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diretto da Romano Luperini

 

Pubblichiamo questo saggio in memoria di Cesare Segre. Il saggio è stato pubblicato su Allegoria 29-30, anno X, maggio-dicembre-1998

 Cesare Segre

Ogni tanto, i giornali si riempiono d’interventi appassionati contro qualche critico che ha proposto una specie di classifica degli scrittori: i migliori di un decennio, o di un secolo, o di tutta la nostra letteratura. Sono dibattiti inconcludenti, perché è chiaro che ogni critico ha le sue preferenze, ed è difficile che esse coincidano con quelle di tutti gli altri. Una riprova, se ne occorressero, dell’alto quoziente di soggettività dei giudizi estetici, in particolare se enunciati in forma comparativa. Queste classifiche non sono tuttavia prive di interesse, purché le si intenda correttamente.

Intanto, già la conoscenza delle preferenze di un critico, specie se autorevole, merita attenzione. Ma soprattutto va osservato che queste classifiche acquistano senso quando inserite in una prospettiva temporale. Una classifica consuntiva sintetizza un giudizio sull’attività letteraria che si è svolta in un periodo dato; giudizio che poi può essere motivato analiticamente; e, s’intende, discusso. Una classifica preventiva è una previsione sul peso che avranno dati autori o libri nella coscienza dei lettori a venire; anche questa può essere motivata. Naturalmente, in entrambi i casi la scelta di autori o titoli è condizionata da un’idea della letteratura e dei suoi rapporti con la vita civile e con la cultura; è condizionata dalla poetica cui il critico aderisce, e in generale da fattori ideologici, tra cui anche, eventualmente, il rifiuto delle ideologie.

Ma quando si obietta alla classifica di un critico, lo si fa in base a una diversa soggettività, quella di chi obietta; che non ha più valore della soggettività di chi ha proposto la classifica, fatta salva la maggiore o minore autorevolezza dell’obiettore. Entrambi i contendenti sembrano pretendere un’oggettività che evidentemente è irraggiungibile, a loro e a chiunque altro. Il nostro problema è dunque riassumibile così: esistono classifiche che si possano considerare obiettive?

Facciamo un passo indietro che non è solo terminologico. Recentemente Harold Bloom ha pubblicato un libro intitolato Il canone occidentale, suscitando reazioni molto più ampie e motivate che le solite classifiche giornalistiche. Bloom si autopropone come il misuratore dell’influenza che hanno avuto certe opere letterarie eccezionali sulla cultura dell’occidente. Non voglio entrare nella mischia rimproverandogli, che so?, di aver trascurato il Canzoniere di Petrarca o i Canti di Leopardi.1 M’interessa il ricorso alla parola canone. Il significato da cui credo utile partire è il seguente: ‘elenco dei libri biblici considerati ispirati da Dio’. In questo caso c’è un’autorità religiosa che stabilisce, tra un gruppo di testi, quali siano ispirati da Dio; pertanto, il canone è imperativo. La stessa autorità ha deciso che altri libri non sono ispirati da Dio. Per esempio, il canone cattolico del Vecchio Testamento comprende otto libri in più rispetto al canone ebraico e protestante: Tobia, Giuditta, due dei Maccabei, la Sapienza, l’Ecclesiastico, ecc.

Altre volte il canone è diversamente imperativo. Penso al significato: ‘Insieme di autori o di opere presi come modelli’. In questo caso non c’è un’autorità che individua i modelli, ma è l’istituzione letteraria che, nei suoi vari momenti, se li sceglie; questo canone è, dunque, temporaneamente imperativo, ma soltanto per gli aderenti all’istituzione, e sono gli scrittori stessi che possono provocare, magari in polemica con l’istituzione, un cambiamento di canone, guardando ad altri modelli. Si badi però che il termine, già usato nella cultura alessandrina, aveva un doppio significato: il primo è quello di ‘scelta’, e ad esso mi sono appena riferito. Ma in altri autori dello stesso periodo canone vale ‘catalogo, repertorio’, e comprende tutte le opere della letteratura greca che si erano conservate sino allora. A questo punto abbiamo a disposizione due termini: repertorio, che è la presa d’atto di quanto si è conservato della precedente letteratura, e canone, che invece può indicare sia la funzione paradigmatica sopra segnalata (canone 1), sia l’acquisizione alla cultura nazionale di un certo numero di opere, ritenute dotate di tale funzione (canone 2). Il primo termine è oggettivo, e mutabile solo in seguito a ulteriori perdite e agli inevitabili acquisti, il secondo è anche oggettivo, se si tratta del canone 2, mentre è esortativo o imperativo, e mutabile insieme col gusto, se si tratta del canone 1.

Pare dunque di poter operare più speditamente, anche se occorrono ulteriori precisazioni. Partiamo per esempio dal repertorio. Ho detto che il termine è oggettivo, ma devo aggiungere che lo è solo in rapporto con la definizione di ‘opera letteraria’: per fare un censimento occorre sapere che cosa si censisce. Ebbene, il concetto di opera letteraria muta attraverso il tempo: ci sono epoche in cui esso esclude le composizioni a tradizione orale, altre in cui esclude scritti di carattere scientifico, economico, ecc. Noi oggi tendiamo a escludere dalla letteratura le opere per bambini o ragazzi, tanto che per lungo tempo nessuno, forse nemmeno l’autore, si è sognato di considerare opera letteraria il Pinocchio di Collodi; attualmente ha un posto di riguardo nel canone. Ancora: c’è oggi un certo consenso nel considerare estranea alla letteratura la produzione di consumo, o Trivialliteratur. Si pensi agli enormi cambiamenti che apporterebbe allo studio letterario, e in primo luogo al repertorio dei testi letterari, l’accoglimento della Trivialliteratur, sulla quale già Gramsci aveva richiamato l’attenzione. Solo in un regime dittatoriale si può pensare a un’autorità che decida sui criteri d’inclusione o di esclusione nel repertorio, criteri che coincidono con i vantaggi del regime. Negli altri casi, chi agisce in queste scelte è una specie di communis opinio condivisa dal gusto dominante e dai suoi esponenti autorevoli. Qualcosa che si presenta come quasi impalpabile, ma di cui si può parlare in modo abbastanza netto sulla base degli studi di cultorologia, cui accenneremo più avanti.

È poi comprensibile che entro il repertorio assumano rilievo certi testi, o perché hanno una posizione eminente nella cultura del paese o della lingua cui appartengono (canone 2), o perché vengono additati come paradigmi per la stesura di testi dello stesso tipo (canone 1). Queste due evenienze (posizione eminente nella cultura; funzione paradigmatica) coincidono solo in parte. Mentre infatti la posizione eminente è una sorta di deposito storico, governato dalle leggi storiche, individuabili solo induttivamente, che regolano l’entrata e l’uscita di ogni testo dal canone, la funzione paradigmatica risale a una normativa esplicita ed esplicitata, quella delle poetiche dominanti. La funzione paradigmatica è più mobile, perché governata da mutamenti anche di breve periodo; la posizione eminente nella cultura è più stabile e vale, per la comunità, come se fosse definitiva: certo, se poi un’opera esce dal canone, è difficile che vi rientri.

L’individuazione, periodo per periodo, dei testi paradigmatici è abbastanza facile. Ci sono casi clamorosi, come lo scarso interesse per la Divina commedia nel Sei e Settecento, e, fino a questo secolo, per l’Orlando innamorato, che si leggeva semmai nel rifacimento del Berni; oppure il disprezzo che ha pesato a lungo, anche in Spagna, sull’opera di Góngora, disprezzo sostituito nei primi del Novecento da un’ammirazione sconfinata; si può pensare ancora all’avvenuto accantonamento del Metastasio, modello efficacissimo per i poeti sino a Leopardi, o alla progrediente svalutazione delle poesie del Carducci, già esemplare imprescindibile per le persone colte di fine Ottocento, nonché per Pascoli e D’Annunzio, e forse ancora per Montale. Qualcuno ha proposto di fare una statistica degli autori cui sono intitolate strade in tutto il paese. Si può immaginare che verrebbero fuori quasi tutti gli autori canonici; ma anche autori che hanno avuto una fama effimera, subito consacrata da qualche amministratore entusiasta, o autori di ambito provinciale. Questi due gruppi sarebbero certamente rimossi da una comparazione con le presenze su scala nazionale.

Anche se la posizione eminente dei testi (canone 2) non è decretata da nessuno, abbiamo numerosi segni per misurarla. Il primo è di carattere scolastico: opere che costituiscono «libri di testo» hanno certo una situazione di privilegio nel canone. La longevità di alcuni testi latini, in particolare di Cesare e Virgilio, oppure della Commedia e dei Promessi sposi, è favorita dal loro status di libri di testo. Questo dovrebbe indurre a riflessione chi sovrintende ai piani di studio: egli è in certa misura responsabile del mantenimento di un canone. Molti altri segni pertengono alla teoria della ricezione. Ritengo che uno dei più importanti sia rappresentato dalla consistenza dell’intertestualità. Basta pensare, per Dante, alle decine di espressioni ormai convenzionali che sono state tratte dalla Commedia: stare tra color che son sospesi, perdete ogni speranza o voi ch’entrate, la bocca sollevò dal fiero pasto, amor ch’a nullo amato amar perdona, vituperio de le genti, tu sei lo mio maestro e il mio autore, e così via. Se ognuno di noi indicasse le frasi fatte che conserva in memoria, il censimento sarebbe praticamente steso. L’intertestualità entra in gioco anche nelle imitazioni o citazioni allusive da parte di altri poeti, incluse le parodie. Non si imita un testo di terz’ordine, non si allude a un testo che pochi conoscono, e una parodia non diverte se il suo modello non è famoso. Molto efficace misuratore dell’appartenenza al canone era, in tempi più allenati alla memorizzazione, la presenza di un testo nel novero di quelli che s’imparavano a memoria, specie nella scuola. Un altro segno di appartenenza al canone è il numero delle edizioni e dei commenti, specie di questi ultimi; perché a chiunque può venire in mente di commentare qualsiasi testo, ma è raro che un testo non canonico venga commentato molte volte, anche perché gli editori sanno che l’operazione sarebbe in perdita.

Per definire gli elementi del canone può forse venir utile il concetto di «testo della cultura». Esso è stato messo in circolazione dagli studiosi della scuola di Tartu (Estonia), nel quadro di un ambito di ricerca che hanno definito «culturologia», ossia «studio dei funzionamento e della tipologia della cultura». A questi studiosi ricorriamo ora per approfondire il nostro panorama. Lotman, fondatore della scuola di Tartu, dà questa definizione: «Proprietà obbligatoria di un testo della cultura è la sua universalità: il quadro del mondo è correlato con tutto il mondo e, in linea di principio, ingloba tutto. Domandarsi che cosa ci sia fuori di tale quadro è, dal punto di vista di una data cultura, altrettanto assurdo che porsi lo stesso quesito in rapporto all’intero universo».2 In altri termini, l’opera di alto livello letterario è una monade in cui si rispecchia il mondo; un rispecchiamento che è anche critica o presagio, che è nello stesso tempo descrizione della realtà e intervento sulla realtà. In altre formulazioni il «testo della cultura» viene presentato come «modello del mondo», dove modello è ciò che rappresenta simbolicamente sistemi e rapporti di forze di un oggetto, in questo caso il mondo. Gli studiosi di Tartu dànno a modello il significato appena indicato; ma è poi chiaro che, se un testo riesce a costituire un modello del mondo, avrà anche un valore esemplare, e potrà fungere da modello nel significato comune della parola.

Vale la pena, a questo punto, di vedere che idea abbia la culturologia della cultura che ne è oggetto. Si deve premettere che la cultura viene intesa in un senso soggettivo, cioè come il concetto immanente di cultura operante in un certo paese in un dato periodo. La cultura è sempre in dialettica con ciò che viene considerato esterno ad essa, cioè non-cultura: aree in continuo movimento. Le due definizioni limite proposte sono le seguenti: la cultura è un «serbatoio d’informazione» delle collettività umane, risultato della tesaurizzazione di testi e conoscenze ritenuti fondamentali da parte della memoria collettiva; oppure: la cultura è «un meccanismo che crea un insieme di testi», che cioè, lavorando sui materiali del serbatoio prima individuati, crea nuovi testi e nuove conoscenze. I due aspetti della cultura si riferiscono a momenti diversi di una medesima attività, come risulta dalle seguenti affermazioni:

La cultura può essere considerata come una gerarchia di sistemi particolari, come una somma di testi cui è collegato un insieme di funzioni, ovvero come un congegno che genera questi testi. Considerando una collettività come un individuo costruito in modo più complesso, la cultura può essere interpretata, in analogia con il meccanismo individuale della memoria, come un congegno collettivo per conservare ed elaborare informazione. La struttura semiotica della cultura e la struttura semiotica della memoria rappresentano fenomeni funzionalmente omogenei, situati a livelli diversi. Questa tesi non è in contraddizione con il dinamismo della cultura: dato che essa rappresenta in linea di principio una fissazione di esperienza passata, essa può svolgere anche la funzione di programma e di istruzione per costruire nuovi testi.3

Da questo brano si possono derivare molte considerazioni. Anzitutto è fondamentale l’omologia tra il comportamento dell’individuo e quello della comunità riguardo alla cultura: ciò permette di analizzare qualcosa di sfuggente come la cultura partendo dalla propria esperienza personale. Poi è importante la funzione fondamentale della memoria nel costituire la cultura. Senza memoria storica, senza memoria dei testi, senza memoria verbale non si potrebbe dare cultura. Per contro, i procedimenti della memoria sintetizzano bene quella parte della cultura che è deposito di conoscenze letterarie o no; una parte fondamentale, anche se in certa misura passiva. È solo fondandosi su questo deposito memoriale che poi l’individuo o la comunità può elaborare, mettendo in azione i propri meccanismi, nuova cultura. Conservare ed elaborare, appunto. Ne deriva un programma di comportamento orientato in due direzioni: verso il passato, quando si considera l’assieme della cultura tràdita; verso il futuro, quando si considera la produzione della cultura.4

Va precisato che quando gli studiosi di Tartu parlano di testi, non alludono soltanto a quelli letterari, ma a «qualsiasi veicolo di un significato globale («testuale»), sia esso un rito, un’opera d’arte figurativa, oppure una composizione musicale».5 E infatti la cultura non è certo soltanto cultura letteraria. Credo però mi sia lecito svolgere il mio discorso limitatamente ai testi letterari, dato che 1) la letteratura ha certo un posto importante nella cultura, anche se non si identifica con essa; 2) il funzionamento della cultura nei riguardi dei testi letterari è analogo a quello relativo agli altri testi.

Le due operazioni (conservazione dei testi; elaborazione di nuovi testi) si presentano in continuo movimento. Da un lato la cultura, col passare del tempo, esclude, o alla fine espelle, certi testi, cioè in prima istanza li pone su un livello di prestigio inferiore, in seconda istanza li cancella effettivamente, abbandonando o distruggendo gli esemplari esistenti. Si tratta di un modo fisiologico di aprire spazio ai nuovi testi elaborati. Questi nuovi testi a loro volta arricchiscono i depositi della cultura, la quale con questi due movimenti complementari si tiene sempre aggiornata al gusto dominante. Così Lotman e Uspenskij, anche senza usare il termine, che è loro estraneo, hanno sintetizzato benissimo il modo in cui il repertorio continua a mutare attraverso il tempo.

Ma questa descrizione funzionale va benissimo anche per il canone 2, il canone delle opere considerate paradigmatiche. Lotman e Uspenskij dicono infatti che «ogni nuovo movimento artistico revoca l’autorità dei testi sui quali si orientavano le epoche precedenti, trasferendoli nella categoria dei non-testi, dei testi di livello diverso».6 In pratica sono le poetiche, o meglio ancora i gusti prevalenti, a decidere sull’appartenenza di un testo al gruppo di quelli considerati esemplari. E non mancano osservazioni utili per la definizione del canone 1, quello delle opere chiave di una cultura. Basta soffermarsi sul concetto di «longevità», collegato con la gerarchia dei valori in questo senso: «i testi che possono venir considerati più validi sono quelli di massima longevità, dal punto di vista e secondo i criteri di una data cultura, oppure quelli pancronici».7

Soffermiamoci un momento su questi testi di massima longevità e su quelli pancronici. Dobbiamo domandarci com’è possibile che un testo sopravviva attraverso i secoli nel canone, o sia addirittura pancronico, nel senso che il suo apprezzamento è indipendente da connessioni di tempo e di luogo. La risposta non è difficile. La longevità è segno che i valori trasmessi da questo testo non sono legati a particolari situazioni o concezioni, sono valori, come si dice banalmente, «universali». I processi di mantenimento del testo nel canone, in questo caso, sono i seguenti. Prima il testo viene accolto dalla cultura perché contiene un «modello del mondo» appropriato ad essa cultura, o tale da riuscirle gradito. Poi il testo mantiene la sua posizione, nonostante queste corrispondenze si siano attenuate, perché esso costituisce un modello del mondo che va al di là delle situazioni contingenti, che racchiude aspirazioni o ideali umani di validità sino ad oggi non scalfita. Si possono insomma ipotizzare tipi di modellizzazione del mondo tali da trascendere aspetti transitorii del mondo stesso e da enfatizzare elementi relativi alla nostra umanità e perciò validi al di là del tempo. Naturalmente anche questa validità potrebbe essere compromessa in avvenire, dato che ignoriamo come sarà l’uomo in futuro. È anche stata avanzata una definizione ermeneutica di questi testi longevi, se non eterni. La longevità dipenderebbe, secondo Kermode, che parla di «onnisignificazione», dall’attitudine di un testo ad essere interpretato nel quadro di una pluralità storica di letture, insomma dalla sua plasticità semantica.8

La letteratura di una data epoca può anche essere descritta come un assieme di testi che costituiscono un sistema, nel senso che sono tutti inseriti in una rete di rapporti a prescindere dai quali i singoli testi non sono ben comprensibili. Anche il canone è condizionato dal sistema, nel senso che l’accoglimento o l’esclusione di un testo possono essere influenzati da caratteristiche colleganti il testo con altri in qualche modo connessi. L’esempio più visibile del sistema letterario ce lo fornisce forse l’assieme dei generi. Tra i generi sussistono differenze gerarchiche relative alle opposizioni culto-popolare, lirico-narrativo, metrico-prosastico, dialogico-non dialogico, ecc. Ogni epoca ha di solito un genere che si può considerare dominante: si tratta di quello in cui essa pensa di rispecchiarsi in modo più immediato. È indubbio, per esempio, che nel Novecento il genere dominante è il romanzo, anche se in qualche periodo e in certi paesi (mettiamo l’Italia fra le due guerre) ha avuto un momentaneo predominio la lirica.

I movimenti del sistema letterario, come li ha descritti con particolare efficacia Jurii Tynjanov,9 possono forse servire ad esemplificare i movimenti interni della cultura. Secondo Tynjanov gli elementi formali presenti con maggiore o minore evidenza nei vari generi, sono soggetti a spostamenti continui. Tratti secondari, o persino deviazioni, possono affermarsi a spese di altri considerati fondamentali, producendo contraccolpi nella costituzione dei generi. A loro volta tra i generi conquista alternativamente il primato un genere o un altro (mettiamo la lirica, oppure il romanzo, oppure il dramma): in questo modo il sistema dei generi può spostarsi, conferendo o sottraendo prestigio a un certo genere, o subordinando l’uno all’altro. È evidentemente più facile che in un dato momento entri nel canone un testo appartenente a un genere allora dominante.

A proposito dei rapporti fra il sistema culturale e quello letterario sarà utile qualche riflessione aggiuntiva. Anzitutto, va precisato, con Slawinski,10 che l’opera inserita nel deposito memoriale di una comunità non è solo immersa nella relativa lingua, come già sottolineato da Lotman e dalla sua scuola, ma è connessa con la lingua tramite gli elementi retorico-stilistici della tradizione cui appartiene; questi elementi operano sotto il controllo nella «norma letteraria» vigente. Una osservazione altrettanto importante concerne la diversa antichità dei testi costituenti il canone. Essi vivono accostati, sincronicamente, nella cultura, ma portano in sé le tracce tematiche e formali della loro diversa età. Ne deriva una contemporaneità entro la cultura che significa anche coesistenza di elementi retorico-stilistici nel suo repertorio. Questo fornisce, al momento della produzione di testi, una varietà diatopica, che arricchisce il novero delle alternative offerte allo scrittore. Si tratta di una stratificazione, entro la quale i singoli strati possono alternativamente acquisire una maggiore o minore considerazione.

Si noterà che, partendo da qualcosa di frivolo e giornalistico come le classifiche delle opere più importanti, o simili, siamo giunti a un problema assolutamente serio come quello del canone. Ormai sappiamo, almeno nelle grandi linee, come viene elaborato il repertorio delle opere letterarie di un paese, e come il canone, sia nel tipo 1, sia nel tipo 2. Il problema del canone è forse ancora più serio di quanto generalmente si pensi. Lo mostrerò velocemente sviluppando un altro concetto basilare della Scuola di Tartu.

Si legge nelle famose Tesi di Ivanov e altri:

Il meccanismo fondamentale che conferisce unità ai diversi livelli e sottosistemi della cultura è rappresentato dal modello che la cultura ha di se stessa.11

Questo modello viene chiamato dagli stessi autori automodello, e gli esempi forniti sono le cosiddette «autocaratterizzazioni», cioè testi che regolamentano in qualche misura l’attività letteraria di un periodo: per esempio l’Art poétique di Boileau nel «Grand Siècle» francese. L’automodello opera come un polarizzatore delle tendenze implicite nel sistema letterario, facendo sì che esse s’indirizzino a un certo esito: è dunque un potente fattore soggettivo dello sviluppo della cultura. Io credo che l’automodello di una cultura si definisca, meglio che ricorrendo alle autocaratterizzazioni, come suggerito da Ivanov e compagni, mediante un’analisi del canone. L’assieme dei testi letterari considerati fondamentali da una cultura offre infatti gli elementi base che qualificano tale cultura. In più, il canone è un sistema, un tutto organico, ed è perciò in grado di coprire l’intera gamma di realizzazioni intraprese dalla cultura che caratterizza. Il fatto che la letteratura sia in continuo movimento non smentisce l’autorità del canone, al contrario. Nel canone, come s’è visto, si verificano progressive svalutazioni e progressivi incrementi di valutazione, o inserzioni di nuovi valori. Questi movimenti ci mostrano l’automodello della cultura nel suo stesso sviluppo.

Se ora noi compariamo i canoni di periodi letterari nella loro successione, possiamo caratterizzare questi periodi meglio che con qualunque altro procedimento descrittivo. Quello che per la cultura è un automodello diventa, entro lo sviluppo diacronico, un modello tipologico, con grandi vantaggi per la storiografia. Le future storie letterarie potranno muoversi con agilità tra un canone e l’altro, illustrando i cambiamenti di canone come mutazioni della cultura.

* Relazione presentata al Convegno internazionale “Lingua e Letteratura italiana: istituzioni e insegnamento”, organizzato dall’Accademia Nazionale dei Lincei e dell’AISSU. Di prossima pubblicazione nei relativi Atti.

1. Per il dibattito americano sul canone si possono vedere C. Altieri, «An Idea and Ideal of a Literary Canon», in Critical Inquiry, 10, 1983, pp. 37-60; B. Herrnstein Smith, «Contingencies of Value», in Critical Inquiry, 10, 1983, pp. 1-35; H. Adams, «Canons: Literary Criteria Power Criteria», in Critical Inquiry, 14, 1988, pp. 748-764; R. Sheffy, «The Concept of Canonicity in Polysystem Theory», in Poetics Today, 11, 1990, n. 3, pp. 511-22. Di questi e di altri contributi offre un panorama critico originale J.M. Pozuelo Yvancos, El canon en la teoría literaria contemporanea, in Eutopias 2a época, vol. 108, 1995, interessante anche per i richiami ai formalisti e neoformalisti russi, cui mi associo in questa relazione.

2. Ju. M. Lotman, Il metalinguaggio delle descrizioni tipologiche della cultura, in Ju. M. Lotman e B. Uspenskij, Tipologia della cultura, a cura di M. Faccani e M. Marzaduri, Bompiani, Milano 1975, pp. 145-81; a p. 150.

3. V.V. Ivanov e altri, Tesi per un’analisi semiotica delle culture (in applicazione ai testi slavi), in C. Prevignano (a cura di), La semiotica nei Paesi slavi. Programmi, problemi, analisi, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 194-220; a p. 209.

4. Ju. M. Lotman e B. Uspenskij, Il meccanismo semiotico della cultura, in Lotman e Uspenskij, Tipologia della cultura, cit., pp. 37-68; a p. 44.

5. V. V. Ivanov e altri, Tesi …, cit., p. 199.

6. Op. cit., p. 47.

7. Op. cit., p. 46.

8. Cfr. F. Kermode, Forme di attenzione, Il Mulino, Bologna 1991.

9. Ju. N. Tynjanov, Avanguardia e tradizione (1929), Dedalo, Bari 1968, pp. 45-60.

10. J. Slawinski, Sincronia e diacronia nel processo storico-letterario, in C. Prevignano (a cura di), La semiotica nei Paesi slavi, cit., pp. 593-605.

11. V.V. Ivanov e altri, Tesi …, cit., p. 219.

 

 

 

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