Pubblichiamo una versione ridotta della relazione tenuta da Romano Luperini nel convegno su Letteratura e crisi, Perugia, 6 e 7 novembre 2015.
1.
La modernità è crisi, trasformazione rapida e continua. Questa coincidenza fra modernità e crisi può indurre a genericità e approssimazioni. Perciò preciso subito che quando qui parlo di modernità mi riferisco all’epoca storica che è cominciata con la rivoluzione industriale e con l’affermazione economica e politica della borghesia e del sistema capitalistico e si prolunga sino ai nostri giorni.
Dalla fine del Settecento a oggi il moderno ha conosciuto alcuni momenti più acuti di crisi economica, sociale e culturale, con qualche sfasatura fra questi tre livelli e nel modo in cui essi si sono presentati nelle diverse nazioni occidentali, ma anche, alla lunga, e almeno in un panorama colto da lontano, con una loro sostanziale convergenza. Negli ultimi due secoli si succedono tre momenti di rottura e di più profondo cambiamento: quello iniziale del romanticismo, quello della modernità matura e del modernismo e infine quello del postmoderno o della globalizzazione. Il postmoderno, o globalizzazione che dir si voglia, è insomma una fase della modernità, non una epoca nuova, a essa successiva e alternativa.
Si tratta di tre fasi diverse, che durano diversi decenni ciascuna e all’interno delle quali è possibile distinguere a loro volta periodi diversi. Per esempio, all’interno dell’ultima fase, quella del postmoderno e della globalizzazione, si può distinguere il periodo del postmodernismo da quello più recente che alcuni chiamano ipermoderno. Il postmoderno, insomma, continua ancor oggi mantenendo i caratteri sostanziali che lo definiscono ma anche progressivamente cambiandone alcuni e assumendone di nuovi, e invece si è estinto il postmodernismo che lo ha caratterizzato negli ultimi due o tre decenni del Novecento.
Quando di qui in avanti parlerò di crisi mi riferirò sempre ai cambiamenti che si sono affermati in Europa con il postmoderno a partire dagli anni settanta del Novecento e poi con le modificazioni subentrate nel suo ultimo periodo, il cosiddetto ipermoderno.
2.
Il postmoderno coincide con la rivoluzione elettronica e con la nuova centralità che viene ad assumere la produzione di beni immateriali e in particolare del linguaggio. Le parole e i segni sostituiscono le cose. Nomina nuda tenemus, Eco dixit, con quel che segue. L’intertestualità, prima di diventare una metodologia critica, è una visione del mondo che ha a che fare con questi nuovi modi di produzione e dall’influenza che essi hanno nel sensorio, nella mentalità e nei modi di percezione, con ovvie e ormai note conseguenze: interrelazione fra locale e globale, progressivo offuscamento dell’esperienza diretta, smaterializzazione dell’esistenza, trionfo del virtuale e della società dello spettacolo e dei simulacri, della rappresentazione e della rappresentazione delle rappresentazioni. Sul piano sociale si avvia un processo che è sempre più evidente a mano a mano che ci si inoltra nell’ipermoderno e che, in un libro recente, una economista, Laura Pennacchi, definisce in questi termini molto efficaci: desoggettivazione dell’io, desocializzazione dell’individuo, depolititicizzazione della società. Si tratta di tre fenomeni convergenti, reciprocamente correlati e anzi dipendenti l’uno dall’altro. Gli ultimi grandi intellettuali italiani ancora attivi negli anni settanta cominciarono a registrarli allora e vi videro un cambiamento radicale che Pasolini, come è noto, chiamò rivoluzione antropologica.
All’inizio, nella fase del postmodernismo, la nuova centralità del linguaggio, dei segni e delle rappresentazioni e la ideologia dell’intertestualità del mondo producono l’illusione della fine della materialità e della stessa realtà e, in letteratura, l’affermazione delle metanarrazioni, della riscrittura, del citazionismo (tutto è stato già scritto e detto e dunque può essere solo citato) e del pastiche (nel senso, spiegato da Jameson, della blank parody o parodia bianca o, direi piuttosto io, della parodia non parodica). Contemporaneamente la fine della distinzione fra letteratura di ricerca e letteratura di consumo certifica il primato del mercato e ad abbattere i confini che garantivano separatezza e prestigio alla sfera artistico-letteraria. Poi, negli anni più recenti dell’ipermoderno, quando la crisi economica e l’esplosione delle contraddizioni materiali diventano pressanti e non più eludibili, tendono ad affermarsi nuove forme di realismo (testimonianze dirette, autobiografie, cronache di fatti storici, reportage…). Forme nuove, va sottolineato, perché risentono delle fortissima mediazione sia delle recenti tecniche di comunicazione scritta e visiva (documentari, film, serie televisive, pubblicità, fumetti, grafic novel e manga in particolare) sia del filtro della soggettività quale si è andata modificando e strutturando sotto l’influenza di internet, dei blog, dei social network, della posta elettronica (esibizione della intimità, privatizzazione del pubblico e pubblicizzazione del privato, scrittura esclamativa ecc.). Si è parlato, a proposito di questa produzione letteraria, di neo-neo-realismo, ma in realtà le nuove tendenze non hanno niente in comune con l’esperienza del dopoguerra: come si sarà capito, la visione del mondo e i modi della rappresentazione sono infatti radicalmente diversi.
3.
Ho appena descritto alcuni caratteri della letteratura nata col postmoderno e della sua evoluzione negli ultimi quaranta anni. Vorrei indicarne ora due su cui l’attenzione degli studiosi si è forse meno impegnata: la fine del letterario con la conseguente ibridazione o contaminazione e la globalizzazione.
All’inizio degli anni sessanta Sereni aveva progettato una rivista dal titolo Questo e altro, dove questo stava per il letterario. Proponeva insomma un confronto serrato fra la letteratura e ciò che sta fuori della letteratura, la società e la politica. Per Sereni la letteratura aveva confini ancora certi: poteva e doveva aprirsi al mondo esterno e ad altri linguaggi diversi da quello letterario, ma mantenendo la propria identità. Gli anni sessanta segnano la crisi del genere lirico: Pagliarani con La ragazza Carla, gli altri novissimi, Pasolini, Sereni stesso con Gli strumenti umani, Giudici con La vita in versi, Caproni con Congedo del viaggiatore cerimonioso, anche lo Zanzotto di La Beltà, persino il vecchio Montale di Satura e dei diari introducono nel linguaggio poetico il lessico pubblicitario, industriale, della informazione giornalistica e televisiva, persino di un manuale di dattilografia. E tuttavia la letterarietà resta evidente sia nello sperimentalismo formale dei novissimi, sia nel linguaggio e nel ritmo più tradizionale di Sereni, Caproni o Luzi. È diventata una letterarietà “inclusiva”, come scrisse allora Raboni: una letterarietà che accoglieva e assorbiva in sé l’extraletterario. Persino Sanguineti, che annunciava di voler sabotare la letteratura, lo faceva ricorrendo alla forte mediazione delle avanguardie letterarie e dell’ironia iperletteraria della tradizione crepuscolare. Se poi consideriamo i romanzi che andavano per la maggiore in quegli anni, bisogna riconoscere che essi o pagavano dazio allo sperimentalismo avanguardistico proponendo di fatto un nuovo linguaggio letterario o non mettevano affatto in discussione il linguaggio letterario della tradizione (si pensi a Malerba, Manganelli, Consolo, Volponi da un lato, a Cassola, Moravia, Morante, Sciascia, Calvino dall’altro). A partire dalla seconda generazione postmodernista, quella dei cosiddetti cannibali, nella narrativa il linguaggio letterario comincia a dissolversi. Al posto dell’apertura del letterario all’extraletterario si assiste al trionfo del linguaggio parlato e televisivo e alla ibridazione fra linguaggi. Se nei cannibali è il linguaggio della pubblicità a far la parte del leone, oggi, negli anni dell’ipermoderno, può essere quello del reportage o dell’indagine giudiziaria o del saggismo sociologico o storiografico o della serialità televisiva (per il saggismo, si pensi al caso Saviano, per fare un solo esempio, ma si potrebbero citare anche quelli più recenti di Trevi, Scurati o Falco). Altre volte, semplicemente, il romanzo di oggi è scritto così come si parla in un bar, con un progressivo restringimento del lessico, sempre più usurato, e la sua sempre più frequente ibridazione con il linguaggio televisivo, con quello dei network, con i più diversi gerghi settoriali, ma anche ovviamente con il lessico delle lingue straniere (inglesi soprattutto) e con parlate che direi simildialettali che nascono dal deperimento dei dialetti. D’altronde anche le tecniche di scrittura sono sempre più tributarie di quelle della serialità e dei loro modi espressivi e comunicativi. Se a ciò si aggiunge il dominio della mercificazione, e cioè la quasi totale scomparsa di criteri editoriali ispirati a scelte di qualità e l’assoluta e schiacciante prevalenza di quelli economici, il quadro è pressoché completo.
In poesia la presenza del mercato è molto minore e i processi sono più lenti e graduali, data la resistenza del genere e la forza della tradizione. Il linguaggio letterario vi sopravvive, ma a fatica, a spezzoni, a tratti, a macchia di leopardo a volte anche all’interno della produzione di uno stesso autore.
La crisi del linguaggio letterario, d’altronde, non è che un aspetto della crisi della letteratura. In altri termini si è passati dalla letteratura della crisi (quella della prima generazione postmodernista di Eco, di Tabucchi e dell’ultimo Calvino) alla crisi della letteratura. È finita l’autonomia della letteratura, la sua separatezza e la sua sacralità. Il questo di Sereni non esiste più. A mano a mano che la sua identità va evaporando, la letteratura si deposita come una polvere impalpabile in una sere di altri ambiti (sceneggiature, pubblicità, scritti filosofici, storiografici, giornalistici….) diventando un “poetese”, avrebbe detto Sanguineti, buono per tutti gli usi. Ma tutto è diventato letteratura perché niente è più letteratura. È finita anche la dialettica anceschiana fra autonomia ed eteronomia della letteratura. Uno scrittore può essere impegnato o disimpegnato, ma nessuno se ne lamenterà né in un caso né nell’altro. La letteratura è diventata eteronoma, non perché abbia ceduto all’impegno politico, ma perché i mutamenti tecnologici, economici e sociali in corso ne hanno dissolto i confini. Che riesca a trovare un’altra identità nella contaminazione può darsi, ma non è detto. Il processo è in corso e i suoi esiti sono tutt’altro che scontati.
La globalizzazione ha conseguenze particolarmente incisive, anche in questo caso, sulla narrativa. E non solo perché si diffonde, in seguito alla immigrazione, il fenomeno di scrittori algerini o egiziani o senegalesi o pakistani o iraniani o albanesi che scrivono anche in italiano, ma anche perché la produzione diretta nella nostra lingua e soprattutto, molto più frequentemente, la traduzione di opere di autori del cosiddetto terzo mondo è sempre più massiccia e invasiva, tanto da cominciare a insidiare lo stesso primato occidentale (la battaglia sul canone nelle università degli Stati Uniti è da tal punto di vista esemplare). Anzi, molto probabilmente l’iniezione di questo sangue nuovo e vitale ha contribuito in modo decisivo a porre in discussione il postmodernismo: una letteratura fondata sulla riscrittura e sulla metaletterarietà è entrata in crisi sotto l’urto delle rinascenti contraddizioni materiali ma anche sotto la pressione di una letteratura che parlava di fame, di viaggi di fortuna, di dittature e di guerre spaventose, di esistenze in esilio. Le nuove forme di realismo nascono anche da questa nuova situazione (nuova per l’Italia e per la vecchia Europa; negli Stati Uniti non è mai venuta meno una linea, fra Roth e Delillo, di modi fra loro diversamente realisti).
4.
La crisi della letteratura è anche crisi della forma saggio. Il critico letterario si sente mancare il terreno sotto i piedi. La materia stessa su cui si esercita sta smottando costringendolo a cercare terra ferma in altri campi o a intraprendere tentativi in nuove direzioni come da tempo, e comunque assai prima degli addetti alla letteratura, hanno fatto i cultori di discipline limitrofe, come gli storici, i filosofi, o gli studiosi del mondo classico.
La crisi della forma saggio comporta anzitutto il tramonto della critica concepita come momento di tensione fra impegno etico-politico e impegno letterario e culturale. Come è declinata la figura storica dell’intellettuale quale si è andata configurando dall’illuminismo a oggi, così nell’ultimo trentennio appare ormai esaurita, almeno in campo umanistico, la sua forma specifica di espressione, ormai sostituita dall’intrattenimento giornalistico e dallo studio accademico, nonché da interessanti tentativi di contaminazione fra questi due modi di cui dirò più avanti. Il saggio alla Fortini, alla Cases o alla Pasolini non è più praticabile perché sono venuti meno il mandato civile e la società che esso presupponeva. Il declino del saggio è anche da collegarsi alla scomparsa di una intera civiltà letteraria fondata sul valore e sulla sacralità della letteratura che, nel bene e nel male (il male non è mancato), è stata attiva sino a una trentina d’anni fa. Ma anche il saggio alla Sapegno o alla Muscetta o, per altri versi, alla Contini o alla Praz non è più possibile a causa, nel primo caso, della fine di un ruolo pubblico dell’intellettuale umanista e nel secondo della scomparsa di un gusto elitario e della società letteraria che la coltivava. Insomma, come ha scritto Pierre Guiraud, il saggio muore schiacciato «dalla tentazione di dire tutto a nessuno, o dire nulla a tutti».
Accanto al saggio d’intrattenimento, incessantemente promosso per via televisiva dal mondo giornalistico, resta ovviamente quello accademico. Ma la produzione accademica oggi è a circuito chiuso: è rivolta alla istituzione, nasce e finisce lì. È settoriale e specialistica; ed è asfittica perché non ha più intorno il respiro di una società civile che la accolga e possa nutrirsene. Unica parziale eccezione è il commento ai testi, che sembra avere ancora un piccolo margine di mercato e una qualche utilizzazione divulgativa e scolastica.
Una serie di fattori hanno accelerato in anni recenti questa involuzione della critica accademica. Ne elenco rapidamente alcuni: i nuovi sistemi di valutazione svolgono una funzione coattiva dato che regolano la carriera accademica secondo criteri rigidamente specialistici e scientifici (o sedicenti tali) che ignorano l’aspetto interdisciplinare e sociale della ricerca e puntano esclusivamente sugli aspetti quantitativi e oggettivamente misurabili. Da qui il cosiddetto disciplinamento che la incanala nei recinti predefiniti delle singole microdiscipline, togliendole complessità, aria e sfondo. Infine lo stesso precariato che caratterizza la vita dei giovani ricercatori li costringe a elaborare di continuo microprogetti che li distolgono da progetti strategici e da lavori di lunga lena per indurli ad adattarsi di volta in volta a esigenze diverse a seconda delle varie università e dei diversi paesi dove cercano lavoro.
In questa situazione bisogna tuttavia registrare una tendenza di tipo saggistico che cerca di sfuggire alla tenaglia della scelta fra intrattenimento e accademismo. pure in qualche modo utilizzando l’uno e l’altro. È un fenomeno parallelo a quanto sta avvenendo nel romanzo, in cui, come ho già osservato, il nesso fra saggistica e narrativa è un carattere ormai molto evidente. In questo caso la componente narrativa è egualmente presente, ma all’interno di un processo espositivo in cui convergono istanze diverse – anche volte, per esempio, a ricercare la complicità del lettore attraverso il ricorso al pathos – ma che comunque mira a sostenere una tesi e perlopiù un assunto propriamente argomentativo. La nuova saggistica può ricorrere agli strumenti specialistici dell’accademismo, ma a differenza del discorso accademico, che ostenta obbiettività e impersonalità, si manifesta solo attraverso una forte mediazione soggettiva, ed è appunto questa mediazione a consentire narratività ed eventuale pathos. Inoltre l’autore, in questo ispirandosi alle scritture d’intrattenimento, non rinuncia ad adeguarsi, almeno in parte, al pubblico cui si rivolge e dunque a farsi carico del punto di vista del destinatario, cosa impensabile nel discorso accademico. Infine questa nuova saggistica risente del linguaggio dei blog e di internet (a volte, anzi, rielabora materiale che ha trovato qui la sua forma originaria), in qualche modo si ispira alla sua immediatezza e si rivolge comunque ai suoi fruitori. Non è certo un caso che anche il mondo editoriale si sia accorto della nascita di queste nuove forme saggistiche e tenda a incanalarle in nuove collane (penso, per esempio, a quelle recentemente lanciate da Laterza in cui sono apparsi i volumetti di Giglioli e di Mazzoni) particolarmente agili e nettamente distinte tanto da quelle accademiche quanto da quelle di puro intrattenimento. Qui critici letterari spesso di provenienza comparatistica, e quindi a ciò predisposti anche dalla esperienza di ibridazione dei cultural studies, tendono a ricercare un nuovo ruolo e un nuovo spazio: abbandonano quello tradizionale della letteratura, o lo utilizzano in modo subordinato e subalterno ad altri tipi di discorso, e sconfinano perciò su altri terreni di tipo storico, sociologico, antropologico e molto genericamente politico.
Più raro invece è il caso dei critici che cercano di rinnovare le forme saggistiche restando su un terreno prevalentemente letterario. La critica letteraria, d’altronde, è assente o del tutto emarginata nel mercato editoriale, e i tentativi di un suo rinnovamento di forme, di linguaggio e di destinatario, simile a quello già avvenuto per altre discipline umanistiche, tendono perciò a incanalarsi e quasi a nascondersi in collane tradizionali.
Fra i non molti esempi a disposizione di questo tipo (potrei citare i casi di Giunta, di Di Gesù, di Iossa) ne scelgo uno recentissimo che può servire, grazie anche alla autorità dell’autore e alla indubbia serietà del suo tentativo, a documentare concretamente lr direzioni di questa nuova saggistica nel campo della critica letteraria. L’autore è Valerio Magrelli, un accademico che però è anche un poeta, in campo cinematografico è stato collaboratore di Fellini e scrive sulla stampa quotidiana (aspetti di una attività multiforme e in qualche modo plurimediale che vanno tenuti presenti per capire il tipo di operazione e di linguaggio impiegato). Il libro è Millennium Poetry, che ha molti dei caratteri innovativi che ho sopra enunciato eppure esce in una collana tradizionale come Intersezioni del Mulino. Bastano il titolo e il sottotitolo che suona: Viaggio sentimentale nella poesia italiana. Se il titolo allude a un linguaggio consueto al mondo televisivo, cinematografico e pubblicitario (a partire dall’uso della lingua inglese, che ormai si sta affermando per i titoli dei film), il sottotitolo evoca, col sostantivo viaggio e con l’aggettivo sentimentale, quel rimando alla mediazione soggettiva di cui parlavo: il rinvio colto a Sterne è presente, ma il lettore meno informato che non lo comprende può comunque egualmente apprezzare il concetto che esprime. La introduzione si presenta poi con questo titolo di per sé eloquente: +39:istruzioni per l’uso e al suo interno si dichiara che il libro – una antologia commentata di 39 poeti dal Mille a oggi – è, oltre che un viaggio, «un’avventata avventura antologica» e «una schedatura ludica e sentimentale», mentre il commento procede, si dice, per «accostamenti inconsueti» spesso sostenuti da una vena narrativa più che strettamente argomentativa. Anche se Magrelli manifesta molto rispetto per la critica accademica, è chiaro che qui ne siamo lontanissimi. Non mancano certo nelle varie schede osservazioni specialistiche di metrica e di retorica e riferimenti eruditi, che sarebbe impossibile trovare nella saggistica di intrattenimento giornalistico, ma è dichiarato, ed evidente, l’intento di rivolgersi a un pubblico non specialistico con una funzione anche divulgativa. Se si aggiunge che l’autore nella introduzione fa l’elogio di Wikipedia di cui dichiara di essersi ampiamente servito, si può ancor più capire, attraverso questo esempio, la direzione verso cui muove, alla ricerca di una difficile sopravvivenza, la nuova saggistica.
5.
Poche parole di conclusione. Mi sono limitato a descrivere oggettivamente la fine di un mondo e le nuove possibilità che possono aprirsi. Giunto alla fine del mio discorso, non posso rinunciare tuttavia a esprimere un giudizio, per quanto molto rapido e sommario.
Devo dire che non rimpiango il passato, ma non ho molte speranze per il futuro. Che non esistano più un linguaggio letterario e una repubblica delle lettere non può essere oggetto di rimpianto. Sappiamo tutti, dopo Bourdieu, come è nata una società letteraria e su quali valori, o disvalori, si fondasse, su quali privilegi, talora illusori ma non meno reali. E lo stesso si deve dire per l’autonomia del letterario e l’ideologia della sua sacralità quale è stata praticata almeno per due millenni, a partire dal favete linguis di Orazio. L’identità della letteratura quale si è costituita attraverso i secoli ha portato in sé il segno di quella barbarie di cui hanno parlato Benjamin e Marx, il primo in una tesi in cui ha illustrato il nesso fra civiltà e barbarie, il secondo in una pagina famosa in cui ci ha mostrato di che lacrime grondino e di che sangue i polpastrelli della mano di Beethoven.
E tuttavia in quell’idea di letteratura restava, seppure distorta, l’allusione a un valore, a qualcosa che andasse oltre il contingente e l’immediato e che provocasse o potesse provocare commozione e ammirazione. E se nessuno oggi potrebbe rimpiangere le miserie, i riti meschini e i privilegi della cosiddetta repubblica delle lettere, altra cosa era l’eco che l’attività letteraria e saggistica avevano nella società civile e, nel dopoguerra europeo, persino all’interno del movimento operaio (anche qui con luci e ombre che vanno ricordare e distinte). È esistito un tempo insomma in cui letteratura e saggistica potevano almeno conservare l’aspirazione a superare la propria separatezza in senso non consumistico ma civile e a entrare in un dibattito generale e in un conflitto delle interpretazioni che attraversava una parte non indifferente del corpo sociale. Oggi l’insignificanza della letteratura e della saggistica appare segno ed emblema di una insignificanza più generale e complessiva che traspare da ogni aspetto della nostra vita, e di uno stato di impotenza e di minorità che riguarda tutti.
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Il quesito di Sereni
«All’inizio degli anni sessanta Sereni aveva progettato una rivista dal
titolo Questo e altro, dove questo stava per il letterario. Proponeva
insomma un confronto serrato fra la letteratura e ciò che sta fuori della
letteratura, la società e la politica. Per Sereni la letteratura aveva
confini ancora certi: poteva e doveva aprirsi al mondo esterno e ad altri
linguaggi diversi da quello letterario, ma mantenendo la propria identità
[…]La crisi del linguaggio letterario, d’altronde, non è che un aspetto
della crisi della letteratura. In altri termini si è passati dalla
letteratura della crisi (quella della prima generazione postmodernista di
Eco, di Tabucchi e dell’ultimo Calvino) alla crisi della letteratura. È
finita l’autonomia della letteratura, la sua separatezza e la sua sacralità.
Il quesito di Sereni non esiste più. A mano a mano che la sua identità va
evaporando, la letteratura si deposita come una polvere impalpabile in una
sere di altri ambiti (sceneggiature, pubblicità, scritti filosofici,
storiografici, giornalistici….) diventando un “poetese”, avrebbe detto
Sanguineti, buono per tutti gli usi. Ma tutto è diventato letteratura perché
niente è più letteratura..» (Luperini)
Che il quesito di Sereni non esista più nella testa di Magrelli o dei nuovi
saggisti o narratori e che « i mutamenti tecnologici, economici e sociali in
corso […] hanno dissolto i confini [della letteratura]» è fuori
discussione. Ma quel quesito non fu posto in un momento di crisi forse meno
grave di quella d’oggi, ma comunque di crisi? E non ha forse più ragione
d’essere in altre forme non dissimili da quelle della rivista di Sereni?
“Catacombe” e “conventi” e “samizdat” dove echi di una certa idea di
letteratura permangono e vengono coltivate istanze anticonsumistiche e
civili ancora ci sono. E le ragioni per resistere alla crisi ci sono tutte.
Anche se non c’è alcuna certezza che questo lavorio sotterraneo inciderà «in
un dibattito generale e in un conflitto delle interpretazioni che
attravers[i] una parte non indifferente del corpo sociale».
I prigionieri dei lager sotterravano i loro messaggi in borracce d’alluminio
o vasi di conserva o bottiglie di vetro e li seppellivano nel terreno dei
lager vicino alle recinzioni di filo spinato o addirittura sotto lo strato
di cenere dei morti. Noi, prigionieri di una crisi che non sappiamo
contrastare, li lasceremo nel Web. Ma li lasceremo.
ENNIO ABATE