Caro padre ti onoro, ma ti odio anche un po’
Questo aticolo è apparso su Tuttolibri del quotidiano La stampa del 13 febbraio 2016.
La rancura (Mondadori) è il nuovo romanzo di Romano Luperini. Anzi sono due: uno, il romanzo storico, che copre le vicende (la Storia) del nostro Paese dal fascismo a oggi; l’altro, è la storia delle idee e stili che negli stessi anni, nell’ambito della letteratura, si sono avvicendate.
Il romanzo storico è piuttosto un romanzo familiare, nel senso che racconta, fra auto e docufiction, la storia di tre generazioni di una famiglia (alla quale l’autore appartiene). E’ un romanzo evidentemente interessante con alcune pagine di grande presa nel quale il lettore può riconoscersi condividendone o contestandone svolgimento e giudizi. Il protagonista è l’autore; suo padre, già contadino, studia e diventa maestro e poi con la guerra si fa soldato e soprattutto comandante partigiano di gran coraggio e cuore; si sposa e ha un figlio (appunto l’autore) che nasce prima della sua partenza e dunque che conosce solo quando torna a fine guerra.
Comincia a farsi chiaro il senso del titolo La rancura, con il quale Montale in un suo verso indica il rancore che quasi per regola si stabilisce fra figli e padri. Dalla vita gratificante e avventurosa della guerra partigiana, tornato alla mediocrità del suo mestiere di maestro, il padre si fa comprensibilmente afflitto, anzi pieno di rancore verso se stesso e i suoi famigliari, la moglie e soprattutto il figlio che avverte critico e non riconoscente del suo glorioso passato. I rapporti con loro diventano con gli anni sempre più astiosi. Il figlio (l’autore) intanto cresce, va a scuola e poi al liceo e all’università, mostrando una forte lucidità nella considerazione degli avvenimenti che tra gli anni ’50 e gli ’80 trasformano il nostro Paese da economia agricola a economia industriale. Il boom e le sue contraddizioni tra sviluppo e egoismo, poi il ’68 e la felicità di un sogno liberatorio, che si fa sempre più esigente e ciecamente assoluto fino al terrorismo, l’uccisione di Moro e la presa d’atto del fallimento. L’autore protagonista vive quegli anni con impegno e rischio personale, si iscrive al PCI poi lo rinnega sospettandolo di complicità col tentativo restaurativo che ritiene incombente e fonda insieme ad altri intellettuali un nuovo partito, DP, più attrezzato a combattere questo tentativo. Evita, al contrario di altri suoi compagni, di entrare in clandestinità avvertendo che non può essere la lotta armata la soluzione del problema.
Le pagine dense e forti di questo primo romanzo riguardano gli eventi della lotta partigiana, gli scontri innescati dal sogno sessantottesco, le manifestazioni del femminismo. Qui, in ognuno di questi, c’è insieme impegno e allegria, unendo responsabilità e gratificazione, gioco e fare come unico fondamento della felicità possibile per l’uomo.
Il secondo romanzo è affidato alle parole di Marcello, il figlio del protagonista che per l’occasione figura anticipitamente morto. Marcello fruga insieme alla sorellastra Serena tra le carte del padre morto e scopre qualche indizio di una realtà sconosciuta, per esempio l’erotomania del padre fin qui conosciuto per la sua castigatezza. Ma non è questa la scoperta più significativa ma una seconda legata più intimamente alla sua (del padre) professione. Si sa che l’autore (qui per convenienza morto) è professore emerito di letteratura italiana e letterato e scrittore autorevole e di prestigio (tra l’altro importante e decisiva è la sua riflessione su Giovanni Verga). A lungo nel corso de suo lavoro è stato angosciato dall’interrogativo che cosa è la realtà facendosi furioso (come confessa in questo stesso romanzo a pagina 189) contro chi sosteneva che «la realtà non esiste, esistono solo le interpretazioni» (e giù botte al nostro filosofo del “pensiero debole” e insieme a lui a Nietzsche, Derrida, Foucault e compagnia cantante).
In questo ultimo capitolo l’autore riprende a porsi l’inquietante interrogativo e, attraverso l’accorgimento di uno scambio di lettere fra il figlio Marcello e una scrittrice di romanzi erotici, fa dire a quest’ultima (ma è lui a parlare): oggi «sui giornali, sui blog, si parla di ritorno alla realtà in letteratura», ma poi (spegnendo ogni compiacimento) sconsolato aggiunge: «il ritorno alla realtà rischia di diventare un’altra retorica».
Come smentirti? Certo la realtà esiste e non cambia, ma a cambiare è il “sentimento della realtà” che (rimanendo alla letteratura) non è più quella del grande Verga. Martin Amis, il maggiore scrittore inglese contemporaneo, ha scritto: «in un mondo che diventa sempre più inafferrabile ma soprattutto sempre più mediato, il rapporto diretto con la propria esperienza è l’unica cosa di cui ci si possa fidare». Tu a questo verdetto, scrivendo La rancura, hai aderito. Dunque, hai accettato che la «sola attenzione oggi possibile è al proprio interno» (Amis), con conseguente negazione di ogni “oggettività”. Certo lo hai accettato con sofferenza sapendo che l’autofiction restringe (quanto sopportabilmente?) il mondo della conoscenza. E questa sofferenza (è il tuo vero merito) non nascondi e lasci che invada (con qualche danno per la loro autorità) le pagine di questo romanzo.
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NOTA
L’immagine è un’opera di Alessandro Piangiamore, Tutto il vento che c’è / All the wind that blows (Ponentino, Scirocco), 2012, soil, wind, cm 13x13x30.
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“ 5 giugno 1986 – Storia del PÒ. C’era una volta il POCO ma presto fu di troppo. Così si tagliò di quel CO finale sordo inaccentato inutile lento. Si consentì a un apostrofo. Piccolo. Alla memoria. Passarono gli anni corse l’inchiostro pennini si infransero biro ruotarono a vuoto per quanto sfregate o alitate. Del POCO non si seppe più nulla era già molto se persisteva quella buffa virgola appesa a mezz’aria. L’insofferenza cresceva. Con quanto abbiamo da fare! Gli abolizionisti del segnetto residuo tuttavia esitavano. C’era un pericolo: l’equivoco. Si sa di un fiume PO che tutto è stato ed è fuorché POCO salvo è evidente nei mesi più caldi. Inoltre il fiume scorre abitualmente lento grandioso triste: non è roba da alzare la voce. Dunque niente apostrofo. Ma nemmeno accento. Giù le mani dal PO. Il mutilato invece il PO ex POCO pourquois pas? Accentarlo anche gli starebbe benissimo e poi rende l’idea: non fu un deperimento della lingua una lunga erosione miseria cresciuta del parlato e scritto. Invece una frattura fu anzi una scelta un taglio netto come si dice e si fece. Non senza un certo gusto. Sadico clinico. Sì: andava fatto. Abbiamo sopportato abbastanza è stata diciamolo una liberazione. Accentiamolo accendiamolo facciamo festa un gran bel botto che carnevale anche soltanto con un PÒ anche soltanto per un PÒ. “.
@adriano
Gentile Adriano, la ringraziamo della segnalazione, abbiamo provveduto a correggere il refuso.
Pubblichiamo interventi ogni due giorni e la redazione di LN è composta da appassionati volontari che per buona parte del loro tempo lavorano nella scuola, nell’università, nell’editoria. Qualche errore può scappare, ogni tanto.
Cari saluti