Un percorso didattico tra filosofia e poesia
Insegno filosofia e storia nei licei. Il mio rapporto con l’insegnamento della poesia è indiretto, ma mi sforzo di mantenerlo costante. Una questione che mi pongo sin da quando ho iniziato il mestiere di professore è perché agli alunni, anche ai più motivati, dovrebbe interessare qualcosa della filosofia e della storia, le discipline che insegno, e della poesia, l’attività che comunque concentra l’attenzione e le energie di una buona parte delle mie giornate. Cosa possono trovare, nella filosofia e nella poesia, che possa suscitare il loro interesse, in queste due dimensioni dello spirito umano apparentemente così lontane dal loro quotidiano? La maniera migliore per cercare di rispondere a queste domande è quella di far interagire poesia e filosofia in modo che si possano illuminare vicendevolmente, soprattutto in alcuni snodi essenziali della storia del pensiero filosofico.
Poesia e filosofia delle origini
Il confronto tra mito, pensiero prefilosofico e nascita della filosofia è uno dei punti di partenza fondamentali. I passaggi su cui concentro l’attenzione sono i frammenti di Eraclito e di Parmenide. Cerco di mettere in evidenza come nella cultura delle origini, tramandata oralmente, di cui noi conosciamo il depositato scritto dalle opere e dalle testimonianze che ci sono state trasmesse, sia quasi impossibile separare discorso poetico da quello mitico-religioso. La stessa parola mythos significa sia parola sia verità e la parola poesia (poésis) deriva dal verbo greco poiéin che significa inventare, produrre, comporre, fare: essa è una delle tecniche di produzione umana, ma è quella che, in particolare, produce un senso all’accadere, sottraendolo dal muto e implacabile succedersi degli eventi naturali. In ultimo mi soffermo sul termine theorìa che indica lo specifico approccio del sapere greco alla realtà rispetto alle altre culture antiche. Termine che significa solenne ambasciata, festa, da cui si origina quindi la religione, il mito, la poesia, il teatro e il pensiero di una comunità, cioè il luogo in cui i mortali entrano in rapporto con il sacro, con ciò che è separato dalla realtà sensibile, ma che la anima e quindi è ciò che è essenziale per la vita stessa.
Il passaggio successivo è incentrato sul tentativo di evidenziare come queste forme di produzione di senso e di sapere nascano come risposta necessaria all’inquietudine dell’uomo. A tal proposito, prendo spunto dai passi del Teeteto di Platone1e dal primo libro della Metafisica di Aristotele, in cui si parla della meraviglia come origine della filosofia, del domandare circa il senso delle cose e del Tutto.2 In questi passaggi preliminari cerco di mettere in evidenza, sulla scia dell’interpretazione che del passo di Aristotele fa Emanuele Severino,3 che la meraviglia è da intendere non come il semplice meravigliarsi ingenuo a cui di solito il concetto rimanda, ma è, in maniera più inquietante, uno sgomento che nasce dall’angoscia nei confronti del dolore, del divenire incessante di ogni cosa, dell’annientarsi di tutto ciò che appare e quindi anche dell’uomo, che è colui che pone questa domanda. Nel passo in questione lo Stagirita sottolinea la continuità tra sapere filosofico e quello mitico-poetico, mettendo in correlazione i filosofi e gli amanti del mito, in quanto anche quest’ultimi sono amanti della verità, perché il mito è costruito da cose che destano meraviglia e a cui si cerca di dar un senso attraverso la parola (mythos), che è essa stessa una comprensione, una narrazione vera, per la cultura che la partorisce, dell’origine di tutte le cose, una spiegazione del Tutto. La cosa che mi preme sottolineare è la connessione della filosofia con la poesia: la connessione è drammatica perché esse si confrontano con lo stesso oggetto ed entrambe ne rivendicano la supremazia, ossia il senso ultimo della realtà. A tal proposito mostro come la poesia abbia continuato a riflettere sull’uomo in maniera radicale fino a giungere all’esperienza più alta dello spirito greco che è la tragedia attica, come mostra l’inno a Zeus dell’Agamennone di Eschilo, in cui si mette in evidenza come la questione del sapere sia legata strettamente al dolore, a sua volta connaturato alla vita, e che solo la verità, impersonata da Zeus principio di tutte le cose, può scacciare il dolore che angoscia l’anima .4
La domanda che a questo punto pongo ai miei alunni è: “se pensiero mitico-religioso-poetico e filosofia si pongono entrambi come risposte al dolore che angoscia l’uomo, qual è lo specifico della filosofia”? La risposta che, insieme con le loro osservazioni cerco di dare, è che la filosofia ha sempre cercato di porsi come il vero sapere, come l’episteme contro la mentalità comune e i falsi saperi, di cui la poesia e il mito, nella prospettiva filosofica, sono i maggiori rappresentanti. I due momenti in cui questa contrapposizione si fa più acuta nel pensiero greco sono nella riflessione di Eraclito e in quella di Platone.
In Eraclito vi è una condanna esplicita del falso sapere di cui la tradizione poetica è portatrice: “Omero è degno di essere scacciato dagli agoni e di essere frustato, ed egualmente Archiloco”. 5 In Eraclito vi è una netta cesura tra la filosofia, i filosofi,”i pochi” e la multi scienza, il mito, la poesia e la mentalità comune, “i più”. Questa prospettata da Eraclito è una delle separazioni più nette tra filosofia e mentalità comune, in Eraclito per la prima volta la filosofia si presenta come un vero e proprio rovesciamento della mentalità comune di cui i poeti, a suo avviso, sono portatori. Omero, Esiodo, Archiloco, ma lo stesso Pitagora ancora immerso in un spirito religioso, sono portatori di un falso sapere, che si ferma all’apparenza, che non indaga l’armonia segreta delle cose, l’unica legge che le governa. Nell’opposizione tra filosofia e pensiero mitico poetico, Eraclito coglie e fissa una distinzione fondamentale tra attitudine filosofica che cerca l’uno, l’archè, nel molteplice, che quindi produce una reductio ad unum di tutti i fenomeni, e l’attitudine poetica, che poi diventerà nella modernità l’attitudine estetica, che coglie il dettaglio, le diverse sfaccettature del reale per mostrarne l’intima ma illusoria bellezza. Però c’è da dire, e questo è un aspetto che di solito sottolineo sempre con i miei alunni, che una delle riflessioni più radicali e inquietanti del pensiero occidentale, come quella di Parmenide sull’Essere, ma anche quella successiva di Empedocle, ha una forma poetica, e cerco di mostrare come la veste del poema non è tanto un omaggio al vecchio sapere mitico prefilosofico, non ancora morto, come di solito viene interpretato, ma è un elemento fondamentale, in quanto la stessa radicalità del pensiero di Parmenide richiede la dimensione rivelativa della poesia, come dimensione della parola non funzionale, ma come luogo in cui avviene il confronto con le questioni ultime dell’esistenza, dell’uomo e del pensiero appunto.
Con il pensiero di Platone abbiamo uno dei punti più critici e drammatici del rapporto tra filosofia e poesia nell’antichità, tanto più drammatico perché Platone stesso era un poeta, aveva scritto tragedie che poi ripudiò, e anche nelle sue opere filosofiche sentì il fascino della parola poetica, basti pensare all’uso che Platone fa del mito. Infatti esso, da un lato, è un addomesticamento del sapere originario dell’umanità a fini didattico-filosofici, tant’è vero che ha la necessità di inventarne molti di sana pianta per poterli utilizzare nell’ambito del suo pensiero e della sua scrittura dialogica; dall’altro lato, la creazione dei miti in Platone risponde ad una profonda esigenza di creazione artistica ed essi sono delle vere e proprie opere d’arte poetiche. La condanna platonica dell’arte imitativa e quindi anche della poesia epica, che imita i gesti dei grandi eroi, è motivata con l’argomentazione che essa è tre volte lontana dalla verità, perché imitazione di un’imitazione, la realtà fenomenica copia imperfetta dei modelli eterni delle idee, ma anche perché la poesia confina pericolosamente con la mania. Come Platone dimostra nel dialogo Ione6, essa non è una tecnica che l’uomo può padroneggiare con conoscenza, ma un’ispirazione divina che fa sì che la poesia sia ancora frutto di uno pseudosapere che non è nelle disponibilità proprie dell’uomo. La poesia è una mantica e non un’episteme, è in preda alla follia che invasa gli uomini quando sono posseduti dal dio, in questo caso dalle muse, e quindi non è un vero sapere ma un’ispirazione che non sa di sé fino in fondo. Ne deriva che secondo Platone la poesia ha una statuto ambiguo, perché è parola divina e di conseguenza degna di essere ascoltata, ma proprio perché divina il poeta non è più in sé e quindi fa esperienza della follia, della contraddizione che si agita oltre il principio di individuazione. Nella poesia quindi le cose al tempo stesso sono e non sono, sono quel che appaiono ma rimandano ad altro, sono simboliche appunto, tengono insieme due elementi che non potrebbero stare insieme, perché ogni cosa nella parola poetica è se stessa ma rimanda anche a qualcos’altro d’indeterminato. L’arte e la poesia sono il luogo dove realtà e illusione, verità e menzogna si confondono e si alimentano l’un l’altra in maniera pericolosamente ambigua sia per la polis che per la psiche. Invece la filosofia autointerpreta se stessa come il vero sapere, come ciò che sta su con le sue sole forze, episteme appunto, senza bisogno d’altro, e solo su di essa si può fondare la polis.
Faccio quindi notare ai miei alunni come nella Repubblica ci sia un continuo parallelismo tra struttura della psiche e struttura della polis. La polis ideale, nel senso proprio dell’espressione, può fondarsi solo sul vero sapere, che in quanto vero è anche giusto: di conseguenza i poeti, in quanto portatori di uno pseudo sapere che rende folli, per Platone dovrebbero essere cacciati dalla città. Tale cacciata è molto più seria di quanto si possa pensare. Essa è durata per più di due millenni e, sotto forme diverse, dura tutt’ora e per avere un punto di svolta dovremo aspettare Baudelaire che si riapproprierà della città da flâneur, cioè da anonimo passeggiatore senza un ruolo definito nella società, e dovrà attraversare i bassifondi di Parigi, della metropoli moderna e dell’anima dell’uomo contemporaneo per cogliere non più nel bello ciò che è buono, secondo l’idea della Grecia classica della kalagocathia trasmessa all’intero Occidente, ma nel bello il male, ciò che non redime né salva, che diventerà un tema centrale della poesia e di tutta l’arte contemporanea.
Pensiero e versi
L’inizio del secondo anno del corso di filosofia, quando per scarsità di tempo sono costretto a recuperare la parte del programma che non sono riuscito a svolgere l’anno precedente, lo dedico allo studio della filosofia medievale, soffermandomi sugli aspetti e gli autori fondamentali sia della Patristica che della Scolastica. Al termine del percorso mostro come, soprattutto nell’opera di Dante, vi sia una dimensione anche filosofica, ma che senza la filosofia aristotelica, nelle sue varianti medievali dall’averroismo al tomismo, la stessa opera poetica di Dante sarebbe inconcepibile: basti pensare alla simbologia di ascendenza boeziana della filosofia come “Donna gentile”. Infatti, senza la profonda visione filosofica e teologica che vi è connaturata e che alimenta la Commedia – ma anche nel De Monarchia e nel Convivio – essa non sarebbe intellegibile e, a tal proposito, prendo spunto da un passo della Conversazione su Dante di OsipMandel’štam,7 in cui il poeta russo mette in evidenza come il verso stesso è il modo in cui il pensiero si fa parola, un verso che “deduce, vigila, sillogizza”.
Cerco di far vedere e sentire come la stessa versificazione della Commedia sia essa stessa filosofica e che in alcuni passaggi ricalchi le stesse movenze dell’atto del pensare, anzi come la forma del discorso alimenti il pensiero, detti la strada, più precisamente, crei il sentiero al pensiero. Di solito a tal proposito cito i versi (dal v.52 al v.81) del XVI canto del Purgatorio, in cui Dante discute con Marco Lombardo della questione del libero arbitrio e delle influenze delle stelle, riproponendo, nell’ambito della filosofia medievale, il rapporto tra libertà, intesa come autodeterminazione dell’agire, e necessità e le conseguenze ricadute sul concetto di responsabilità.8
Leggendo Dante in rapporto alla filosofia medievale sottolineo una cosa di cui sono sempre stato convinto, cioè che i migliori lettori della filosofia sono i poeti, perché riescono a cogliere la tensione originaria che alimenta quel pensiero e quella determinata declinazione del reale. E questo tema ritorna prepotente in un filosofo che amo particolarmente, Spinoza, che quasi sempre introduco con passi tratti da lettere di due suoi lettori e interpreti successivi, Nietzsche e Goethe. La lettera di Nietzsche al suo amico Overbeck,9 in cui comunica la scoperta del pensiero di Spinoza, ha degli accenti così forti e drammatici, che si comprende che prima di un’adesione razionale al pensiero di Spinoza vi è un’adesione simpatetica al risvolto esistenziale della filosofia dell’olandese. E poi leggo un brevissimo passo di Goethe in cui afferma che Spinoza “non dimostra l’esistenza di Dio. Ma che l’esistenza è Dio”,10 facendo notare come l’estrema sintesi dell’espressione di Goethe dica l’essenziale della filosofia panteistica di Spinoza. Di solito accompagno questa frase con la lettura delle due ottave della poesia di Fjodor I. Tjutčev, La primavera .11
Natura e verità
Il Deus sive Natura spinoziano, la natura immensa, divina, trasparente a se stessa e indifferente, al cui potere l’uomo non può sottrarsi è una delle più importanti alternative alla visione antropoteocentrica che caratterizza l’occidente. Il tema della natura eterna e necessaria in cui l’uomo non occupa nessun posto privilegiato, già presente in Bruno e nel pensiero greco della physis, diventerà un punto di vista alternativo all’antropocentrismo prevalente fino ai grandi sistemi idealistici, che pur si rifanno a Spinoza nell’impostazione immanentistica, ma diventerà invece sempre più presente in esperienze di pensiero (sia filosofiche che poetiche) che si confronteranno in maniera radicale col senso del Tutto e del posto dell’uomo all’interno della realtà. Un passaggio è quello kantiano, non solo per l’analisi della natura come realtà fenomenica nella Critica della ragion pura, ma anche come luogo in cui l’uomo fa esperienza del giudizio estetico, oltre che a quello teleologico, nella Critica del giudizio. Se pur Kant resta in una visone antropocentrica, ritenendo che senza l’uomo che la contempla la natura sarebbe un inutile deserto, vi è un’analisi del bello e del sublime naturale che stacca la riflessione estetica dal ristretto ambito sensistico e la riapre alla riflessione metafisica, ma in un accezione diversa rispetto a quella antica.
Ed è proprio il tema del sublime ripreso da Kant a darmi spunto all’inizio dell’ultimo anno per aprire una congrua parentesi su un autore che esulerebbe dal programma di filosofia, ma che invece può essere annoverato tra i più grandi pensatori di tutti i tempi: Leopardi. Oltre ad “usare” L’infinito e alcuni passi de La ginestra per spiegare, e soprattutto far vedere attraverso le immagini poetiche, la concezione kantiana del sublime e le relative articolazioni in sublime matematico e sublime dinamico, mostro come Leopardi anticipi gran parte delle tematiche che nel corso dell’ultimo anno si affronteranno, soprattutto nel filone della filosofia che tra Otto e Novecento si presenta come un rifiuto delle garanzie teologiche metafisiche e che pone una riflessione radicale e non conciliante sulla realtà e le possibilità di conoscenza dell’uomo.12
I punti in cui faccio emergere la grandezza della riflessione leopardiana sono, oltre al canonico rapporto tra il pessimismo leopardiano e quello schopenhaueriano, la riflessione leopardiana presente in vari punti dello Zibaldone e di altre opere13 tra verità e illusione e tra filosofia e poesia, dove la poesia viene dichiarata un’illusione che riproduce la dimensione ingannevole della natura, ma è essa stessa consolazione necessaria all’interno dell’irrimediabile dolore dell’esistenza, quando si scopre che la verità non salva più e che la verità di ogni cosa e di Dio stesso è il nulla mirabile e spaventoso, la poesia pur rimanendo nell’ambito dell’illusione delle forme, affronta, portando dentro di sé l’istanza veritativa della filosofia, in un corpo a corpo spietato l’abisso dell’esistenza universale in una catabasi tragica, nulla al ver detraendo.
Quindi sembra che a partire da Leopardi il rapporto tra filosofia e poesia si inverta o per lo meno si faccia più problematico, in quanto il poeta è prima di tutto un pensatore, è detentore di quella stessa episteme, non più salvifica, che rivendicano i filosofi, ma anzi è in possesso di un’acuta e straziante consapevolezza che solo la sensibilità poetica, la sua radicale malinconia, può dare. La filosofia tanto più è vera quanto più dice il deserto della vita e perciò rifiuta la menzogna della salvezza, la poesia è necessaria perché nell’illusione consapevole del bello dice il tremendo. Di solito il punto su cui mostro la convergenza tra Leopardi e il pensiero post idealistico è con Nietzsche e in particolare il classico confronto tra i versi del Canto di un pastore errante dell’Asia e la seconda delle Considerazioni inattuali che s’incentra sul rapporto tra memoria oblio e senso del dolore14, e il confronto, ancora più serrato, tra il finale del Cantico del canto silvestre e l’incipit di Verità e menzogna in senso extramorale in cui, in una pre-visione finale e terribile del destino della natura e del mondo, entrambi si interrogano sul senso del’operare umano e dei suoi sforzi, soprattutto intellettuali, nell’ambito della totalità di tutte le cose e soprattutto in rapporto all’incombere del nulla, vero ospite inquietante della nostra contemporaneità.15
Tecnica, nulla e uomo
Ciò che intendo mostrare ai miei alunni nel percorso, che in queste righe sto cercando di ricostruire, chiudendo il cerchio che ho aperto il primo anno con l’analisi della meraviglia greca, è che poesia e filosofa nascono della stessa domanda, dallo sgomento di fronte all’enigma delle cose, dell’uomo e dell’essere, e che, pur dando risposte differenti, continuano a confrontarsi in maniera serrata. Non vi è poesia senza teoria e non può esserci teoria senza un’ inventio poetica, perché entrambe rimangono in quello spazio aperto che è il mondo. La differenza che mostro è che la storia della metafisica, almeno fino a tutto l’idealismo, è un tentativo di chiudere lo spazio del domandare, di rispondere alla meraviglia individuando le cause dell’essere, mentre la poesia vi indugia sgomenta, non per un gratuito bearsi, ma per radicalizzare il domandare e renderlo sempre più essenziale. Di solito, quando i tempi ristretti delle ore curriculari me lo permettono, mostro come una parte della filosofia novecentesca, invece, abbia ritenuto necessario e imprescindibile il rapporto con la poesia e la sua comprensione, non tanto per incasellarla e definirla in un ambito concettuale predefinito da un sistema filosofico, ma, invece, per poter aprire nuovi sentieri al pensiero stesso.
Un’esperienza su tutti, anche se non l’unica, è quella di Heidegger e il suo continuo colloquio con i poeti:Hölderlin su tutti, ma anche Rilke, Trakl, per citare i maggiori. Evidenzio che questo dialogo tra poesia e teoria, che c’è sempre stato fin dagli albori del pensiero occidentale, è diventato ancora più serrato quando la filosofia ha iniziato ad abdicare alle sue pretese metafisiche, in altre parole ha abdicato a porsi come il Rimedio contro l’angoscia del divenire e della morte e, venute meno le sue istanze totalizzanti, ha iniziato a confrontarsi in maniera sempre più serrata con ciò che esulava dalla dimensione di un pensiero fondativo, che avesse come obbiettivo esclusivo individuare le cause dell’essere. È per questo che il confronto con l’arte, e con la poesia in particolare, si fa strada in autori come Schelling (che nell’ultima fase del suo pensiero insiste sul concetto di indeducibilità dell’esistenza aprendo la strada agli esistenzialismi ottocenteschi e novecenteschi), in Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Freud e gran parte della filosofia del ‘900. E di contraltare la poesia ha iniziato a interrogarsi sul senso del proprio dire, basti pensare alle esperienze più radicali del ‘900 (di solito cito Celan, Mandel’stam, T.S. Eliot, Pavese) che, pur nella loro diversità, hanno riflettuto teoricamente sulla poesia e come spesso esse abbiano raggiunto il grado zero del dire poetico per scoprirne il senso.
Nell’epoca contemporanea, quindi, poesia e teoria si incontrano e scontrano di nuovo su un nuovo terreno, quello del nulla, dell’umanità che si scopre senza un appello, senza una garanzia metafisica e che ha questi due strumenti, come soli fuochi per aggirarsi nel buio. Quando parlo di questo con i miei alunni sottolineo fortemente la dimensione radicalmente e specificamente umana della filosofia e della poesia, in quanto faccio notare, seguendo la traccia sofoclea dell’Antigone,16 che l’uomo è l’unico essente, per quel che ne sappiamo, che è enigma a se stesso, a cui è negata la presunta beatitudine degli dei e l’istintiva e immediata certezza degli altri essere viventi e che quindi quello specifico mortale che è l’uomo, specifico perché sa che deve morire, deve produrre un senso, fosse anche solo nel dover riconoscere un senso già dato una volta e per sempre come crede di fare la metafisica, e che la dimensione originaria di questa produzione è quella mitico poietica.
Il porre in evidenza tale connessione mi serve soprattutto a sollecitare i miei alunni ad uscire da facili luoghi comuni radicati nella mentalità quotidiana, primo tra tutti, che la poesia sia un semplice sfogo dell’animo, qualcosa di inessenziale nella vita e che al massimo possa essere un orpello, un passatempo decorativo, sempre più inutile perché sorpassato da altri passatemi sempre più accattivanti, o che si legga o produca nei ritagli di tempo liberi. Dall’altro canto, ad evidenziare come la filosofia non è qualcosa di astratto, ma che risponde allo specifico umano e che propriamente è quel momento in cui la coscienza umana si desta dall’ovvio in cui essa è quasi sempre immersa, soprattutto nell’esperienza della contemporaneità, dove sia la filosofia che la poesia sono state sostituite come esperienze costitutive della realtà dal sapere scientifico-sperimentale e dalla tecnica. Tecnica da cui sono mossi anche la loro quotidianità e i loro desideri, che a loro che sono adolescenti appaiono giustamente irripetibili e originalissimi, in cui la loro e la nostra individualità si disperde e dimentica se stessa.
Di solito una battuta che faccio sempre ai miei alunni è che noi crediamo di muovere il mouse e di controllarlo, ma è il mouse del Pc che muove la nostra mano, immagine paradossale che li vuole provocare a un domandare più radicale, circa la loro quotidiana immersione nel dominio tecnico. Dominio tecnologico che tende a separare sempre di più pochi tecnici iperspecializzati, che non sanno ma che sono abili nel loro operare specifico, e tutti noi che invece con l’apparato tecnico crediamo di avere un rapporto di mero utilizzo, ignorante dei meccanismi di funzionamento che per noi non addetti ai lavori hanno la stessa verosimiglianza di una magia. In fondo l’iperspecializzazione tecnica fa ricadere l’umanità in una dimensione di fede cieca nell’idolo tecnicoscientifico, che però limitandosi a funzionare e non rispondendo alla richiesta di senso dell’uomo lascia spazio alla credenza acritica delle superstizioni o nella migliore delle ipotesi delle religioni, che mai come nell’esperienza contemporanea fioriscono (sette radicalismi religiosi ecc.), ridotte esse stesse a prodotti di consumo, offrendo, alla massa di noi consumatori-funzionari dell’apparato tecnico, una visione parziale del mondo. Questo connubio di credenze superstiziose esclude quella meraviglia da cui nascono invece sia la poesia che la filosofia e la stessa scienza che indaga il reale al di là del giogo della potenza tecnica, e con la quale la filosofia, ma anche la poesia contemporanea si confrontano.
La filosofia e la poesia sono dimensioni dell’uomo in cui è possibile – raramente e con molta fatica e dedizione, senza farsi irretire dal facile autocompiacimento e narcisismo – ritrovare lo spazio di un domandare libero e autentico, pur mantenendosi distinte. Il dialogo tra filosofia e poesia non deve esplicitarsi nella produzione di poesie filosofiche o, viceversa, attraverso una filosofia espressa sotto forma poetica, quell’esperienza unitaria di pensiero e poesia che si è manifestata ad esempio con Parmenide ed Empedocle è persa del tutto. “Ma è sempre nei poeti che una filosofia nuova troverà i suoi lettori più seri, più attenti e fecondi. Parimenti, solo certi filosofi saranno capaci di discernere, di portare alla luce e di utilizzare le verità nascoste della poesia”.17
In ultimo, il percorso che io propongo ai miei alunni ha l’ambizione di far comprendere loro non tanto e non solo qualcosa della filosofia e della poesia, ma attraverso la poesia e la filosofia qualcosa di loro stessi, della loro condizione, dell’uomo, un insegnate e la scuola non dovrebbe volere di più e se, in parte, un docente ci riesce, può anche essere soddisfatto di aver dato senso ad un’ora della sua giornata di lavoro, di più, dato lo stato delle cose, è difficile chiedere.
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NOTE
L’immagine ritrae due apparecchiature telegrafiche Mc Elroy 1936 a confronto.
1«Perché è veramente propria del filosofo questa situazione, il provar meraviglia, né altra che questa è l’origine della filosofia» (Platone, Teeteto 155 d). Platone, Dialoghi filosofici,vol. 2, UTET, a cura di G. Cambiano, 1981, p. 244.
2 « Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia [thaumazon] riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. » (Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b, trad. Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1978, pp.77-78).)
3 «Che la “meraviglia”, da cui – secondo il testo aristotelico – nasce la filosofia, non debba essere intesa, come di solito accade, come un semplice stupore intellettuale che passerebbe dai “problemi” (ápora) “più facili” (prócheira) a quelli “più difficili” – cioè che il timbro del passo aristotelico sia “tragico” – riceve luce dalla circostanza che anche per Eschilo l’epistéme(“conoscenza”) libera da una angoscia che sebbene sia da lui considerata “tre volte antica”, è tuttavia la più recente, perché non è quella primitiva, e più debole, dovuta all’incapacità di vivere, dalla quale libera la téchne (“tecnica”, “arte”), ma è l’angoscia estrema, il culmine al quale essa perviene quando il mortale si trova di fronte al thaûma (“meraviglia”, “sgomento”) del divenire del Tutto – al terrore provocato dall’evento annientante che esce dal niente. In questo senso anche per Eschilo l’epistéme non mira ad alcun vantaggio tecnico (982b21), è “libera” (982b27) e ha come fine soltanto sé stessa (982b27), cioè la liberazione vera dal terrore». (Emanuele Severino. Il giogo. Milano, Adelphi, 1989, pag.352).
4 «Zeus, chiunque egli sia, a lui mi rivolgo con questo nome, se gli è caro esser chiamato così. Se il dolore, che getta nella follia, deve esser cacciato dall’animo con verità, allora, soppesando tutte le cose con un sapere che sta e non si lascia smentire, non posso pensare che a Zeus. Uranos, infatti [ildio del cielo], che pur fu in passato potente e traboccante di audacia spavalda, è come se non fosse mai stato. Ed è svanito chi poi venne ad esistere, Cronos [il dio del tempo], che si imbatté in Zeus, il vincitore per sempre. Chi ha la mente protesa verso Zeus e annuncia la sua vittoria, perviene al culmine della sapienza. Guidando il pensiero dei mortali, Zeus ha stabilito che attraverso il dolore il sapere acquisti potenza. Quando, nel sonno, goccia davanti al cuore l’affanno che ricorda il dolore, allora, anche senza la volontà dei mortali, sopraggiunge in essi un sapere che salva. Questo è un dono dei démoni che siedono potenti sul sacro seggio di Zeus». (Emanuele Severino, Traduzione e interpretazione dell’Orestea di Eschilo, Rizzoli Milano 1985, pp. 22-23).
5 (Diels 42 [119]. Ad Omero che aveva detto: «Possa la discordia sparire tra gli dèi e tra gli uomini», Eraclito replica: «Omero non s’accorge che egli prega per la distruzione dell’universo; se la sua preghiera fosse esaudita, tutte le cose perirebbero» (Diels, A 22).
6 Proprio i poeti, infatti, ci dicono che, cogliendo i loro canti da fonti di miele che scorrono da alcuni giardini e vallate selvose delle Muse, ce li portano come api, anch’essi volando. E dicono la verità, perché il poeta è una cosa leggera, alata e sacra e non è in grado di comporre prima di esser diventato ispirato dalla divinità e messo fuori di senno e prima che l’intelletto non sia più in lui. (Platone, Ione, 534 b). Platone, Dialoghi filosofici,vol. 1, UTET, a cura di G. Cambiano, 1970, pp. 135,136.
7 “Leggere Dante è prima di tutto un lavoro interminabile, che a misura dei nostri successi ci allontana dalla meta. Se la prima lettura non dà che un po’ di affanno e una sana spossatezza, per quelle successive munitevi di un paio di indistruttibili scarponi svizzeri ben chiodati. A me, sul serio, vien fatto di domandarmi quante suole di pelle bovina, quanti sandali abbia consumato, l’Alighieri, nel corso della sua attività poetica, battendo i sentieri da capre dell’Italia.
L’Inferno, e ancor di più il Purgatorio, celebrano la camminata umana, la misura e il ritmo dei passi, il piede e la sua forma. Del passo, congiunto alla respirazione e saturo di pensiero, Dante fa un criterio prosodico. Egli designa l’andare e venire ricorrendo a un gran numero di espressioni multiformi e affascinanti.
In Dante, filosofia e poesia sono sempre in cammino, sempre in piedi. Anche la sosta è una varietà di movimento accumulato: la piattaforma per una conversazione viene creata a prezzo di sforzi d’alpinista. Il piede metrico è inspirazione, ed espirazione è il passo. Un passo che deduce, vigila, sillogizza.” (Osip Mandel’štam – Conversazione su Dante, pp. 50-51).
8 E io a lui: “Per fede mi ti lego/di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio/dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.//Prima era scempio, e ora è fatto doppio/ne la sentenza tua, che mi fa certo/qui, e altrove, quello ov’io l’accoppio.//Lo mondo è ben così tutto diserto/d’ogne virtute, come tu mi sone,/e di malizia gravido e coverto;//ma priego che m’addite la cagione,/sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;/ché nel cielo uno, e un qua giù la pone”.//Alto sospir, che duolo strinse in “uhi!”,/mise fuor prima; e poi cominciò: “Frate,/lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.//Voi che vivete ogne cagion recate/pur suso al cielo, pur come se tutto/movesse seco di necessitate.//Se così fosse, in voi fora distrutto/libero arbitrio, e non fora giustizia/per ben letizia, e per male aver lutto.//Lo cielo i vostri movimenti inizia;/non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,/lume v’è dato a bene e a malizia,//e libero voler; che, se fatica/ne le prime battaglie col ciel dura,/poi vince tutto, se ben si notrica.//A maggior forza e a miglior natura/liberi soggiacete; e quella cria/ la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura. Dante alighieri, La divina commedia, Le Monnier, 1988, pp. 277-279.
9 Sono veramente sbalordito e incantato! Ho un precursore e quale precursore! Non conoscevo quasi Spinoza: che adesso abbia desiderato di leggerlo è stato un «atto istintivo». Non solo la tendenza generale della sua filosofia è uguale alla mia – fare della conoscenza l’affetto più potente – io mi ritrovo ancora in cinque punti capitali della sua dottrina; questo pensatore, il più abnorme e solitario che sia esistito, è appunto il più vicino a me in queste cinque cose: egli nega il libero arbitrio; gli scopi; l’ordine morale del mondo; il disinteresse; il male. Se, certo, anche le differenze sono enormi, queste sono da attribuire soprattutto alla differenza dei tempi, della cultura, della scienza. In summa: la mia solitudine – che, come accade in alta montagna, spesso mi toglieva il fiato e mi faceva trasudare sangue dai pori – è ora, per lo meno, una solitudine a due. F. Nietzsche a F. Overbeck, 30 luglio 1881, in Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe (d’ora in poi BFN), hrsg. v. G. Colli u. M. Montinari, III, 1, Briefe von Nietzsche Januar 1880-Dezember 1884, Berlin, De Gruyter, 1981, p. 111.
10 Lettera a F.H. Jacobi del 9 giugno 1785 [trad. it. di V. Verra, in Jacobi. Scritti e testimonianze, a cura di Verra, Loescher, Torino, 1996, p.113].
11 Per quanto opprima la mano del destino,/Per quanto angosci l’inganno umano,/Per quante rughe solchino la fronte,/E pieno di ferite sia il nostro cuore,/E per quanto dure siano le prove,/Tutte le prove che avete subito,/Che importa questo di fronte al respiro,/Al primo incontro con la primavera?//La primavera… Nulla sa di voi,/Di voi, o male, o dolore,/Il suo sguardo risplende immortale,/E non vi è ruga sul suo volto./Obbediente solo alle sue leggi,/Nel tempo convenuto scende anche a voi,/Luminosa, beata, indifferente./Come si conviene agli dei. Fjodor I. Tjutčev, Poesie, a cura di E. Bazzarelli, Bur, 1993, P. 225.
12 “Non si conoscono mai perfettamente le ragioni, né tutte le ragioni di nessuna verità, anzi nessuna verità si conosce mai perfettamente, se non si conoscono perfettamente tutti i rapporti che ha essa verità con le altre. E siccome tutte le verità e tutte le cose esistenti, sono legate fra loro assai più strettamente ed intimamente ed essenzialmente, di quello che creda o possa credere e concepire il comune degli stessi filosofi; così possiamo dire che non si può conoscere perfettamente nessuna verità, per piccola, isolata, particolare che paia, se non si conoscono perfettamente tutti i suoi rapporti con tutte le verità sussistenti. Che è come dire, che nessuna (ancorché menoma, ancorché evidentissima e chiarissima e facilissima) verità, è stata mai né sarà mai perfettamente ed interamente e da ogni parte conosciuta”. G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Garzanti (a cura di G. Pacella) ,pp. 1090-1091.
13«..so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera» G. Leopardi, Dialogo di Tristano e un amico, collana Tutte le opere, Sansoni, 1993, pp. 135. G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Garzanti (a cura di G. Pacella) ,pp. 1341-1342, p. 1619.
14 Quanta invidia ti porto!/Non solo perché d’ affanno/quasi libera vai;/ch’ ogni stento, ogni danno,/ogni estremo/ timor subito scordi;/ ma più perché giammai tedio non provi. vv. 107-112 ( G. Leopardi, Canti, a cura di F. Bandini, Garzanti, 1975, p.211).
Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa sia oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piuolo dell’istante, e perciò né triste né tediato. Il veder ciò fa male all’uomo, poiché al confronto dell’animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello – giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale né tediato né tra i dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l’animale. (F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno delle storia per la vita, Adelphi 1973, trad. di S. Giametta, p. 6).
15 In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari, c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della «storia del mondo»: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell’intelletto umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso esisteva; quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole. Per quell’intelletto, difatti, non esiste una missione ulteriore che conduca al di là della vita umana. (F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in La filosofia nell’epoca tragica di greci, Adelphi 1973, trad. G. Colli, p. 229).
Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi. (Giacomo Leopardi,Operette morali, collana Tutte le opere, Sansoni, 1993, pp. 135).
16 “Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo”. SOFOCLE, “Antigone”, vv. 332/333, in “Tragici greci” a cura di R. Cantarella, Mondadori, Milano, 1977. “Πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀνθρώπου δεινότερον πέλει”. Anche se per rendere la dimensione “più mirabile” (δεινότερον) dell’uomo potremmo seguire la versione filosofica di M. Heidegger, (das Unheimlichste) che nella resa in italiano suona così “Di molte specie è l’inquietante, nulla tuttavia/ di più inquietante (das Unheimlichste des Unheimlichen) dell’uomo s’aderge” . MARTIN HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 1968 (Einführung in die Metaphisyk, Max Nyemaeyer Tübingen, 1966), pp. 154 e ss. Ossia l’uomo (il dasein, l’esserci, nella terminologia heideggeriana) è il luogo in cui l’essenza inquietante del mondo prende parola e chiede il perché.
17 La ricerca della felicità, Michel Houellebecq, trad. di F. Ascari, Bompiani 2008, p.18.
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