Skip to main content
Logo - La letteratura e noi

laletteraturaenoi.it

diretto da Romano Luperini

Padri/padroni nella letteratura del primo Novecento

È sempre interessante a scuola agganciare un tema ad uno specifico contesto storico: lo studente può così sperimentare direttamente la connessione tra privato e pubblico anche dove le strutture della storia restano più invisibili. In questo articolo si rifletterà  sulla figura del padre/padrone nella letteratura del primo Novecento associandola a dinamiche storiche capaci di scuotere la sensibilità artistica. Il padre può uscire dagli angusti confini del personaggio letterario e caricarsi di significati più complessi che attingono alla storia novecentesca: padre diventa anche l’alienante civiltà di massa o il nuovo sistema industriale che annulla le identità individuali. E, per inciso, forse non è un caso che molti nostri studenti subiscano il fascino di questo tema essendo immersi in un contesto storico che scaraventa nel loro universo privato, già denso di personali inquietudini, immagini di violenza e precarietà.

Il primo da cui partire: Freud e il complesso edipico, 1915-17 

In Introduzione alla psicanalisi Freud chiarisce che «già da piccolo, il figlio comincia a sviluppare un’affettuosità per la madre, che considera come propria, e ad avvertire nel padre un rivale che gli contrasta questo possesso esclusivo, e, allo stesso modo, la figlioletta vede nella madre una persona che disturba il suo affettuoso rapporto con il padre e che tiene un posto che lei stessa potrebbe occupare». Si tratta di una delle prime definizioni del complesso edipico da cui non si può prescindere, se è vero che Giacomo De Benedetti definisce la Lettera al padre di Kafka «la denuncia, o meglio, la confessione di un complesso edipico» e che, ne La Coscienza di Zeno, Svevo assegna alla psicanalisi il ruolo di protagonista del romanzo o, almeno, di comprimaria. Ma, oltre al mito del figlio che uccide metaforicamente (è sempre bene ricordarlo. Ma siamo sicuri che Zeno non sia, in qualche modo, responsabile della morte del padre? E siamo certi che non sia in qualche modo imputabile di istigazione al suicidio di quella che può essere considerata una proiezione della figura superegotica paterna, l’antagonista Guido Speier?) il padre, maggiore rilevanza assume per il nostro discorso il concetto di SuperIo che castra e annichilisce le aspirazioni individuali del giovane Kafka o del personaggio di Pietro Rosi, in Negli occhi chiusi di Tozzi. Il SuperIo, mascherato da figura paterna, contribuisce a disciplinare il principio di piacere facendo sistematicamente emergere quello di realtà attraverso limitazioni imposte all’individuo, così le ambizioni di Franz, Pietro e Zeno vengono costantemente frustrate dai rispettivi padri che riescono a essere al contempo an-affettivi e castranti. In seguito, le proibizioni del padre vengono interiorizzate ed esercitate da altre persone, da modelli e da istanze della società, così da trasformare il Super-Io in una costruzione storica legata indissolubilmente ad un determinato modello sociale. E come questo emerga, pare chiaro senza alcun dubbio ne La Coscienza di Zeno: non subisce forse l’inetto Zeno la pressione del modello culturale imposto dall’uomo forte, sicuro di sé e capace di suonare il violino?

Se associamo queste categorie filosofiche a immagini più immediatamente comprensibili ai nostri studenti, è possibile intendersi meglio. Immaginiamo di essere in una stanza vuota e molto angusta. Noi siamo sdraiati sul pavimento e il soffitto si abbassa progressivamente fino a minacciare di schiacciarci come in una pressa. Subentra un istinto che ci porta a farci sempre più piccoli nell’illusione di non essere schiacciati. La seconda immagine è quella di un gigante che ci tormenta e ci consegna a un’idea di impotenza, di fragilità che rende inutile qualsiasi azione oppositiva. Tenete a mente queste due immagini, torneranno utili a comprendere alcuni aspetti della letteratura di Kafka.

Lettera al padre di Kafka: il padre come padrone, 1919

Colpisce, in Lettera al padre, la lucida disperazione con cui l’autore definisce l’azione dominatrice del padre, scandendo i passaggi di un processo di castrazione che lo riduce alle condizioni di in(s)etto. La superiorità oppressiva riconosciuta dal figlio si declina su piani diversi, soprattutto fisico (la forza del padre, misura di tutte le cose, enfatizza il senso di dipendenza del figlio, in opposizione rappresentato come gracile e indifeso) e erotico-sentimentale (come da schema freudiano, il giovane Kafka si concepisce solidale con la madre, vittima del padre seduttore incallito). Hermann trattiene per sé tutta la forza virile, come a volerla sottrarre a Franz, così da mandare a monte tutti i fidanzamenti del figlio, come se tutte le donne competessero a lui di diritto. A proposito del fallimento delle sue storie sentimentali, Franz ammette di aver preferito non liberarsi da questa condizione di impotenza anche attraverso il matrimonio perché altrimenti sarebbe diventato ciò che lui che non voleva essere: suo padre. Meglio restare un escluso, confinato nella infantilità del sogno/incubo, meglio la condizione dell’in(s)etto che succhia il sangue per mantenersi in vita.

Con gli occhi chiusi di F. Tozzi: il padre castrante, 1919

Lo stesso percorso di castrazione segue il Pietro di Con gli occhi chiusi, il primo dei romanzi di F. Tozzi che disegnano la parabola autodistruttiva dell’inetto: un romanzo certamente complesso e fuori dal canone tradizionale, ma che può essere letto in classe e innesca sicuramente discussioni e riflessioni importanti. Pietro Rosi vive in uno stato di cecità metaforica che è soprattutto malattia interiore: è come se egli tentasse di isolarsi da un mondo che esige di essere visto. Responsabile di questo stato di impotenza psicologica è ancora una volta un padre/padrone, Domenico, che demolisce il figlio in ogni modo possibile, soprattutto a livello sentimentale. Con gli occhi chiusi, infatti, è anche la storia di un amore fallito, quello tra Pietro e Ghisola: la donna è sistematicamente deformata dallo sguardo miope del protagonista che la trasfigura in immagini idealizzate e astratte sebbene lei sia diventata una prostituta.

La menomazione psicologica di Pietro trova maggiore evidenza nella scena della castrazione degli animali quando Domenico, pervaso da una sorta di furor castrandi, arriva a collocare Pietro sullo stesso piano di quegli animali offesi, in una sorta di rito quasi sacrificale. La scena in cui «Domenico faceva castrare tutte le bestie di Poggio a’Meli» è immediatamente preceduta dalla castrazione di Pietro che avviene in un dialogo feroce in cui il figlio viene demolito a livello scolastico («E a scuola perché ci vuoi tornare? Non ti sei fatto mandar via?»); a livello sentimentale (a Pietro che dichiara di non volersi sposare, il padre replica seccamente: «E, allora, pensaci bene: sarò costretto a riprenderla io»); a livello lavorativo («Tu non saprai mai esser un padrone»); a livello culturale («Io me ne intendo più di tutti gli scienziati, perché sono tuo padre»). La mutilazione di Pietro si realizza compiutamente nelle sue aspirazioni personali costringendolo con violenza a non vivere e ritirarsi in una visione fanciullesca del mondo. Solo alla fine Pietro sarà travolto dalla realtà in tutta la sua potenza: la visione di Ghisola incinta in un bordello lo scaraventa indietro nel tempo e gli apre finalmente quegli occhi chiusi.

«Quando si riebbe dalla vertigine violenta che l’aveva abbattuto ai piedi di Ghisola, egli non l’amava più» sono le parole che chiudono il romanzo e anche la sua traduzione cinematografica del 1994 per la regia di Francesca Archibugi. La regista traduce la cecità interiore di Pietro attraverso alcuni intelligenti accorgimenti tecnici: il punto di vista del protagonista viene reso a tratti per mezzo di immagini sfuocate e la miopia di Pietro diventa anche quella dello spettatore; inoltre, in diverse scene, Pietro osserva la realtà, della natura e degli uomini, attraverso il filtro di una finestra in una sorta di leopardiano diaframma che separa il mondo esterno dal proprio universo interiore.

La coscienza di Zeno e la rivincita dell’inetto, 1923

Non si può eludere, all’interno di questo percorso, una delle figure più emblematiche della letteratura del primo Novecento, lo sveviano Zeno Cosini che rovescia le sorti dell’inetto. Schiacciato da un’ingombrante figura paterna, solida incarnazione del perfetto eroe borghese, anche Zeno gli si oppone in modi neppure così ambigui visto che sembra non voler nascondere il proprio odio. Tuttavia il padre intuisce i sentimenti del figlio smascherandolo con uno schiaffo in punto di morte laddove il figlio tenta goffamente di mistificare le ragioni dei suoi comportamenti attraverso una ricostruzione della memoria assai poco oggettiva. Ma la coscienza di Zeno (non Zeno) dissemina ovunque tracce dei reali sentimenti del personaggio come quando Zeno racconta di non ricordare le ragioni per cui non avesse chiamato subito il medico o quando amorevolmente augura al padre di morire. Ma, all’interno di quella particolare combinazione di false verità che caratterizzano il romanzo, il padre viene concepito come l’ostacolo di cui si ha bisogno e contemporaneamente occorre disfarsi. All’inetto il padre serve come alibi, nel tentativo estremo di opporre alla normalità borgese il dubbio e l’inettitudine come segni distintivi per sentirsi migliore. E così, Zeno si prende la sua rivincita capovolgendo il significato della sua malattia e l’inettitudine diviene salute: i malati sono gli altri, i sani che pensano di non aver bisogno di cure. La salute di Zeno si fonda sull’acquisita convinzione che tutto il mondo è malato. E alla malattia (o alla convinzione di essere malati) reagisce meglio l’inetto che il sano perché l’inetto sa adattarsi, in quanto individuo in fieri, a una vita che è inquinata alle radici. La guerra, la storia, l’uomo stesso insidiano la coscienza individuale e espongono ciascuno di noi ad una dimensione di fragilità di cui non resta che prendere… coscienza.

Saba e la risoluzione del conflitto, 1924

L’eterna guerra tra padre e figlio sembra incontrare la fine o, almeno, una tregua in Saba. La poesia di Saba è capace, invece, di scandagliare  i labirinti dell’animo umano tanto quanto la narrativa degli autori precedentemente considerati. La poesia Mio padre è stato per me l’assassino è ispirata dalle particolari vicende biografiche del poeta: il dramma di suo  padre, Ugo Edoardo Poli, che abbandona madre, Felicita Rachele Cohen e figlio. La madre educa il figlio all’odio e al rancore eterno verso la figura paterna, spogliandosi del ruolo di donna sottomessa e anzi assolvendo lei stessa al ruolo superegotico tipico del padre: nella poesia di Saba è, infatti, il padre a rappresentare il principio di piacere, l’idea di fuga e trasgressione («Andò sempre pel mondo pellegrino;/più d’una donna l’ha amato e pasciuto./Egli era gaio e leggero»), e di leggerezza («Di mano ei gli sfuggì come un pallone»). Mentre la madre viene disegnata come oppressa dai pesi della vita, il padre diventa un bambino, «dolce e astuto, gaio e leggero», curioso e capace ancora di stupirsi: e se  è vero, come hanno insegnato, a noi e a Saba,  il fanciullino pascoliano e il poeta Leopardi, che la capacità di meravigliarsi diventa il dono dell’atto poetico, Saba dichiara la sua gratitudine al padre assassino per avergli trasmesso in eredità quel dono («Allora ho visto ch’egli era un bambino, e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto»). L’assassino viene assolto o quanto meno il figlio, pur incitato dalla madre non diventare l’uomo che suo marito era stato per lei, comprende e accetta senza giudicare la conflittualità dei suoi genitori: eran due razze in antica tenzone. Non si può, tuttavia, avere la certezza che ogni conflitto sia stato definitivamente risolto e ricomposto nell’animo di Saba. Solo due spunti di riflessione: nella poesia non emerge alcuna forma di condanna nei confronti di Ugo Edoardo Poli, è tuttavia comprovato dall’anagrafe che il poeta, pur scoprendo suo padre molto simile a sé per tratti fisici e indole, non ne assunse mai il cognome, adottando quello di Saba, forse in segno di affetto e riconoscenza verso la sua indimenticata balia Peppa Sabaz. Inoltre, nel romanzo autobiografico di Saba, Ernesto, il protagonista interroga la madre sulle ragioni di un odio che ha segnato l’esistenza di una famiglia e che forse viene considerato responsabile di un’educazione sentimentale, quella di Ernesto, resa complicata, addirittura tormentata da un amore omosessuale.

Padre padrone l’educazione di un pastore (1975)

Un qualsiasi percorso sulla figura del padre nel Novecento non può che trovare un suo naturale approdo nello straordinario romanzo di Gavino Ledda, Padre padrone l’educazione di un pastore. La vicenda, tradotta magnificamente dai fratelli Taviani per lo schermo cinematografico soltanto due anni dopo la pubblicazione del romanzo nel 1975 e a breve distanza dalla rivoluzione sessantottina, è la storia dell’ emancipazione (mai, come in questo caso, nel senso etimologico del termine) progressiva di un ragazzo sardo da una violenta figura paterna e da un’arcaica visione del mondo. Basterebbe leggere le pagine (o mostrare la corrispondente scena del film dei Taviani) in cui il padre/padrone si precipita a scuola con lo sguardo terrificante di un falco affamato (de unu astore famidu) per rivendicare la proprietà del figlio che intende destinare alle pecore, al latte e al formaggio perché «lo studio è roba da ricchi». Il romanzo ricorda, in molte sue pagine la letteratura di Verga come quando il giovane pastore Gavino, come il suo collega Jeli, trascorre il suo tempo ad ascoltare il discorso della pioggia e osservare la sua danza. O come quando l’eterno scontro tra padre e figlio, questa volta anche fisico, richiama alla memoria letteraria il conflitto tra i due ‘Ntoni  de I Malavoglia. E, proprio come il giovane ‘Ntoni, anche Gavino sceglie la strada della fuga, dalla Sardegna in questo caso, da una terra che il padre padrone rende ancora più isola. Il distacco dal resto del mondo emerge anche sul piano linguistico quando Gavino, durante il servizio militare, sperimenta la distanza dagli altri connazionali i cui dialetti risultano più vicini all’italiano di quanto lo sia il suo sardo e viene per questo riscaraventato dai suoi superiori in mezzo al branco dei suoi simili, emarginato tra gli emarginati. Ma l’esigenza irresistibile del riscatto sociale incrocia un’eccezionale forza di volontà e lo studio  diventa arma di liberazione, quasi di affrancamento dalla schiavitù cui il padre/padrone aveva costretto il figlio. E l’ultimo scontro con il padre/padrone, sebbene conduca a una nuova emigrazione, diventa il varco definitivo verso una nuova esistenza. Gavino, sorta di anti/Edipo, ha definitivamente reciso ogni legame con un universo culturale e sociale non più compatibile con il proprio.

E quindi… noi?

Oggi a distanza quasi esatta di un secolo è ancora opportuno interrogare noi e i nostri studenti sul significato di questo conflitto? Le parole di Tozzi, il padre assassino di Saba sono ancora attuali? Gli eventi storici che attraversano il nostro tempo sono, in qualche modo, sovrapponibili a quelli che hanno generato quel sentimento di fragilità che caratterizzano alcune figure letterarie del primo 900? Se Zeno intravede all’orizzonte, nelle pagine finali del suo capolavoro, le ombre minacciose della guerra e tenta di risolvere, con una buona dose di autoironia, i propri conflitti interiori trasformandosi in abile uomo d’affari, è possibile che oggi un giovane sia turbato da simili angosce e cerchi risposte iscrivendosi a Economia e Management? Esistono ancora padri/padroni che soffocano le aspirazioni dei propri figli e alimentano contrasti che diventano irrisolvibili? Probabilmente queste domande e le conseguenti opportunità di rendere attuali dei percorsi di letteratura, si espongono al rischio di semplificazione. Trovo, comunque, interessante chiudere questa riflessione sulla figura del padre considerando un saggio di M. Recalcati, Il complesso di Telemaco che traccia interessanti agganci tra passato e presente. Recalcati esemplifica la figura del giusto erede attraverso la figura del figlio di Ulisse, Telemaco, che attende il ritorno del padre a Itaca, confidando nel fatto che solo lui possa ripristinare la Legge della parola nel proprio microcosmo sconvolto dall’arroganza dei Proci. È una particolare esigenza di stabilità e di ordine, è una domanda di padre, l’esigenza di un porto che garantisca sicurezza oltre (o accanto) all’idea di ignoto e pericolo che l’immagine del mare può evocare. Secondo Recalcati, le giovani generazioni somigliano più a Telemaco che a Edipo: oggi i giovani non si devono più confrontare con la figura del padre-padrone ormai prossima all’estinzione perché, semmai, sta venendo progressivamente meno il ruolo orientativo del padre che si trasforma in amico/confidente. Ma i giovani chiedono altro, i giovani domandano, anche attraverso esempi, «atti, scelte, passioni, capaci di testimoniare come si possa stare in questo mondo con desiderio e, allo stesso tempo, con responsabilità ». In un’epoca che quotidianamente espone al rischio di angosce incontrollate e legittime paure, un padre deve saper consegnare a un figlio una giusta eredità, oltre la propria presenza o assenza. Ma, mentre si consegna a un figlio l’eredità di una passione o di un sentimento, bisogna aiutarlo a scrollarsi di dosso quella stessa eredità. Dare ciò che sarà abbandonato. E, avverte Recalcati, chiunque può esercitare questo importantissimo e difficilissimo ruolo di tenere insieme la Legge e il Desiderio, il principio di realtà e il principio di piacere. Può essere un allenatore, un classico di letteratura o di cinema.Può essere un/un’insegnante. «L’eredità non è mai eredità di sangue… ogni paternità è radicalmente adottiva». Recalcati, nel finale del suo libro, cita l’esempio dell’allenatore di pugilato, il Clint Eastwood di Million dollar baby. A me viene in mente un’altra figura, sempre cinematografica. È un padre che non è un padre, ma che riesce a diventare per un ragazzo un irrinunciabile punto di riferimento. Sto pensando all’Alfredo di Nuovo Cinema Paradiso che consegna in eredità al giovane Totò la passione per il cinema. Alfredo è analfabeta, inizialmente scontroso. Diventerà cieco a seguito di un incidente. Mi piace ricordare questo personaggio, alla fine di questo percorso, perché rappresenta la perfetta sintesi di ciò che ci hanno insegnato gli autori e i personaggi considerati. Se un vecchio cieco analfabeta può guidare un giovane a trovare il proprio spazio nel mondo, chiunque può diventare per noi una guida, che ci indichi, senza imporli, una rotta da seguire in un mare che, alla fine, restituisce sempre qualcosa. E, quindi, un regalo inaspettato o un’inattesa eredità può arrivarci anche dall’amara confessione di Kafka, dallo sguardo, anch’esso cieco, di Pietro Rosi, dall’ironia bonaria di Zeno o dal sorriso con cui Saba riconosce se stesso negli occhi di suo padre.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti recenti

Colophon

Direttore

Romano Luperini

Redazione

Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato

Caporedattore

Roberto Contu

Editore

G.B. Palumbo Editore