Italianisti fuori dall’Italia. Inchiesta su una disciplina vista “da fuori”/6
A cura di Valentino Baldi
L’inchiesta sull’italianistica questa settimana presenta Francesco Schiavon.
Schiavon si è laureato a Padova in Letteratura e Filologia Medievale e Moderna e nel 2014 ha conseguito un PhD presso la Royal Holloway University of London. Si è occupato di letteratura contemporanea, giornalismo e insegnamento dell’Italiano come lingua straniera. Rientrato in Italia nel 2013, da allora insegna Lingua, Letteratura Italiana e Storia nella scuola secondaria.
La scheda di presentazione dell’inchiesta si può ritrovare QUI. Le precedenti risposte si possono trovare qui (Alessio Baldini, Maria Anna Mariani) , qui (Eloisa Morra, Alessandro Metlica), qui (Maddalena Graziano, Cristina Savettieri), qui (Novella di Nunzio) e qui (Alberto Godioli)
Perché sei andato all’estero?
Sono partito dopo la laurea specialistica senza sapere che avrei affrontato il dottorato. Non avevo avuto l’opportunità di fare l’Erasmus e, nato, cresciuto e laureatomi a Padova, sentivo la pressante esigenza di andarmene e fare innanzi tutto un’esperienza di vita. Ho lavorato per sei mesi come barista in un ristorante, mentre la mattina frequentavo una scuola di lingua per migliorare il mio inglese. Mentre ero a Londra, ho iniziato a curiosare fra i siti internet delle università britanniche e, dopo una breve corrispondenza con il Prof. Guido Baldassarri dell’Università di Padova, con cui mi ero laureato, seguendo il suo consiglio, ho inviato un proposal a Jane Everson di Royal Holloway.
Rientrato in Italia per l’estate, mentre lavoravo a Milano come insegnante di Italiano per stranieri, ho ricevuto la notizia che avevo vinto una borsa di studio per coprire le spese del PhD e che Fabrizio De Donno sarebbe stato il mio supervisor. Così a settembre sono ripartito, col sogno di avviarmi alla carriera accademica e di non tornare.
Credo che il mio desiderio derivasse soprattutto dalla voglia di affrontare lo studio della letteratura da una prospettiva nuova, diversa dall’approccio fortemente filologico a cui ero stato abituato negli anni patavini. Ho avuto la fortuna di seguire le lezioni di grandi maestri come Pier Vincenzo Mengaldo, ma avevo voglia di confrontarmi con una critica che andasse al di là del forte approccio formalistico e basato soprattutto sul close reading che avevo conosciuto in Italia. E infatti il primo anno è stato durissimo, perché, se posso usare una battuta, ho scoperto che c’era vita oltre lo Strutturalismo.
Qual è il rapporto fra didattica e ricerca nel tuo ateneo?
Non è il mio ateneo, perché non lavoro a Royal Holloway e non posso rispondere a questa domanda, anche se mi sarebbe piaciuto poterlo fare. Da un lato è il rimpianto più grande che ho della mia esperienza di dottorando, dall’altro quello che mi ha fatto capire che il mio posto era nella scuola.
La mia borsa di studio non prevedeva che io insegnassi durante il PhD, quindi, a differenza di quasi tutti i colleghi che ho incontrato durante il dottorato e poi al mio rientro in Italia, non ho avuto l’opportunità di tenere lezioni all’università, nemmeno come language assistant. Ho dedicato tutte le mie forze alla ricerca, passando, con routine quasi militare, otto ore al giorno alla British Library, cinque giorni a settimana, per quasi quattro anni. Il risultato è stato che ho scritto una buona tesi, rendendomi però conto che lo stare in classe, esperienza che avevo vissuto a Milano come insegnante di lingua, mi mancava immensamente. Ho capito che non avrei mai potuto sacrificare tempo alla preparazione delle lezioni, alla correzione degli elaborati dei miei studenti, al confronto con i colleghi sulla didattica, per fare ricerca. L’avrei fatto per dovere, o per prestigio, per poter restare nel mondo accademico.
La mia esperienza, che certo è limitata, non generalizzabile e forse anche poco attendibile, è stata che la didattica e il lavoro in classe sarebbero stati sempre secondari se avessi deciso di continuare a lavorare all’università. Quando è scaduta la borsa di studio sono rientrato in Italia, perché le spese stavano diventando insostenibili e, prima ancora di finire la tesi, sono corso a cercare un lavoro nella scuola, per tornare in classe. Quando l’ho trovato, da quella classe non sono più uscito. A Royal Holloway però ho conosciuto italianisti bravissimi, perfettamente in grado di equilibrare il lavoro in aula con la propria ricerca e amati dai propri studenti. Penso a Fabrizio De Donno, a Stefano Jossa, alla stessa Jane Everson.
Hai partecipato a progetti di ricerca finanziati con risorse pubbliche/private? In generale, come si modifica la tua ricerca in relazione ai concorsi che hai affrontato e al tuo ruolo di docente?
Credo, anche qui, di non poter dare risposte interessanti. Non ho partecipato ad alcun progetto di ricerca, se non a quello che riguardava la mia tesi di dottorato. Ho affrontato la selezione per ottenere la borsa di studio che mi ha permesso di sostenere le spese del PhD, ma si è trattato di preparare il proposal in autonomia, quindi non ha modificato la mia ricerca, l’ha piuttosto avviata. Ed è stata tutta l’esperienza del PhD in Inghilterra a influire sul mio essere docente, non un aspetto in particolare. Mi ha dato consapevolezza, mi ha aiutato a imparare a pianificare lo studio e il lavoro, mi ha insegnato a padroneggiare una lingua straniera, a essere umile e a ridiscutere tutto quello che avevo imparato negli anni universitari in Italia. Tutto questo entra e modifica ogni giorno il mio ruolo di docente: mi aiuta ad adattare il mio approccio alla personalità, alle esigenze educative e didattiche dei miei allievi, a gestire i rapporti con le loro famiglie, a mediare in situazioni di conflitto e, non da ultimo, mi spinge a studiare per essere un docente aggiornato e preparato, mi costringe a rimettermi sempre in discussione.
Culturalmente parlando, l’essere italianista all’estero quali vantaggi e quali svantaggi ti ha dato?
Mi ha dato il vantaggio di guardare alla mia disciplina da una prospettiva diversa: conoscere colleghi con background e origini fra le più disparate mi ha permesso di capire che ci può essere grande professionalità, pur mantenendo un tono e un ambiente meno formali e rigidi di quelli che avevo conosciuto in Italia. Ci ho messo settimane ad abituarmi a dare del “tu” al mio relatore. Può sembrare un aspetto secondario, invece un approccio meno formale può avere ricadute molto positive sulla ricerca, soprattutto nei periodi più difficili, quando si fatica a capire l’obiettivo del proprio lavoro, la direzione da prendere o il senso di quello che si sta facendo.
A questi vanno aggiunti tutti i vantaggi che un’esperienza di vita all’estero porta con sé, in primis sperimentare la condizione di migranti, che permette di leggere con molto più equilibrio e consapevolezza la condizione dell’espatrio. Il focus intellettuale si sposta e ci si abitua ad uno studio meno italiano-centrico, fondato più sul dialogo fra tradizioni e culture differenti.
Svantaggi non ne vedo, se non quello linguistico, che però può essere colmato con il lavoro e trasformarsi in risorsa. Certo, come sappiamo bene, se l’obiettivo è poi rientrare nel mondo accademico italiano, l’essere stati italianisti all’estero può rivelarsi un grande svantaggio, dal momento che allontanarsi e scoprire cosa c’è al di là dei nostri confini, quasi sempre impedisce di coltivare quotidianamente i contatti necessari in Italia per farsi spazio.
Con quali strumenti segui il dibattito critico e culturale in Italia? I tuoi riferimenti sono cambiati nel corso di questi anni?
Cerco di usare tutti gli strumenti possibili a disposizione, dalle riviste ai quotidiani, passando per i social e i blog. Il tempo non è mai abbastanza e spesso ho la sensazione di “avvertire” il dibattito più che seguirlo. Certo non sono aggiornato come ai tempi del dottorato, anche perché nel frattempo il mio orizzonte di interesse si è allargato al dibattito sulla didattica della Letteratura e della Storia nella scuola di secondo grado. In questo senso trovo sempre molto puntuali e interessanti gli interventi di Claudio Giunta, in particolare mi viene in mente un suo recente articolo sul manuale di Letteratura per il triennio che ha curato e pubblicato per De Agostini. Posso dire che i miei riferimenti sono quindi in parte cambiati: noto a volte una grande distanza fra la percezione della scuola che arriva dal mondo accademico e la realtà. A volte quando leggo alcuni dei suggerimenti che arrivano dagli accademici su quello che dovremmo fare con i ragazzi dei tecnici o dei professionali mi viene da sorridere. In questo il manuale di Giunta e il contenuto dei suoi interventi su Internazionale sono una piacevolissima eccezione. Penso che, quasi fisiologicamente, io oggi tenda a sentire come più vicini e quindi più interessanti i contributi dei colleghi che lavorano nella scuola, anche se alcuni risultati forniti dalla ricerca accademica spesso offrono il destro per bellissimi approfondimenti da proporre ai ragazzi (oltre ad essere chiaramente fondamentali per tenersi aggiornati). In questi giorni ad esempio sto lavorando con una seconda Istituto Tecnico sui rapporti fra letteratura e giornalismo e per farlo abbiamo usato riferimenti al lavoro di Clotilde Bertoni e Doug Underwood. Da questo punto di vista però l’esperienza all’estero non credo abbia spostato o determinato molto o comunque non più di quanto sarebbe accaduto se avessi svolto il dottorato in Italia.
Come migrante, esiste secondo te un rapporto fra la tua situazione e quella dei migranti che giungono in Europa dal Sud o dall’est del mondo?
No, io sono andato all’estero per scelta e ho avuto la fortuna di avere i mezzi per farlo. Fare qualunque tipo di paragone fra chi lascia il proprio paese perché costretto da guerre e persecuzioni e chi lo lascia per scelta, per affrontare un percorso di studi come quello che ho affrontato io, è secondo me risibile, vista la differenza di opportunità e mezzi a disposizione.
Ciò che posso dire però è che vivere in un paese straniero, dovendo trovare lavoro e imparare la lingua, mi ha insegnato quanto assurde siano la gelosia dei propri confini e la paura del diverso, come se conoscere nuove culture e religioni e condividere con esse il proprio spazio significasse rinunciare alle proprie radici. Forse ho dei limiti io, ma mi sembra che fra le due cose non ci sia proprio connessione logica: come può un arricchimento in termini di conoscenze ed esperienze essere una minaccia? La questione è certo enorme, ma studiare e lavorare all’estero è indubbio che favorisca la percezione di essere cittadini di un territorio più vasto dei confini del proprio paese, spesso contribuisce a percepirli proprio come un fastidio questi confini.
Come vivi il dibattito sulla crisi dell’Europa e sulla possibile fine degli accordi Schengen?
Con immenso fastidio. Non saprei che altro termine usare. Trovo davvero paradossale che si parli ancora oggi di chiusura dei confini e di restringere la libertà di movimento. Mi sembra anche si tratti di una politica fallimentare nei presupposti rispetto alla minaccia terroristica, che mi pare l’argomento più citato da chi vorrebbe tornare ad un’Europa pre-Schengen. Ormai lo sappiamo bene che i terroristi che agiscono in Europa sono quasi sempre cittadini europei, immigrati di seconda o terza generazione. Non capisco a cosa servirebbe chiudere i confini, senza contare il fatto che si tratta di politiche che contraddicono proprio la lettera delle indicazioni che arrivano dall’Europa in termini di educazione delle nuove generazioni. Europa 2020, Strategia di Lisbona, Quadro Comune delle Lingue Europee, Common European Qualifications Framework: cosa facciamo? Buttiamo via tutto? Perché chiudere Schengen significa buttare via tutto o ammettere di aver scherzato per 20 anni.
In quale senso la condizione dell’espatrio può essere umanamente, socialmente e culturalmente produttiva oppure improduttiva?
Credo possa essere improduttiva solo se non ci si riesce in alcun modo ad ambientare e inserire nel nuovo contesto, se il disagio derivato dalla lontananza del paese d’origine è tale da creare una sorta di “blocco” nel migrante. Da qualunque altro punto di vista, anche quando ha risvolti emotivi negativi, quando c’è straniamento e sensazione di sradicamento, non credo che parlerei di “improduttività”. Il nuovo, l’incontro, la condivisione e l’esperienza, anche quando sono negativi, non sono improduttivi, rappresentano sempre un momento di crescita e questo vale dall’accademico al bambino delle elementari. Se posso, consiglio la lettura dell’ultimo, bellissimo libro di Benedetta Tobagi, “La scuola salvata dai bambini”. La delicatezza con cui racconta le esperienze di alunni e docenti delle scuole primarie con un alto tasso di alunni stranieri è emblematico di come l’espatrio produca sempre, anche se in modo traumatico, l’occasione di iniziare un percorso di crescita e conoscenza. Piuttosto, dovremmo preoccuparci di come, nei casi in cui il migrante torna nel paese d’origine, questo non accada con la sensazione di non aver sfruttato al meglio l’occasione o peggio, con la sensazione di essere stato respinto e non accolto.
Per quanto riguarda invece il lavoro in sé, sottoscrivo in pieno quanto detto da Alessandro Metlica nella sua risposta sull’incomunicabilità fra il mondo accademico italiano e quello europeo. La metafora dei due vasi non comunicanti che usa Metlica mi sembra azzeccatissima. È questo che genera improduttività, specie se si sprecano l’esperienza e le competenze dei ricercatori che rientrano e che l’Università italiana tende a respingere invece di trattenere. Ricordo ancora il dito indice alzato, in stile Fra Cristoforo, di un docente dell’Università di Padova che andai a salutare prima di partire per il dottorato a Londra, mentre mi diceva: “Ah lei va a Londra a fare il dottorato? Bravo, ma si ricordi che se parte, qui poi non torna più”…e non intendeva non tornare in Italia perché all’estero avrei vissuto meglio, intendeva non rientrare nell’Università italiana.
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