Felice Piemontese su La rancura
Pubblichiamo qui, nella sua versione integrale e originaria, un articolo di Felice Piemontese che è stato stampato, assai ridotto e mutilato di parti essenziali, sul Mattino del 27 febbraio.
Critico e saggista tra i più apprezzati – fondamentali i suoi studi su Verga, Pirandello, Montale – Romano Luperini cominciò, una decina d’anni fa, a mostrare un interesse non occasionale per la narrativa, pubblicando alcuni brevi testi di tono prevalentemente autobiografico. Con ambizioni ben maggiori, eccolo ora proporci un romanzo di notevole mole e complessità – La rancura, Mondadori editore, pagine 308, € 20,00 – che si attesta senza alcun dubbio tra le opere di rilievo degli ultimi tempi.
Il termine “rancura”, che si trova già in Dante, è usato da Montale per indicare quel complesso e contraddittorio sentimento che lega i figli ai padri, ed è fatto di “rabbiosa rivalità”, preoccupazione, desiderio di corrispondere alle attese. Non tutti i figli e non tutti i padri, naturalmente. Ma Valerio, il Narratore, personaggio che in parte cospicua s’identifica con Luperini, scrive proprio per venire a capo, una volta per tutte, di un rapporto complesso e opprimente, che si è portato dietro per tutta la vita. “Scrivo per farmi perdonare il rancore che ho avuto per lui – dice – e per riconciliarmi con la sua figura, che ancora si torce dentro di me”.
Ma, se questa è stata la spinta iniziale, molto più complessa è l’ambizione del romanziere, che affronta temi decisivi e sempre di attualità, pur nelle diverse declinazioni temporali. E divide il romanzo in tre parti, strutturalmente e linguisticamente differenti. La prima, per la quale si può parlare di docu-fiction, racconta l’essenziale della vita di questo padre odiosamato, e soprattutto la sua partecipazione alla Resistenza, al comando di una formazione partigiana che operò in Istria.
Un impegno determinato soprattutto dal Caso, e da una forma estrema di “orgoglio” di fronte al disastro della guerra mussoliniana, alla fellonia, alla fuga vergognosa di tanti. Una fase “eroica” della vita del giovane maestro elementare Luigi Lupi, “brusco e selvatico”, perennemente insoddisfatto, fondamentalmente anaffettivo. Prigioniero di “un risentimento rabbioso, un misto di frustrazione, vergogna e orgoglio” che lo isolano e lo inducono a un gesto estremo quando scoprirà di avere una malattia inguaribile.
Nella seconda parte – “quasi un’autofiction” dice l’autore – a dominare la scena è invece Valerio. Che fa il ’68, diventa professore universitario, riesce a coniugare gli impegni accademici e di studioso con quelli di dirigente di uno dei gruppi estremisti, ed è costretto a confrontarsi con la sciagurata opzione di tanti, che fanno la scelta suicida del terrorismo. Intanto si sposa, si separa, conosce altre donne, opta per la solitudine e, a poco a poco, scivola nella vecchiaia e comincia a convivere con l’idea della malattia e della morte, che sollecita bilanci, riflessioni finali.
Infine, la terza parte. Valerio è morto, e il figlio che vive a Londra torna in Toscana per vendere la casa sulle colline senesi in cui il padre ha abitato per molti anni. Incontra la sorella e un’amica di lei, un po’ è indotto a interessarsi alle vicende familiari, condizionato com’è dal fatto che il padre era per lui pressoché un estraneo. E in ogni caso sentir parlare di Resistenza, di contestazione, di tragedie nate dalla politica lo lascia sostanzialmente indifferente, quasi incredulo.
Il romanzo, nel quale molti si riconosceranno almeno in parte, aldilà del dato puramente anagrafico, è una sorta di pietra tombale su una lunga fase della storia italiana. Ma, nello stesso tempo, è una lucidissima riflessione autocritica su quello che ha rappresentato per molti l’impegno totalizzante a “cambiare la vita”, come si usava dire, con enfasi. Un impegno che l’autore è ben lontano dal rinnegare, ma che, a ripensarci oggi, ha significato troppo spesso disumanizzazione, sottovalutazione dei sentimenti, aridità. Non si piangono addosso, i personaggi di questo libro, non levano inni alla giovinezza perduta, ma, arrivati in una fase della vita in cui non hanno senso cautele e infingimenti, provano a dire tutto, a rendere quanto più complete possibile le colonne dell’attivo e del passivo. Quel che vien fuori è il ritratto di una generazione, e di una condizione umana fortemente connotata ma che alla fine è di tutti. E credo che difficilmente potrà prescindere da La rancura chi vorrà, in futuro, proporre un’immagine del mondo come è stato in questi travagliati decenni.
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