Insegnare la letteratura fra lingua e storia, fra discipline e sperimentazioni
Questo intervento è stato scritto in occasione della tavola rotonda di Milano Insegnare la letteratura oggi del 14 marzo 2014.
Lo sguardo di Oz
Il romanzo Una storia di amore e di tenebra di Amos Oz(1), uscito già qualche anno fa. Si racconta una saga memoriale che comprende quattro generazioni di una famiglia di ebrei dell’Europa orientale, emigrati tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, chi oltre Atlantico chi in Palestina. Fra questi il signor Yosef Klausner è un professore di letteratura, un fiero sionista, «nazionalista liberale illuminato stile diciannovesimo secolo» (p. 90), che fa incidere sulla facciata della sua casa a Gerusalemme la scritta “Giudaismo e umanesimo”. Per contro, l’autore, nipote del professore e più giovane di lui di due generazioni, è un uomo alla ricerca di sé, assediato dai risvolti tragici dell’interminabile conflitto medio-orientale. Il romanzo ruota intorno al doppio movimento di ricerca delle radici e di allontanamento dalla tradizione, culminato – questo allontanamento – nella scelta dell’autore-narratore di cambiare in Oz il proprio cognome Klausner. La scrittura si rivela per lui uno strumento formidabile per stabilire la propria verità senza appiattirla sulla parola altrui, ma nemmeno in totale indipendenza da questa. Così la rivelazione del suicidio della madre al termine della sua infanzia getta una luce retrospettiva sulla sua vita personale, senza tuttavia scioglierne le contraddizioni.
D’altra parte, fin dai capitoli iniziali l’autore pone il problema del rapporto tra la parola e la verità, e risponde al lettore voyerista che ad ogni dibattito pubblico gli chiede dei riscontri oggettivi, d’ambiente o autobiografici, sulle vicende narrate: «il cuore della storia […] sta fra lo scritto e il lettore» (p. 44), non fra lo scritto e l’autore. Il lettore, cioè, non deve chiedersi se i fatti sono veri oppure «è così, lo scrittore?», bensì servirvi del racconto per interrogare se stesso, e le sue sue «cose. Quanto alla risposta, [può] serbarla tutta per [sé]» (p. 46).
Per comprendere un romanzo la sostituzione dell’autore con il lettore è sempre inevitabile perché, conclude Oz :
“Chi è nato di donna porta il peso di due genitori sulle spalle. Dentro il grembo.
Per tutta la vita non fa che sostenere loro e la folta schiera di chi è venuto prima:
genitori di genitori, avi e avi di avi: come una scatola cinese sino all’ultima generazione”. (p.46)
Un manuale
Traguardare l’insegnamento della letteratura nella scuola attraverso lo sguardo discosto di Oz ci consente di sorvolare sull’attualità dell’umanesimo e sull’utilità dell’inutile, mettendoci al riparo da un possibile frantendimento circa la natura intrinsecamente storica della letteratura. E ci legittima, al contempo, a riesaminare la cultura umanistica che nella scuola resiste, nonostante le trasformazioni istituzionali ad essa sfavorevoli, assumendo su di noi l’ambivalenza del rapporto autore-lettore, sia in quanto lettori-docenti sia in quanto lettori-studenti.
Il manuale che sta sullo sfondo di questa tavola rotonda mette a sistema, mi pare, le buone pratiche che hanno modificato l’insegnamento della letteratura nella scuola secondaria e, seppur in continuità con il modello canonico della storia letteraria, ipotizza un paradigma per la nostra disciplina almeno parzialmente rinnovato. Riposizionando la letteratura nello specifico delle trasformazioni in atto, tra riformulazione dei curricoli di studio e adozione delle tecnologie multimediali nella didattica d’aula, il nuovo libro assegna alla letteratura una missione difensiva rispetto allo spaesamento che ci minaccia dentro e fuori della scuola e che è accresciuto dalle Indicazioni nazionali ministeriali per i Licei, con la loro evidente tendenza restauratrice.
La letteratura e noi assume come criterio dello studio letterario l’apertura interdisciplinare e interculturale, l’attenzione puntata sulle grandi opere italiane ed europee, l’individuazione di temi interni alle opere in funzione di una storia dell’immaginario occidentale; propone approfondimenti critici on-line e sollecita docenti e studenti a considerare la letteratura un serbatoio di immagini ed esperienze ancora significanti oggi. Il giovane lettore-interprete – che nel corso di tre anni cambia profondamente – è chiamato così ad accostare autori e testi per approssimazioni successive, alla ricerca di un senso della vita anche qui attraverso un doppio movimento di avvicinamento e di distanziamento dei classici rispetto a sé – come per Oz rispetto alla sua tradizione. Un manuale dunque che presuppone una scuola ancora capace di farsi carico del valore della letteratura quale forma di conoscenza irrinunciabile e che prova a rimotivare gli insegnanti di italiano perché continuino a fare da ponte tra un corpus di testi, consacrati dalla tradizione, e i giovani, assediati dalla coazione al vuoto del presente in cui vivono, ignari del peso della Tradizione e degli Ideali (con la lettera maiuscola).
Ma la domanda che oggi non possiamo eludere è se i buoni manuali – certo necessario – siano sufficienti a garantire una qualche unitarietà alla formazione di base e, soprattutto, di quale enciclopedia “disciplinarista” la scuola possa realisticamente farsi carico.
Il quadro normativo, che tenta di recepire le indicazioni di Lisbona, di fatto riduce gli spazi oggettivi per tutti i saperi disciplinari. E questi spazi saranno destinati a contrarsi ulteriormente se dovesse diventare legge l’ipotesi di riduzione dei curricoli di istruzione secondaria a 4 anni (ora in corso di sperimentazione in circa 200 licei su tutto il territorio nazionale).
Già ora l’orientamento imposto per via legislativa è di aggregare le materie affini per assi culturali, chiedendo alle singole discipline di ridefinirsi in rapporto alle altre in funzione di competenze multidisciplinari trasferibili, cioè volte a mobilitare processi psico-cognitivi e relazionali durevoli. Il loro peso, dunque, piuttosto che dall’incontestabile valore culturale specifico, sedimentato nel tempo lungo della storia, dipende dal cosiddetto valore d’uso in funzione di due obiettivi: a. la costruzione di un sapere duttile e riorientabile, fungibile alle richieste di un mercato del lavoro sempre più indeterminato, globalizzato, colonizzato dal multimediale; b. la costruzione di competenze sociali, fra le quali spiccano quelle linguistico-comunicative e quelle digitali. In questo contesto le discipline non sono più un fine bensì un mezzo, da declinare all’interno di un modello socio-costruttivista della conoscenza, che da un lato presuppone dall’altro impone l’uso delle nuove tecnologie.
Nel contesto
Ad essere onesti questa, “rivoluzione copernicana” nella scuola media di secondo grado non consegue soltanto a una irresponsabile resa della formazione alla logica dell’economico e alla tirannia del presente. Essa, al contrario, recepisce – forse troppo supinamente ma inevitabilmente – trasformazioni di contesto complesse. La scuola – lo sappiamo – è sempre più un luogo articolato di esperienze plurali, di intersezioni fra tradizioni geograficamente e culturalmente lontane, fra cultura alta e bassa, fra il mondo dei libri e quello della strada. Essa continua a ospitare sperimentazione, innovazione, accoglienza, ma al contempo non è più un fattore di mobilità individuale verso l’alto(2). Descritta come aperta a tutti, fino a fare “dell’individualizzazione” dei percorsi formativi un nuovo mantra del politicamente corretto, è sempre meno di tutti. Nella scuola inclusiva e presidio di democrazia sancito dalla Costituzione, si ha l’impressione di non riuscire più ad abbattere le resistenze messe in campo soprattutto dalle fasce più deboli, che con la loro apatia mostrano la frattura tra il mondo reale in cui vivono e quello ideale che i docenti rappresentano.
Sul piano epistemologico, poi, non possiamo misconoscere l’ibridazione dei linguaggi e l’esaurimento di una autoreferenzialità specialistica dei saperi disciplinari, conseguenti l’uno e l’altra alla “svolta linguistica” in filosofia, nel passaggio alla “società post-industriale”. Se anche noi, come persone ben prima che come insegnanti, siamo costretti a fare la spola tra conoscenza scientifica ed ermeneutica, tra argomentazione e modalità metaforiche del discorso, per i nostri studenti, che crescono in questa permeabilità, può essere più motivante un insegnamento che si faccia carico di tali ibridazioni e li abitui a riconoscerne le forme e il senso.
Soprattutto se non siamo d’accordo con una società che rifiuti la cultura e i suoi canoni, e al contrario vogliamo conservare il valore che proprio l’urto con la cultura ha nella formazione alla cittadinanza, sono legittimi i dubbi su un paradigma letterario ancora troppo ancorato all’Ottocento-Novecento (ma lo stesso discorso dovrebbe estendersi alle altre materie cosiddette umanistiche). In una scuola che non voglia rinunciare né alla qualità delle conoscenze né a favorire – lo dico con le parole di Angélique Del Rey – il passaggio verso la molteplicità delle dimensioni del qui» (3) , cioè non voglia rinunciare a produrre una cultura del legame fra soggetti, anche quando sradicati o comunque alla ricerca di una propria ragione esistenziale, allora dobbiamo riflettere sul fatto che contano di più incontri approfonditi con pochi autori e/o opere che un elenco quanto più lungo possibile di nomi.
Negli ultimi dieci anni la manualistica ha ridotto il numero degli autori e dei testi antologizzati, ma, in ottemperanza alle disposizioni di legge, ha bilanciato i tagli con le espansioni e gli approfondimenti on line. Di fatto le soluzioni proposte non risultano didatticamente persuasive, perché il problema di fondo non sta in impossibili compressioni dei contenuti e nemmeno nell’indovinare una forma di narrazione efficace. Esso è a monte.
Quando nel 2010 uscirono le Indicazioni nazionali per i licei, a fronte dello sgomento degli insegnanti per il loro elefantismo, autorevoli italianisti lamentarono l’assenza di molti autori. A distanza di tre anni credo sia chiaro a tutti che in quell’enciclopedismo bulimico si nasconde la conferma che alla letteratura non si riconosce un ruolo formativo nemmeno nell’istruzione liceale. In vista della revisione della prima prova dell’Esame di Stato per il prossimo anno scolastico, non mancano le ipotesi di eliminare definitivamente l’analisi del testo letterario, la cosiddetta Tipologia A, in quanto scelta da una minoranza residuale di studenti liceali, e perciò assai poco significativa ai fini della valutazione complessiva delle competenze d’italiano della popolazione scolastica al termine del curricolo. Nell’ultimo libro di Luca Serianni, Leggere, scrivere, argomentare (Laterza, Roma-Bari 2013) si discute seriamente la finalità della prima prova dell’esame conclusivo della scuola media di II grado e su quale forma essa debba assumere. Secondo lo studioso questa dovrebbe verificare le competenze di letto-scrittura e essere del tutto svincolata dagli studi disciplinari effettivamente svolti. Infatti, nelle numerosissime esemplificazioni delle riscritture che si possono richiedere a partire da un testo dato, Serianni non inserisce nemmeno un testo letterario. Dunque la letteratura viene finalmente separata dalle competenze linguistiche; ma le conseguenze sono facilmente prevedibili per il destino del suo insegnamento in una scuola in piena emergenza sia sul versante della comprensione che della produzione dei testi.
Per una riflessione condivisa (e urgente)
L’ADI-sd si sta interrogando su come nell’ultimo triennio della superiore si possa declinare lo studio della letteratura in relazione al fatto che l’educazione letteraria nel primo biennio è praticata soprattutto in funzione della competenza trasverlsale di lettura. Si è lavorato sui grandi autori e sulle grandi opere in circa 130 classi di 45 scuole dei diversi indirizzi di studio, con netta prevalenza dei licei. Il nesso inscindibile fra storicizzazione e attualizzazione; l’approccio interdisciplinare e per percorsi tematici; le manipolazione dei testi, di tipo saggistico, intertestuale o intersemiotico hanno confermato che la competenza letteraria ad usum scolastico è sostanzialmente competenza interpretativa e che essa, in quanto tale, meriterebbe pari dignità delle competenze linguistiche, matematiche, fisiche ecc. Essa, infatti, è competenza trasferibile e sottoponibile a verifiche autentiche, da valutare però, secondo modelli duttili, che non confondano – direbbe Horkheimer – l’esattezza con la verità.
Ma la sperimentazione metodologica d’aula, proposta dal progetto Compìta, ha anche rilevato l’urgenza di una riflessione condivisa che individui i contenuti minimi dello studio letterario in compatibilità con l’orizzonte sociale di una scuola frequentata da ragazzi italiani e non italiani e messa alla prova dai bisogni esplosi di un mondo anche localmente sempre più parcellizzato. In un contesto scolastico in cui le emergenze linguistiche e culturali si sommano a quelle sociali, la scelta degli autori e delle opere da leggere passa in secondo piano rispetto alle modalità di riappropriazione dei testi letti da parte degli studenti: ciò che con gli autori e con le opere gli studenti riescono a fare rende significante il loro incontro con la letteratura sia sul piano conoscitivo, in rapporto all’acquisizione di contenuti disciplinari specifici, sia sul piano esistenziale, in rapporto alla ricerca di una propria identità personale, sia sul piano metacognitivo, in rapporto alle competenze intellettuali, relazionali ed espressive.
La partita si gioca in buona parte sul piano della metodologia, da non intendersi in termini astratti di riflessione sul metodo, bensì come nostra capacità di inventare delle pratiche didattiche più incentrate sull’operatività (4). Ma temo che nella scuola secondaria superiore oggi manchi lo slancio motivazionale dei docenti per sperimentare sul campo la vitalità della letteratura in questa prospettiva. Eppure sono convinta che solo un lavoro paziente e coraggioso, interdisciplinare in senso proprio – dunque concertato nei consigli di classe e calato nella specificità dei contesti situati – ci possa liberare dalla frustrazione di una marginalità sussidiaria sempre più fallimentare.
Se la letteratura si pone alla convergenza fra il dominio della lingua e quello della storia, in classe è nel confronto della letteratura con le altre discipline in rapporto a situazioni di studio concrete che oggi dobbiamo ricercarne un apporto significante. Per ritrovare un senso al nostro ruolo di docenti dobbiamo innanzi tutto accettare di metterci in questione. Vestire di nuovo il vecchio non serve più a nulla e a nessuno, nemmeno nell’ottica della “dissimulazione onesta” a favore di una resistenza militante per l’umanesimo e per la cultura.
Milano, 14.3.2014
________________
NOTE
1) A. Oz. Una storia d’amore e di tenebra (trad. di E. Loewenthal), Feltrinelli, Milano 2003. Le citaz sono tratte dal cap. 5, in partic. alle pp. 44-47.
2)Si legga E. Manera, La crisi della scuola, in Il Ponte, 2013; N. Bottani, Requiem per la scuola, Il Mulino, Bologna 2013 soprattutto le pp. 65 e seg.
3) A. Del Rey, À l’école des competences, La Découverte, Paris 2010, p. 240.
4) J. M. Schaeffer, Petite écologie des études littéraires. Pourquoi et comment étudier la littérature?, éditions Thierry Marchaisse, 2011. L’autore affronta la crisi che colpisce lo studio della letteratura dal liceo all’università, concentrandosi non sulle pratiche della produzione e del consumo letterari, bensì sull’insegnamento della letteratura. Tenendo presente una crisi di civiltà che comprende da un lato le nuove tecnologie della comunicazione e dall’altra l’identità europea, Schaffer è convinto che occorra riposizionare gli studi letterari dentro il quadro più generale delle scienze umane e accettare una pausa filosofica per chiarire le esperienze-chiave di loro pertinenza: la lettura, l’interpretazione, la comprensione e la spiegazione («la lecture, l’interprétation, la description, la compréhension et l’explication»).
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