, buio e gelido degli uffici. In questo caso però l’impiegato non è circondato da colleghi, poiché l’unico personale dell’azienda sembra essere lui stesso; non è neppure controllato da un superiore, poiché il «Capo» si palesa in brevi apparizioni. A volte appaiono «gli aspiranti autori» dei trattati, ma nelle loro comparse assomigliano più a fantasmi, o addirittura alle allucinazioni, ai «deliri passeggeri, futili e tetri» di cui Manuele è spesso preda, nonostante abbia abbandonato droghe e alcolici.

Nella solitudine dell’impiegato abbandonato a se stesso, la lettura dei trattati diventa una tortura, una dannazione che conduce a sonni frequenti e profondi, da cui Manuele si riscuote, sfatto e abbruttito, solo all’arrivo dei visitatori. Se il lavoro è una dannazione e le bozze da correggere aumentano progressivamente con l’acuirsi del senso di nausea, non risulta strana la «cacciata prossima inevitabile», provocata dal «basso rendimento». Manuele riceve il suo secondo stipendio, lo lascia intatto fino alle ferie di quattro giorni agli inizi di novembre, perché non è interessato ai soldi, e perché sta già pensando al suo viaggio in Andalusia. E così si apre e si chiude la parentesi lavorativa di Manuele: un intervallo non troppo libero dai soliti deliri, un passatempo nauseante per racimolare denaro quando la rendita non permette di vivere in tranquillità.

Giovanna Rosa chiarisce la condizione lavorativa del protagonista: «Manuele ha a che fare con la letteratura, ma solo in posizione alienata e subalterna: davanti agli occhi miopi di questo correttore di bozze». Si può aggiungere che è proprio la miopia, la caratteristica essenziale anche del lavoro che svolge, e che forse grazie alla miopia Manuele pare accorgersi solo in parte dell’ambiente negativo, e perciò raccontarlo in una parentesi del romanzo. Nonostante lo spazio apparentemente marginale dedicato al lavoro, si potrebbe definire l’impiegato un motivo sotterraneo, un tassello nascosto del tema più vasto e originale del romanzo Aracoeli, cioè «il confronto polemico con la modernità» (Giovanna Rosa).

Filtrata attraverso gli occhi e le lenti di Manuele, la modernità diventa un mostro proteiforme: può incarnarsi nella metropoli milanese e al contempo negli aeroporti e in Spagna, oppure in un altoparlante che trasmette musica americana e viene descritto come una «Maestà elettrica, rimbambita e sinistra…un ultimo Dio del pianeta industriale», che ovunque domina sulla società di massa. Ma la battaglia più cruenta fra Elsa Morante e la modernità si combatte nel campo della letteratura: se «nel secolo della degradazione, che noi viviamo, le parole sono ridotte a spoglie esanimi», queste parole riflettono l’incapacità della letteratura, o meglio dello scrittore? Il correttore di bozze miope assomiglia all’intellettuale in lotta contro la modernità, un intellettuale perso in una «deserta pietraia», sul punto di perdere fiducia nella letteratura. Forse lo scrittore non ha neppure più i mezzi per comunicare, per dichiarare la sua opinione e quindi farsi ascoltare dalla società, forse è atterrito dalla stessa allucinazione che colpisce Manuele: «Per esempio, i caratteri di stampa, là sotto il mio naso, diventavano tignole a miriadi, che sciamavano dai fogli riducendoli in una polvere bianca».

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