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Raccontare il 1968. Giulio Ferroni su “L’uso della vita” /4

Come raccontare il Sessantotto? E come raccontarlo non in un’ottica solo storiografica né in una diretta prospettiva politica, evitando amplificazioni eroiche, scatti apologetici, recriminazioni, revisioni critiche, svolgimenti polemici, ecc.? E come raccontarlo quando lo si è vissuto, si è stati dentro la sua onda, il suo respiro vitale, partecipando alle lotte, ai movimenti, alle speranze, alle illusioni di allora? Non si corre il rischio, se vi si è stati dentro in modo partecipe, di rivestirlo oggi, a quasi cinquant’anni di distanza, di un alone nostalgico, dei rimpianti della giovinezza perduta, dell’inevitabile disillusione, nell’eterna parabola discendente dell’esistenze individuali, nel lamento sul destino delle rivoluzioni tradite e sconfitte? Insomma ancora e sempre il richiamo e l’esito delle Illusions perdues o dell’Éducation sentimentale? Romano Luperini nel suo L’uso della vita. 1968, Transeuropa, 2013, pp.142, €. 12,90, racconta gli eventi del 1968 a Pisa, fino all’episodio della contestazione alla Bussola di Focette del capodanno 1969, senza indulgere a nessuna delle proiezioni di cui si è detto: pur avendovi direttamente partecipato, segue qui gli eventi con un linguaggio narrativo concentrato e oggettivo, che evita ogni sbavatura sentimentale, ogni amplificazione retorica, ogni esplicito confronto con il punto di vista del dopo, ogni diretto richiamo storico-politico o esistenziale alla situazione attuale. In una narrazione in terza persona i dati storici e le persone reali si intrecciano con le immaginarie vicende private (in cui certo non mancano tracce autobiografiche) di un giovane laureato, Marcello Questi è figlio di un professore di scuola iscritto al PCI, che è stato partigiano in Jugoslavia e guarda con una certa ostilità la partecipazione del figlio al movimento. Il racconto inizia significativamente con la scena del “processo” con cui Marcello viene espulso dal PCI, per il suo dissenso con la politica culturale del partito. Così viene subito messa in luce la frattura tra i giovani del Sessantotto e i “padri”, legati a una sinistra uscita dalla guerra e impegnata nelle difficili lotte del dopoguerra: ma già in queste prime pagine i movimenti di Marcello mostrano lo stretto rapporto tra tensione rivoluzionaria, aspirazione ad un nuovo orizzonte vitale e a nuove aperture intellettuali, ricerca di se stesso, di un senso pieno dell’esistenza, di un libero “uso della vita” (dove rilievo essenziale ha anche il rapporto con il mondo femminile, segnato da tante difficoltà e ed esitazioni, quelle che effettivamente ancora pesavano sulle generazioni cresciute negli anni sessanta). Marcello partecipa agli eventi che agitano l’università e la città di Pisa in quell’anno fatidico, tra le occupazioni, le assemblee, le manifestazioni, gli scioperi, le lotte sindacali insieme agli operai, mentre all’interno del movimento si delineano diverse posizioni e scelte politiche: intanto insegna come supplente in una scuola, visita ogni tanto la famiglia a Pontedera, avverte il problematico legame e insieme la distanza dal padre (ma solo di fronte alla sua morte avvertirà la sotterranea, profonda solidarietà con lui), ha un difficile rapporto con una compagna pisana e alcuni incontri con una compagna che viene da Roma (ma con senso di estraneità mai completamente superato).

Tutto è narrato e guardato dal punto di vista di Marcello: ma la sua soggettività sembra di per sé disporsi in una prospettiva oggettiva, che è quella stessa dell’autore. Eventi pubblici e occasioni della vita privata sembrano escludere ogni identificazione totale del protagonista, dotato di una disposizione a vedere e a interrogare, che non lo immerge mai completamente nelle cose, anche quando vi partecipa con adesione e passione (tra l’altro per un certo periodo finisce anche in carcere, catturato durante una manifestazione alla stazione di Pisa). Con oggettivo distacco si evocano le figure stesse dei giovani leader che si muovono sulla scena pisana, figure della realtà che si presentano con i loro nomi e le loro azioni reali: da Adriano Sofri, a Massimo D’Alema, a Luciano Della Mea, ad altri indicati senza cognome ma ben identificabili. Nei tratti di questi personaggi reali risulta in piena evidenza quello che è il carattere determinante di questo libro, cioè il disporsi di uno sguardo che è insieme partecipe, tutto dentro gli eventi, e nello stesso tempo si pone “da dopo”, come in un cannocchiale che lascia trasparire su di essi, sui loro stessi movimenti, l’effetto del tempo poi divenuto (il che non significa che ci siano espliciti rinvii alla situazione di oggi). Contrariamente a quanto sostenuto da Angelo Guglielmi (in una recensione su “l’Unità” del 12 febbraio scorso), ciò ha ben poco a che fare con la forma del romanzo storico: questo di Luperini è piuttosto un romanzo di formazione, di riconoscimento del mondo, che si svolge nei termini di quella che potremmo definire identificazione oggettiva della soggettività. Da questa scaturisce la singolare evidenza degli eventi, che sembrano suscitati dalla sostanza stessa delle cose, dall’aria mobile del tempo: Marcello si muove tra protagonisti e comprimari come avvertendo il continuo balenare di impensate possibilità di liberazione, che in quell’anno in fondo così breve sembrano voler alleggerire la vita, portarla fuori dalle durezze, dai vincoli, dalle oppressioni, dalle ingiustizie che la costituivano e la costituiscono. Non è un caso che tra i personaggi reali si affaccia anche qualcuno che giovane non era, ma che guardò con attenzione insieme partecipe e distaccata a quegli eventi e a quelle lotte, Franco Fortini, l’intellettuale più amato tra quelli delle precedenti generazioni, che qui viene a Pisa ed è in contatto con Marcello. A lui viene affidato il significato di tutta la vicenda, la domanda sul senso di quell’“uso della via” rivelato dallo scorrere di quell’anno cruciale. Proprio una citazione di Fortini, posta anche in epigrafe, sembra suggerire una definizione di quel significato, di che cosa si stato e sia ancora il Sessantotto, in questo sguardo di Luperini e del suo personaggio: “L’uso formale della vita, che è il fine e la fine del comunismo”. Col sospetto che il solo comunismo davvero realizzato sia stato allora questo di tante esistenze comuni, di tanti come Marcello, trovatosi “a mezza strada, come spinto e strattonato dagli eventi, alla ricerca di un cambiamento che a tratti aveva intravisto e di un’intensità che di tanto in tanto, seppure per pochi istanti, era riuscito davvero a vivere”.

NOTA

Questa recensione di Giulio Ferroni è uscita sul Manifesto del 17 febbraio 2013.

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