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diretto da Romano Luperini

Tossico non è il canone letterario

Per una pura coincidenza, nei giorni in cui circolava l’articolo Storia tossica della letteratura italiana, che passa in rassegna il canone scolastico alla ricerca di stereotipi sessisti, nella mia terza affrontavo la petrosa di Dante Così nel mio parlar vogli’esser aspro. È una poesia per mezzo della quale metto a tema già da qualche anno alcuni aspetti della rappresentazione delle donne nella nostra tradizione letteraria. Forse un confronto tra il mio lavoro in classe e quell’articolo fornirà materiale per una non inutile riflessione su che cosa sia e non sia “tossico”.

Prendere le donne per i capelli

Questa canzone del ciclo delle cosiddette “petrose” è spesso antologizzata. In linea con i temi messi a fuoco dalla ricerca storico-letteraria, il commento scolastico si concentra tipicamente sulla peculiarità della protagonista femminile della poesia, ma soprattutto sul nesso tra l’asprezza dello stile e la durezza della donna, secondo il principio della corrispondenza tra forma e contenuto. Credo però che nella lettura di questo testo si possa spostare l’accento dell’interpretazione su elementi di solito lasciati in ombra.

Questa “petra” bellissima e crudele, irraggiungibile e impervia, saetta e ferisce ma non viene a propria volta raggiunta dai colpi, perché protetta dalla durezza di diaspro della propria refrattarietà sentimentale (strofe 1 e 2). Amore manduca (divora) il cuore dell’innamorato; successivamente, in figura di guerriero, schiaccia l’uomo sotto i propri piedi e lo minaccia di morte con una spada (strofe 3 e 4). Nelle ultime due strofe (5 e 6) questo trattamento spietato scatena una fantasticheria di vendetta maschile, mista a desiderio sessuale, di sconvolgente brutalità.

L’innamorato si augurai che la donna possa soffrire come lui, latrando all’inferno:ii è ovviamente un grido di dolore amoroso, ma è anche il verso di una «cagna in calore» (ad loc. nel commento di C. Giunta alle Rime, Mondadori, 2014). Egli avrebbe così l’occasione di correrne in soccorso (ma anche, con allusione sessuale, di «darle quello che, latrando, lei chiede»: Giunta) e lo farebbe volentieri, perché potrebbe in questo modo afferrare la chioma bionda e riccia della donna. Sappiamo quanto i capelli siano immagine ricorrente nella poesia amorosa medievale: tanto ricorrente e stemperata nel topos letterario, nella frusta parola di vocabolario, da oscurare il fatto umano che questa parte del corpo femminile potesse essere a quel tempo carica di significati tutt’altro che libreschi. In questo caso, se proviamo a figurarci l’immagine concretissima che Dante ci offre, vediamo un uomo preso, come detto, da un misto di desiderio sessuale e di volontà di punizione della donna, che sprofonda le mani in una massa di ricci biondi, non certo per accarezzarli dolcemente. Ma se non bastasse il testo per convincersi della violenza del gesto, potremmo cercare fuori di esso.

Nelle denunce per violenza sessuale del Basso Medioevo, l’immagine del violentatore che prende la donna per i capelli è ricorrente:

l’atto odioso di scoprire, scompigliare e tirare i capelli, di usarli per trascinare a terra una donna senza nemmeno toccarla oppure per trattenerla impedendole di reagire alle percosse, ricorre con frequenza nelle fonti, anche quando la violenza non è apertamente a sfondo sessuale. Taluni autori scrivono che l’antico divieto per le donne di tagliarsi i capelli trarrebbe motivazione dalla possibilità offerta ai mariti di afferrarle meglio. La presa per i capelli, inoltre, compare sia nella tradizione greca che in quella romana e gli studiosi vi identificano un gesto ritualizzato, a significare la “ri-presa di possesso” sulla donna da parte di un maschio che se ne sente legittimo proprietario. (G. Piccinni, Storie di corpi e di destini, in Violenza alle donne. Una prospettiva medievale, a cura di A. Esposito – F. Franceschi – G. Piccinni, 2018, p. 158).iii

Dante conclude la quinta strofa scrivendo e piacere’le allora, che si può intendere come “e allora sì che le piacerei”, nel senso che solo con quella presa di possesso violenta la donna che era di pietra finalmente ricambierà la passione. Si può però osservare che nel proprio commento De Robertis spiegava questo emistichio con un “le piacerebbe”, che ha un senso ancor più terribile: alla donna piace quel che l’innamorato vendicativo le sta facendo (cfr. Giunta, che però preferisce la prima ipotesi).

Nella strofa successiva l’immagine dei capelli afferrati dall’amante è ripresa, anche se stavolta li vediamo comparire nella forma di belle trecce, paragonate a una frusta che infligge una punizione: il poeta trattiene quelle trecce, cioè la donna, da terza fino ad oltre vespero e squille, ovvero per tutto il giorno. Anche in questo caso il sottinteso di tale possesso è violento, e se non ne fossimo ancora persuasi, il poeta aggiunge che non sarebbe pietoso né cortese (rovesciamento dei valori della fin’amor) e farebbe com’orso quando scherza, ovvero giocherebbe con amabilità apparente, pronta però a mostrare la propria natura aggressiva. Se poi Amore continuerà a frustarlo con quelle trecce, lui renderà il colpo mille a uno.

Direi che ce n’è abbastanza per far impallidire l’indignazione delle autrici dell’articolo, Lorenza Pieri e Michela Volante, che relativamente all’opera di Dante si esercita su qualcosa di assai meno perturbante: la condanna all’inferno di Francesca colpevole di tradimento (per la verità di lussuria: colpevole di tradimento è semmai il marito omicida, Gianciotto, che infatti è destinato alla Caina). Qui abbiamo, se non proprio uno stupro, qualcosa che rientra a pieno diritto nella “cultura dello stupro”, con alcuni suoi addentellati: è la donna che, con la sua seducente ma indisponibile bellezza, ha provocato nell’uomo la reazione violenta (si ricordi, però, fantasticata); per di più reazione gradita alla donna, secondo una topica proiezione maschile.

La donna: «angelo puro o subdola tentatrice»

Certo una lettura in cui gli accenti cadano dove li ho appena messi potrà risultare spiazzante al primo impatto, ma credo che questo dimostri soltanto il fatto che il nostro occhio non è mai vergine di fronte a un testo: vediamo quello che siamo stati abituati a vedere dalla tradizione interpretativa. La descrizione di questa violenza sta nel testo e può essere messa a fuoco con le giuste lenti.

Si capisce che presentare questo contenuto a ragazzi e ragazze di 16-17 anni farà impallidire le questioni relative all’aspetto stilistico aspro e sperimentale, orientando la loro curiosità verso la natura di questo amore così feroce e di questa donna così sfuggente. Questa curiosità suggerisce nuove domande di senso da porre ai testi letterari: domande più che legittime, rispondendo alle quali, tra l’altro, ci si garantisce una immediata moltiplicazione dell’interesse, che spinge ad affrontare la fatica della comprensione letterale e della parafrasi con maggior lena.

Ma il problema è che tentare una risposta a queste domande significa inoltrarsi in un territorio in larga parte inesplorato: la critica e la storiografia letteraria non ci soccorrono più, o ci soccorrono molto poco. Ecco perché avverto le classi che dovremo accontentarci più di suggestioni e analogie che di una conoscenza accertata. Bisogna aver pazienza: non è detto che gli studi letterari prima o poi non si interessino anche a queste nostre domande e diano risposte più circostanziate. Per intanto, proveremo a lavorare con quel che abbiamo.

I documenti medievali sui casi di violenza che ho richiamato sopra potrebbero essere una prima pista da seguire. Badando a non cadere nell’uso del testo letterario come semplice rispecchiamento della società, tale conoscenza mi pare arricchire la comprensione del testo, perché evoca alle sue spalle la vita di uomini e donne di quel tempo, con i loro valori e disvalori. Naturalmente lo scopo di tale lettura della petrosa di Dante non sarà il mero rilievo sociologico – a quel punto meglio sarebbe lasciar da parte la poesia medievale e studiare la violenza di genere su un testo contemporaneo – né tanto meno psicologico: l’apparato retorico di questa canzone è lontano dal nostro gusto moderno, perché non intende rappresentare una situazione verosimile o realistica, ma dare equivalenti allegorici e drammatizzati della sofferenza d’amore,iv attraverso un linguaggio omologo al referente, aspro quello, duro questo (a dimostrazione del fatto che della questione tradizionale dello stile delle petrose non dovremo fare a meno).

Ma, per venire al problema degli stereotipi sollevato dall’articolo su «Il Post», anche io suggerisco di leggere l’opposizione tra la donna angelo/Beatrice e la donna petra come un capitolo della più generale opposizione, per usare le parole delle autrici, tra «l’angelo puro e la subdola tentatrice».

La “subdola tentatrice” è una donna indipendente e dotata di forza magnetica. È lei a tessere le fila del gioco di seduzione, sottraendosi alla presa maschile solo per rafforzare la propria. L’uomo si strugge, cade nella rete, è preso. Questo ritrovarsi nel ruolo del burattino o del rifiutato da parte di chi è abituato al ruolo attivo, produce uno stato di prostrazione e reazioni violente, con le quali l’uomo cerca di “ri-prendere il possesso”, prima ancora che della donna, di se stesso.

La donna petra apparterrebbe a questo secondo tipo, che ha d’altra parte una ricchissima (e interessantissima) tradizione, soprattutto nella letteratura moderna: la protagonista femminile di un racconto di Hermann Hesse, Hans Amstein, che leggo in prima (protagonista il cui nome è non casualmente Salomé), la femme fatale, la prostituta, la belle dame sans merci, la strega, le vampire di Dracula, la protagonista femminile di Quell’oscuro oggetto del desiderio di Luis Buñuel, Lilith, … Naturalmente se si volesse affrontare in classe questo tema letterario (e dell’immaginario) ci vorrebbe tempo e ci vorrebbero letture sistematiche da parte mia, per andare oltre questo generalissimo elenco.

Perciò mi limito a evocare quella tradizione, concentrandomi sulla figura forse più interessante, quella Lilith dalla notevolissima stratificazione di significati, che è entrata ampiamente anche nella cultura di massa (film e videogiochi) e della cui natura ribelle si danno anche interpretazioni positive, come manifestazione di autonomia. In questo contesto accenno anche alla figura di Medusa, donna che non a caso pietrifica gli uomini incontrandone lo sguardo (sarà del tutto non pertinente vedere, non dico un rimando ad essa, ma almeno la possibilità di un “collegamento” nei versi 14-15 di Così nel mio parlar, dove, nel corso di un vero e proprio scontro armato tra la donna e l’innamorato, questi non trova riparo dallo sguardo femminile, che tutto lascia intendere sia capace di uccidere?).

L’improvvisazione confusa del discorso culturale pubblico

C’è una certa differenza tra il porre domande nuove ai testi, muovendosi con tutte le cautele del caso, e andare alla caccia di stereotipi in una rassegna superficiale. Non torno sui grotteschi errori di fatto dell’articolo di Pieri e Volante, né sulla scarsa chiarezza dei loro obiettivi, perché l’ha già fatto benissimo Galatea Vaglio. Vorrei piuttosto mettere in guardia dai danni che articoli come questo fanno non solo allo studio della letteratura, ma anche alla possibilità di affrontare con la dovuta serietà le tematiche di genere e le discussioni sul canone. Sono convinto infatti che altri ce ne saranno in futuro, perché questo tipo di interventi risponde a una logica culturale del nostro tempo che è sistemica, non episodica.

Il (faticoso) processo storico del mutamento delle tradizioni ermeneutiche non può essere surrogato e abbreviato da nessun banalizzato engagement. Non si cambiano da un giorno all’altro le interpretazioni (dei testi, ma anche del mondo), perché esse sono profondamente radicate nei testi stessi, dal momento che ne rappresentano la porta d’accesso, la forma stratificata nel tempo che questi hanno assunto generazione di lettori dopo generazione di lettori, diventando sempre e di nuovo comprensibili e appropriabili. Una lettura nuova di un testo è una vera lettura se rispetta questa profonda dinamica storica, che trascende le nostre stesse intenzioni individuali. Una lettura è vera e tanto più convincente quanta più storia passata è in grado di rielaborare. Una lettura convincente si stabilizza, cambia la percezione dell’opera, modifica il canone.

Al contrario il gesto critico di Pieri e Volante assomiglia a una svagata delibazione soggettiva, senza alcuna responsabilità verso il testo e verso le tradizioni interpretative: è un portare alla bocca questo o quello stuzzichino, per poi immediatamente sputarlo, avendo constatato che è intriso del marcio di un gusto che oggi appare ripugnante. Non è, in altre parole, un gesto critico, ma il gesto egocentrico di un rapporto falsato con l’alterità storica di uomini e donne del passato, con cui cessiamo di dialogare per ergerci a loro giudici.

Ma è il regime discorsivo stesso nel quale viviamo e comunichiamo che invita a interventi di questo tipo. Essi non sono né specialistici (lo specialismo è poco comprensibile e tedioso), né assimilabili alle forme di intervento dell’intellettuale generalista novecentesco (che presuppongono una società letteraria che non esiste più o che è diluita nella società liquida); sono costruiti intorno a categorie interpretative semplici e di facile presa (ad esempio, “sessismo” è concetto serio e seriamente forgiato, ma in questo regime comunicativo esso diventa poco più che un’etichetta giornalistica, semanticamente vaga e fatta apposta per veicolare messaggi che richiedono uno sforzo minimo di decodifica); sono sempre giocati sul filo dell’ambiguità di un’enunciazione leggera e ironica, così che ogni affermazione impegnativa potrà essere revocata in dubbio, attribuendo l’incomprensione alla trombonaggine, malafede, analfabetismo funzionale di chi critica il nostro intervento. Sono dinamiche che chi sta sui social ormai conosce a menadito: e sono dinamiche, queste sì, “tossiche”, che stanno tarlando lentamente lo spazio dell’opinione pubblica che ha caratterizzato tutta la modernità e che si va sfarinando sotto i nostri occhi. Viviamo immersi in un continuum comunicativo privo di livelli, gerarchie, contesti, in cui tutto diventa opaco, anche ciò che è serio e articolato: figurarsi ciò che nasce già confuso.

i È bene precisare che quanto riportato di qui in poi è espresso nella forma dell’augurio, dell’ipotesi, e non dell’azione direttamente rappresentata; si potrebbe dire, osando una definizione più psicologica, nella forma della fantasticheria febbrile: Così vedessi io fender per mezzo, v. 53, e S’io avessi le belle trecce prese, v. 66.

ii «Nel caldo borro»: nel caldo fossato. Se intesa in senso esclusivamente metaforico, è un’immagine che evoca lo sprofondare nella passione amorosa, di cui il fuoco/calore è secolare correlato. Ma la concretezza delle immagini di questa poesia non impedisce di intendere il borro come il fossato infernale: «le paludi infernali descritte nella Commedia» e, ancor prima, «lo “stagno di fuoco e di zolfo” nel quale dopo il giudizio finale saranno gettati i dannati», secondo l’Apocalisse: Giunta. L’innamorato, insomma, soffre “un inferno”.

iii Devo la segnalazione di questo saggio alla mia compagna.

iv Giunta parla di una «tendenza così tipicamente stilnovistica – e così estranea alla sensibilità lirica moderna – a sceneggiare i sentimenti».

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