La scuola ai tempi del Mim /1: cultura di destra e crisi della globalizzazione liberal
Pubblichiamo il primo di una serie di interventi di Daniele Lo Vetere, in cui saranno analizzati i libri di Giuseppe Valditara, La scuola dei talenti (2024), di Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla, Insegnare l’Italia (2023), di Galli della Loggia, L’aula vuota (2020), in relazione alle politiche del Ministero dell’istruzione e del merito e alle condizioni storiche della scuola contemporanea.
Noi, comunisti e socialisti, abbiamo dimenticato, sembra, quale forza può infondere a noi e quale paura incutere agli avversari l’esercizio di una verità teorica e anche la sola ricerca della verità, lo sforzo verso una sua nuova formulazione. […] Non si può combattere l’anticomunismo cercando di dimostrare che è appena fascismo, anti-progresso, malafede. Non bisogna scegliersi i più abbietti fra i propri avversari o nemici per sentirsi superiori; bisogna qualificare il proprio comunismo e socialismo, determinare che cosa in esso sia essenziale e che cosa accessorio e smettere di considerare ogni anticomunista come un disonesto o un idiota; smettere di valutare la critica come tradimento. Cessare, in altri termini, di trasformare ogni giudizio politico in giudizio morale, è una delle condizioni perché gli avversari cessino di trasformare ogni giudizio morale in giudizio politico, ogni tradimento in una critica al comunismo, e ogni disonesto o idiota in un comunista. Riscrivere la storia propria, spiegarla con un eguale linguaggio per i capi e per le masse. […] L’adempimento di questo lavoro non diminuirà l’anticomunismo, ma rafforzerà le ragioni dell’opposizione socialista e aprirà l’unico dialogo utile.
Franco Fortini, Dialoghi con se stessi, 1954, in Dieci inverni
Cronaca dei fatti
Un anno fa, il 1 settembre 2023, è uscito il pamphlet della pedagogista dell’Università di Bari Loredana Perla e di Ernesto Galli della Loggia, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo (Scholè). Già nel 2020 lo storico ed editorialista del Corriere aveva pubblicato un altro libro dedicato alla scuola, L’aula vuota (Marsilio), cui in alcune pagine di Insegnare l’Italia si rimanda. Il 6 dicembre 2023 il libro dello storico e della pedagogista è stato presentato a Roma insieme al ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara. Il 27 febbraio 2024 è uscito il libro del ministro, La scuola dei talenti (Piemme). Si tratta naturalmente di un libro programmatico e propagandistico, come conferma il fatto che molte delle iniziative in esso promesse siano poi state tutte puntualmente avviate, se già non lo erano state: dalla riforma dei tecnici e dei professionali alla stretta sui dispositivi elettronici in classe, dall’introduzione dell’intelligenza artificiale alle Linee guida per l’educazione civica, passando per l’ingresso dei finanziamenti di banche e privati nella scuola con la costituzione di una Fondazione per la scuola italiana. Questi eventi hanno suscitato per lo più scarsa attenzione o preoccupazione. Le cose sono cambiate nella tarda primavera del 2024.
Il 3 maggio il Corriere della sera dà infatti la notizia della decisione di Valditara di mettere mano alle Indicazioni nazionali per la scuola dell’obbligo e della costituzione di una commissione a ciò deputata, presieduta proprio da uno degli autori di Insegnare l’Italia, la professoressa Perla. Il mondo della scuola o almeno la sua minoranza politicamente attiva, a questo punto, si è inquietato: in parte perché la commissione Perla è composta interamente da pedagogisti (e vede, tra l’altro, la presenza di due università telematiche), ma soprattutto perché la decisione di riscrivere le Indicazioni nazionali ha avuto modalità verticistiche e improvvise e perché il pamphlet di Perla e Galli della Loggia è apparso retrospettivamente sotto la luce del libro programmatico, non meno di quello di Valditara, ed ha un chiaro orientamento identitario e patriottico. Tale programmaticità era peraltro esplicitamente rivendicata in una pagina del libro:
la pedagogia italiana ha abbracciato in modo radicale questa tesi [che il concetto di identità sia pericoloso per la convivenza democratica e per l’accoglienza dell’altro], e con il supporto di una burocrazia ministeriale compiacente nell’accettarne la fondatezza l’ha tradotta nel documento delle Indicazioni ministeriali per il curricolo di storia e di geografia del 2012 destinate ai primi due cicli della scuola dell’obbligo, aggiornate nel 2018 […]. Oggi, tuttavia, i tempi appaiono maturi per una revisione di tale documento (Insegnare l’Italia, p. 56).
A parte di queste critiche, il Mim ha risposto con la classica toppa peggiore del buco, invitando in audizione, a metà giugno, le associazioni disciplinari fino a quel momento escluse (quelle di italianistica e linguistica sono state convocate il 18 giugno), ma con modalità che è eufemistico definire superficiali: ci si è dimenticati di convocare alcune associazioni, che sono venute a conoscenza dell’audizione informalmente da altri colleghi; il tempo previsto per il confronto era di appena un’ora, per una dozzina di sigle; non è stato chiarito in alcun modo ciò che la commissione Perla avrebbe fatto dei memorandum che le associazioni erano invitate a produrre e ad oggi nessuna altra comunicazione in merito è mai giunta dal ministero o dalla commissionei.
Il 7 di luglio si è aggiunta una notizia che riguarda l’università: la ministra Anna Maria Bernini ha incaricato una commissione, presieduta dall’altro autore di Insegnare l’Italia, Galli della Loggia, di prospettare «interventi di revisione dell’ordinamento della formazione superiore».
Infine, il nuovo anno scolastico ci ha regalato nuove Linee guida sull’educazione civica che sono, come vedremo analizzando il libro di Valditara, quasi una summa della sua agenda politica. Queste linee guida sono state fortemente criticate dal Consiglio superiore della pubblica istruzione (che, è comunque bene ricordarlo, è un organo semplicemente consultivo). Il ministro, come ha già fatto in precedenti casi (ad esempio sulla riforma dei tecnici e professionali), ha completamente ignorato tale bocciatura; non solo, ha anche accusato il CSPI di avere «pregiudizi ideologici».
Cultura di destra e agende di lungo periodo
Non ho richiamato tutti questi fatti senza una ragione. Siamo chiaramente di fronte a un’articolata operazione politica di riformismo decisionista e verticistico, accompagnata dal fiancheggiamento di alcuni intellettuali organici. L’azione di Valditara sulla scuola è poderosa e procede a spron battuto un’iniziativa dopo l’altra: tuttavia suscita resistenze scarse e risposte confuse.
Sulle resistenze scarse c’è poco da dire. Il carattere postdemocratico (Colin Crouch, Postdemocrazia, 2009) delle nostre società è ormai un dato di fatto storico acquisito. Postdemocratica è una società in cui va progressivamente riducendosi la possibilità da parte dei cittadini di autodeterminare il proprio destino: le classi dirigenti rendono sempre meno conto del proprio operato davanti al popolo, rispondendo piuttosto alle pressioni di lobby economiche, think tank e gruppi di potere; svendono sul mercato e privatizzano funzioni pubbliche preziose per la vita democratica (telecomunicazioni, infrastrutture, istruzione, sanità, …); trasformano i partiti in agenzie di marketing e propaganda, che costruiscono la propria comunicazione politica sulla base degli umori di un elettorato ridotto a target di sondaggi d’opinione. Siamo di fronte a un’«evoluzione oligarchica delle liberaldemocrazie, che lascia sussistere, solo formalmente, istituzioni e procedure liberaldemocratiche» (Carlo Galli, La destra al potere, 2024, ebook, pos. 186).
Le risposte politicamente confuse richiedono invece qualche parola di più. Esse sono dello stesso tipo di quelle provocate dal discorso di insediamento del neoministro della Cultura Alessandro Giuli. Quel discorso, ridicolizzato e parodizzato per le bizzarrie linguistiche, era invece, come ha mostrato un esperto del tema come Mimmo Cangiano (cfr. il suo Cultura di destra e società di massa, 2022), un discorso forse confuso ma tutt’altro che ingenuo, essendo intriso di quella cultura di destra che cerca di “spiritualizzare” e “nazionalizzare” la tecnica e l’economia, illudendosi di governarle (cultura che un po’ troppo semplicisticamente in Italia viene ricondotta al solo fascismo, per memoria storica automatizzatasi).
Rilevare nell’azione del ministero Valditara la presenza di temi di destra come la patria o l’identità e denunciarli rischia di essere soltanto tautologico e moralistico. Non ci si può limitare a fare una grottesca caricatura dell’avversario, denunciandone la rozzezza e la mancanza di bibliografie; né si va molto lontano sostenendo la tesi – bizzarra in sede politica e pedagogica, in cui il criterio della scientificità non è più dirimente della pertinenza storica, ideologica, filosofica – che le proposte di Perla e Galli della Loggia siano affette da «torsioni politiche», a fronte della “scientificità” degli approcci che essi mettono in discussione.
Viviamo su un crinale storico delicato, che richiede un sovrappiù di lucidità. È verissimo che le politiche della destra aggraveranno la crisi post-democratica, avviandoci a un esito sempre più simile a quello di altre “democrature” europee (o a «una declinazione “blindata” della post-democrazia»: Galli, pos. 186), ma la crisi non è certo iniziata oggi con l’insediamento al Governo di una leader dalla giovinezza politica post-fascista e di un ministro che si rifà alla dottrina del diritto romano per sostanziare la propria azione: né sul piano politico generale, né specificamente in campo scolastico.
Così la critica ideologica diventa orba: si coglie con allarme la deriva identitaria, tradizionalista e patriottica, perché in essa si ritrova l’identikit atteso della destra sul piano socio-culturale, ma si reagisce per riflesso condizionato e si immagina un ritorno di forme politiche autoritarie e nazionaliste del passato, quando ci troviamo di fronte, al contrario, a una destra nuova, che recupera certo vecchi temi e ideologie (non solo fascisti: la storia della destra otto-novecentesca è assai più complicata), ma che li declina adattandoli al contesto storico odierno. E questo, per quanto riguarda la scuola, significa prima di ogni altra cosa l’accelerazione di un riformismo scolastico trasversale ai governi, ispirato da agende economiche di medio-lungo periodo, di cui la declinazione impressa da ministri di diverso colore non cambia la sostanza.
Ad esempio, il carattere verticistico del processo riformatore si era già manifestato con la cosiddetta Buona scuola del governo Renzi; ancora, la proposta di accorciamento del percorso scolastico di un anno rimonta ai ministeri Berlinguer e Moratti e si è concretizzata negli ultimi anni nella sperimentazione della quadriennalizzazione delle superiori, rilanciata dal predecessore di Valditara, Patrizio Bianchi (Pd), e sostenuta da uno storico maestro di strada, poi sottosegretario all’Istruzione, come Marco Rossi Doria, in una significativa trasversalità che unisce conservatori, progressisti e pedagogia dei margini.
Riesce in effetti difficile attribuire esclusivamente a un’ideologia di destra affermazioni che, in forme pressoché identiche, sono state ripetute in questi anni da chiunque – politici, formatori dei docenti, opinionisti, policy maker, imbonitori, economisti, uomini della strada – fino a diventare senso comune: la scuola deve investire in capitale umano, per colmare il «disallineamento fra domanda e offerta» (G. Valditara, La scuola dei talenti, ebook pos. 2164), naturalmente privilegiando una «formazione personalizzata, come un abito sartoriale fatto su misura» (pos. 495) e «senza un approccio eccessivamente teorico e formale, ma attraverso lo sviluppo di competenze rilevanti e significative, che faccia sentire gli allievi coinvolti, e che dia loro gli strumenti essenziali per godere di una cittadinanza attiva» (pos. 2209), con l’insegnante, nemmeno a dirlo, che deve porsi nel «ruolo [di] guida, prima che come trasmettitore di singole conoscenze» (pos. 2467).
Lo stesso “totalitarismo” di una commissione composta da soli pedagogisti non è altro che la versione particolarmente spinta, o il coronamento, del crescente predominio di una classe disciplinare accademica, che si inebria del riconoscimento accordatole dalla politica e che accetta di farsi instrumentum regni.
Purtroppo il dibattito pubblico è ormai tanto incapace di riflettere sulle ragioni di fondo dell’azione politica, che è possibile trascorrere giorni a difendere l’importanza dello studio dei dinosauri, vilipesi da una dichiarazione del ministro, senza accorgersi che l’obiettivo di quelle parole di Valditara era ciò di cui i dinosauri erano soltanto l’esemplificazione, ovvero la necessità di ridurre ulteriormente i contenuti culturali e di adattare la scuola alle esigenze del mondo contemporaneo: «Bisogna pensare a programmi nuovi in linea con la società moderna. Semplificare e far prevalere la qualità sulla quantità». Anche in questo caso, quante volte, ben prima del ministro, abbiamo sentito parlare di saperi minimi, saperi essenziali, snellimento dei programmi, sfrondamento dell’inutile nozionismo, focalizzazione sulle competenze utili alla vita e al mercato, …
Il neoliberismo: oh sì, ancora lui
Nella prefazione alla nuova edizione del loro La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista (2019), Dardot e Laval hanno parlato di un «nuovo neoliberismo»: «una forma politica originale che mischia autoritarismo antidemocratico, nazionalismo economico ed estesa razionalità capitalistica» (p. 9). Nella nuova destra globale di Trump, Orban, Salvini (i due autori non citano Meloni per ovvie ragioni di cronologia. Da parte mia aggiungerei Bolsonaro e Milei) si dà una miscela del tutto nuova di autoritarismo conservatore e neoliberismo politico ed economico.ii
Dopo la crisi del 2008, in effetti, si è sentito ripetere spesso che le politiche neoliberiste sarebbero ormai alle nostre spalle, quando la razionalità di fondo di cui esse sono espressione governa ancora il nostro mondo, avendo semplicemente conosciuto una reinterpretazione conservatrice. Se se ne vuole una rappresentazione emblematica, basterà osservare che i Brin e i Page (Google) e gli Zuckerberg (Facebook) hanno sempre finanziato i democratici americani: oggi Musk finanzia Trump.
Il fatto che il neoliberismo sia stato l’ideologia politica, sociale ed economica della globalizzazione ha spinto infatti a credere che la crisi di quest’ultima implicasse anche la crisi del primo. Inoltre il fatto che esso abbia vissuto il proprio apice negli anni Novanta, sostenuto da leader progressisti come Bill Clinton e Tony Blair, ci ha reso familiare la sua declinazione “di sinistra”, in cui economia di mercato, privatizzazioni, aziendalismo, deregulation finanziaria, possono andare a braccetto con il riconoscimento dei diritti civili, la tutela delle libertà individuali, la preservazione (almeno formale) dei diritti politici (ma una decisa contrazione di quelli sociali). A tal punto negli ultimi decenni capitalismo e democrazia sono stati identificati l’uno con l’altra, che di fronte alla rinascita di populismo, nazionalismo e xenofobia – e alla loro strumentale e agitatoria critica delle élite globaliste – si è potuto confondere la difesa della democrazia, messa a rischio dal ritorno del conservatorismo politico più retrivo, con la difesa dello status quo economico.
Come ha già dimostrato efficacemente Marco Meotto su Doppiozero, la critica all’autoritarismo delle iniziative ministeriali sulla scuola non può andare senza una considerazione del più ampio contesto di valori egemoni: individualismo, economicismo, enfasi sulla responsabilità individuale a scapito di quella sociale. Purtroppo, però, analisi come la sua sono minoritarie. Assai più facile è percorrere la via di considerare la posizione dell’avversario «appena fascismo, anti-progresso, malafede». Per questo credo che il complesso di idee che si legge nei libri di Perla, Galli della Loggia, Valditara meriti di essere analizzato, invece che esorcizzato con l’allarmismo: per capire che cosa abbiamo di fronte, per domandarsi come possa essere diventato egemone, per ipotizzare possibili risposte. È quanto intendo fare, un tema alla volta, negli articoli che seguiranno le prossime settimane: per chi vorrà e per chi ritiene utile che i nostri «giudizi morali» ridiventino «giudizi politici».
Immagine di copertina di Mauro Biani (maurobiani.it)
[i] Ringrazio la nostra Emanuela Bandini che, in quanto membro di Compalit Scuola, era fra i partecipanti all’incontro del 18 giugno e che mi ha dato queste notizie.
[ii] In miei precedenti interventi, in Rete e cartacei, ho sempre preferito i termini «neoliberale» e «neoliberalismo» a «neoliberista» e «neoliberismo», per sottolineare il carattere non solo strettamente economico, ma più ampiamente politico e ideologico, del fenomeno. In questa scelta lessicale mi accodo peraltro a Massimo De Carolis (Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, Quodlibet 2017) e alla traduzione italiana di Nascita della biopolitica di Michel Foucault. In questo intervento ricorrerò invece alla coppia «neoliberista» e «neoliberismo», in linea con la traduzione di Dardot e Laval e per evitare così una confusione terminologica.
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