Il romanzo neomodernista italiano di Tiziano Toracca
Pubblichiamo l’introduzione del volume di Tiziano Toracca, Il romanzo neomodernista italiano (Palumbo, 2022), edito nella collana S-nodi a cura di Massimiliano Tortora. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.
Questo libro muove dall’idea che il modernismo non tramonti alle soglie degli anni Trenta, Quaranta o Cinquanta del Novecento (quando si consuma il ritorno al realismo, quando scoppia la Seconda guerra mondiale o quando prende avvio l’età postmoderna), ma persista nella seconda metà del XX secolo. Il suo obiettivo principale è mostrare come una serie di romanzi italiani elaborati e pubblicati (salvo eccezioni come quella di Petrolio) fra la seconda metà degli anni Cinquanta e la seconda metà degli anni Settanta recuperino e ricalibrino il modernismo stabilendo una sua persistenza specifica, la quale si produce e vive in parziale concomitanza e in sostanziale contrapposizione alla neoavanguardia (che nasce nella seconda metà degli anni Cinquanta e tende a esaurirsi alla fine degli anni Sessanta) e al postmodernismo (che prende avvio a metà degli anni Sessanta, scavalcando di fatto la neoavanguardia, e guadagna l’egemonia sul campo negli anni Ottanta).
Nel secondo Novecento il modernismo è già tradizione e repertorio – come dimostra bene la neoavanguardia, ma non solo – e un suo recupero più o meno esplicito e più o meno consapevole è nelle cose; del resto, già la stagione del “nuovo realismo” che si apre a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta è influenzata dall’età delle avanguardie e del modernismo e tende in molti casi ad assimilarne e a prolungarne la lezione e l’eredità. La categoria di neomodernismo italiano non mira però a rilevare questa ripresa generica di forme, temi o tecniche sperimentali primonovecentesche, ma vuole indicare una riemersione del modernismo – circoscritta all’Italia, al romanzo e a un quarto di secolo – contrassegnata da una somiglianza e insieme da una differenza notevoli rispetto alla narrativa modernista. Il prefisso ‘neo’ non vuole avere solo un significato storiografico, periodizzante, ma rimanda anche a un significato interpretativo utile a esprimere una continuità e insieme una discontinuità forti rispetto al modernismo e utile a distinguere il romanzo neomodernista da inevitabili ma generiche persistenze del modernismo, dall’antiromanzo della neoavanguardia, dai primi romanzi postmodernisti italiani e da quelle opere, per rifarmi a Casadei, che tendono a conservare piuttosto che a rinnovare la tradizione. Quella di neomodernismo è insomma una categoria che rimonta al modernismo, ma che è anche autonoma e distinta. I romanzi neomodernisti si rifanno al modernismo e nello stesso tempo ne prendono le distanze e lo aggiornano (da qui lo scarto con delle generiche persistenze) e tendono a contrapporsi alla neoavanguardia e al postmodernismo andando a occupare uno spazio autonomo e alternativo all’interno del campo letterario italiano nel periodo che va dal tramonto del neorealismo alla seconda metà degli anni Settanta.
Gli aspetti salienti della categoria di neomodernismo italiano qui proposta, le ragioni della sua continuità e della sua discontinuità rispetto alla tradizione modernista e la sua periodizzazione sono al centro del secondo capitolo della prima parte, il quale rappresenta idealmente il centro dell’intero volume. La continuità tra modernismo e neomodernismo si deve anzitutto, in estrema sintesi, a una somiglianza di carattere strutturale: i romanzi neomodernisti assomigliano a quelli modernisti perché sono a loro volta centrati sull’io e sulla forma (sono questi i due macrofenomeni ai quali possono ricondursi le principali innovazioni del romanzo modernista). Il loro sperimentalismo, in altre parole, si comprende nuovamente a partire dalla rilevanza accordata alla prospettiva soggettiva del racconto (cioè al filtro della coscienza e al profilarsi di quello che Jean-Michel Rabaté ha definito «un nuovo tipo di soggettività») e al peso che assume la forma (la categoria «par excellence» del modernismo secondo Peter Bürger), la quale tende appunto a ispessirsi e a opacizzarsi cioè a mostrarsi anziché mostrare. Nei romanzi neomodernisti s’incontrano nuovamente, a seconda dei casi, antieroi scissi e irregolari, voci narranti deboli e inattendibili oppure forti e depositarie di riflessioni decisive, intrecci disarticolati ed ellittici. La prospettiva soggettiva del racconto e l’opacità formale influenzano nuovamente le strutture portanti del testo (personaggi, narratori e intrecci) all’insegna di una visione del mondo antigerarchica e straniante e nutrono lo stesso bisogno da cui nasce lo sperimentalismo modernista, vale a dire, secondo l’efficace sintesi di Tortora, descrivere fedelmente il mondo (dire la verità) nella consapevolezza che questo obiettivo non sarà mai pienamente raggiunto. È questa dialettica tra perdita e ricerca di senso (la formula è di Donnarumma) a transitare nel romanzo neomodernista stabilendo una continuità forte e non di maniera rispetto al passato. La discontinuità tra modernismo e neomodernismo consiste invece nell’importanza inedita che viene adesso riservata alla sfera pubblica dell’esistenza, vale a dire a quell’insieme di problemi o avvenimenti che più o meno direttamente e più o meno consapevolmente riguardano tutti gli individui in quanto membri di una collettività: eventi storici, trasformazioni sociali, questioni etiche e politiche, diagnosi del tempo, critica del costume. Il problema della verità e dell’inintelligibilità del mondo emerso col modernismo si sposta adesso più esplicita su un piano storico e la dialettica propria del modernismo si relativizza e si immanentizza provocando uno scarto rispetto al tipo di rappresentazione offerta dal romanzo modernista. La crisi del rapporto tra l’io e il mondo si riversa più nitidamente sulla storia, sulla sua intelligibilità e sulla capacità di registrarne i mutamenti, ovvero sul rapporto tra l’io e gli eventi collettivi. L’importanza che nel romanzo neomodernista assume la sfera pubblica dell’esistenza si condensa, in estrema sintesi, nel passaggio da una narrazione in soggettiva e opaca (modernismo) a una narrazione in cui la prospettiva soggettiva del racconto e l’investimento sulla forma sono molto più condizionati da fenomeni storici, sociali e politici (neomodernismo). I romanzi qui interpretati in chiave neomodernista ruotano in maniera esplicita o allegorica attorno alla dittatura fascista, alla Seconda guerra mondiale, alla Resistenza e al Risorgimento (D’Arrigo, Consolo, ma si dovrebbe pensare anche a Tomasi di Lampedusa, al Fenoglio postumo e al primo Tabucchi), rappresentano tensioni politiche della neonata Repubblica Italiana se non veri e propri eventi politici considerati decisivi di un determinato momento storico (come avviene in Calvino, ma anche in Arpino, rispetto alle legge truffa del marzo 1953), raffigurano gli effetti del boom economico e della diffusione del benessere, dell’industrializzazione e del neocapitalismo (Testori, Bianciardi, Roversi, Mastronardi, Volponi, Parise), oppure, come avviene in Pasolini, denunciano l’omologazione consumistica e il nuovo fascismo, la strategia della tensione e le stragi di Stato.
Rilevare una simile “torsione” non significa negare che vi sia un legame effettivo o più spesso simbolico tra il modernismo e la storia – basterebbe anche solo pensare alla congiunzione fra modernismo, razionalizzazione capitalistica e reificazione registrata da Jameson – ma significa enfatizzare una volontà di confrontarsi con la storia che, salvo eccezioni, è sconosciuta al modernismo. Non si possono del resto tacere o sottovalutare le «insofferenze antimoderniste» (Cianci) e le accuse di apoliticità sollevate da più parti contro i modernisti – da Edmund Wilson negli anni Trenta fino a Lukács negli anni Cinquanta – né quanto tende a verificarsi in buona parte della narrativa modernista, vale a dire una compressione della storia (per rifarmi a Jameson) e uno spostamento di interesse dal campo della vita pubblica al campo della vita privata (per rifarmi a Moretti). L’evoluzione della categoria di Late Modernism, nata come una categoria ponte tra modernismo e postmodernismo, è andata almeno in parte, non a caso, in questa direzione: come ha efficacemente sintetizzato Thomas Davis, molti interpreti – da Tyrus Miller a Jed Esty, da Marina MacKay a Robert Genter – hanno infatti a più riprese rivendicato al tardo modernismo una maggiore attenzione alle «pressioni della storia» in rapporto contrastivo rispetto al modernismo storico.
La mia tesi di fondo (perché di questo si tratta) riprende almeno in parte un’idea espressa da Gian Carlo Ferretti nei primi anni Settanta a proposito del primo Pasolini, del primo Volponi, di Roversi e più in generale del programma e degli obiettivi di «Officina». Il romanzo neomodernista rappresenta in effetti una “terza via” rispetto a quel binomio «riduttivo» fra tradizione e avanguardia promosso strategicamente dalla neoavanguardia e si configura in buona sostanza come un’alternativa e in seguito – quando toccherà i suoi vertici, cioè negli anni Settanta – come una risposta alla crisi del romanzo e all’antinovella della neoavanguardia e più in generale alla crisi che investe le poetiche tardo moderne tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta. Non credo che questa opzione si manifesti nei romanzi romani di Pasolini (sì, invece, nel primo Volponi, in Roversi e in altrettanti autori, nonché nel secondo Pasolini) e non credo che questo “filone di indagine” si esaurisca subito o sia minoritario, per quantità e qualità, rispetto alle prove della neoavanguardia o agli esordi del postmodernismo italiano. Rispetto a Ferretti e in senso decisivo, penso inoltre che questa opzione alternativa rispetto all’antitesi secca e fuorviante fra tradizione e avanguardia sia per l’appunto contrassegnata da una ripresa del modernismo e che sia precisamente una simile ripresa a permetterci di rintracciare “un’aria di famiglia” neomodernista tra alcune opere sperimentali del secondo Novecento e a permetterci di cogliere la più profonda differenza tra questa “corrente” del romanzo italiano da un lato, e la neoavanguardia e il postmodernismo dall’altro lato. In estrema sintesi: mentre il neomodernismo (come già il modernismo) prolunga il realismo moderno – cioè, per dirla con Auerbach, la «mimesi seria della vita quotidiana» – la neoavanguardia (come già l’avanguardia) e il postmodernismo tendono ad abbandonare e rifiutare quel progetto (sebbene, come dirò, da prospettive diverse e oserei dire opposte). La tenuta della forma-romanzo che caratterizza il romanzo neomodernista in antitesi alla neoavanguardia (l’antiromanzo) e al postmodernismo (l’autoreferenzialità e l’esilio della letteratura) consiste insomma in una fedeltà estrema e problematica al realismo moderno e promuove a sua volta, per rifarmi a Castellana, una forma di «realismo modernista».
La scelta di attrarre nell’orbita neomodernista una serie di romanzi solitamente considerati sperimentali non è priva di conseguenze (non è un qui pro quo) e aspira a fare emergere ciò che è spesso sedimentato o implicito nella categoria di sperimentalismo quando applicata a questi romanzi, cioè lo sforzo tipicamente modernista di rappresentare al meglio una realtà percepita come complessa, sfuggente e spesso traumatica nella consapevolezza dell’inadeguatezza dei mezzi espressivi. Lo sperimentalismo neomodernista vive precisamente in funzione di questo sforzo e si configura pertanto come un progetto realistico di secondo grado analogo a quello perseguito dai narratori modernisti. Non di rado le interpretazioni offerte dalla critica rispetto ad alcuni romanzi qui presi in esame – è il caso per fare degli esempi della Giornata d’uno scrutatore di Calvino, della Vita agra di Bianciardi, di Registrazione di eventi di Roversi o di Horcynus Orca di D’Arrigo – tendono a mettere in rilievo le differenze con la neoavanguardia e a far leva su categorie e formule (antinaturalismo, soggettivismo, realismo visionario), modelli (si pensi a Kafka nel caso del Padrone di Parise) o caratteristiche formali e tematiche (mimesi della vita psichica, autoriflessività, straniamento, rottura della linearità narrativa, tensione fra “dentro” e “fuori”, scarto tra intenzione e azione) che rimontano al modernismo e che intercettano, se messe a confronto, un’intenzione di senso familiare e condivisa che resta tuttavia implicita o inespressa. Da questo punto di vista il mio tentativo è consistito nel mostrare come alcune analisi critiche abbiano già rilevato, in maniera talvolta inequivocabile, la presenza delle caratteristiche proprie della narrativa modernista e come si siano basate più o meno direttamente e più o meno consapevolmente su alcune “parole d’ordine” emerse nel più recente dibattito nazionale e internazionale sul modernismo. Per alcuni romanzi, del resto, penso a quelli di Volponi o al Sorriso di Consolo, una lettura in chiave modernista è già stata offerta dai loro maggiori esegeti (Zinato e Turchetta); per altri (è il caso di Petrolio, ma anche dei gialli stravolti di Sciascia) è stata avanzata e assunta problematicamente alla luce del rapporto tutt’altro che pacifico che queste opere intrattengono con temi, forme e topoi postmodernisti.
Questo libro è diviso in tre parti. La prima parte si intitola La riemersione del modernismo e comprende tre capitoli dedicati rispettivamente alla storicizzazione del modernismo, alla categoria di neomodernismo italiano e ai rapporti e ai confini tra il neomodernismo, la neoavanguardia, il postmodernismo e le persistenze del modernismo. Nel primo capitolo rifletto anzitutto sulla concomitanza fra la storicizzazione del modernismo (che prende sostanzialmente avvio tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta in seguito alla pubblicazione di una serie di studi decisivi) e la svolta postmoderna. Oltre a rappresentare, come vogliono alcuni interpreti, il confine estremo del modernismo storico (che tramonterebbe dunque, al più tardi, negli anni Cinquanta), la svolta postmoderna ha infatti profondamente influenzato l’interpretazione del modernismo nel momento della sua storicizzazione (lo ha mostrato anzitutto Somigli) e ha in qualche modo determinato la nascita della categoria di Late Modernism, la quale viene infatti teorizzata già negli anni Sessanta con l’obiettivo, come ha osservato tra i primi Jameson, di creare una categoria cuscinetto tra modernismo e postmodernismo. Riflettendo sulla “caricatura” che è implicita nello schema tracciato da Ihab Hassan e Leslie Fiedler nella postfazione alla seconda edizione di The Dismemberment of Orpheus (1982) e rifacendomi anzitutto a Auerbach (l’antinomia del modernismo) e a Debenedetti (l’epica della realtà e l’epica dell’esistenza), in questo primo capitolo anticipo una delle idee-guida del libro: l’idea, come dicevo sopra, che a fondare la contrapposizione tra il modernismo e il neomodernismo da un lato, l’avanguardia, la neoavanguardia e il postmodernismo dall’altro lato, sia il profondo legame che solo i primi nutrono nei confronti del realismo moderno (questione su cui torno distesamente nel terzo capitolo della prima parte). In seguito, analizzando quella che gran parte degli interpreti considera la prima grande cesura del modernismo storico (la “riconversione neorealista” che si consuma negli anni Trenta, nel momento in cui si diffondono scritture meno sperimentali e più politicamente orientate) e cercando di mostrare la problematicità di una simile cesura – vale a dire la problematicità di un presunto avvicendamento tra modernismo e realismo – ripercorro il dibattito sul modernismo italiano: un dibattito che, fatti salvi alcuni importanti studi pubblicati tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, ha preso sostanzialmente avvio negli anni Zero ed è “esploso” nei primi anni Dieci in seguito a una serie di influenti studi che permettono di considerare ormai definitivamente acquisita alla storiografia letteraria italiana la categoria di modernismo.
L’ipotesi maggioritaria emersa dal conflitto delle interpretazioni tende a considerare il modernismo italiano un fenomeno primonovecentesco il cui baricentro andrebbe collocato, è la sintesi di Bertoni, tra Il fu Mattia Pascal di Pirandello (1904) e Gli indifferenti di Moravia (1929). Quest’ultimo romanzo, come ha osservato a più riprese Tortora, darebbe infatti avvio a una nuova stagione, più realistica, capace di assorbire la rottura modernista in forme più tradizionali. Una simile periodizzazione (che al netto delle varianti è sostanzialmente restrittiva) è stata messa in discussione sia nel suo termine a quo, in particolare e ripetutamente da Pellini e Ganeri, sia, variamente, nel suo termine ad quem. Nelle pagine che seguono cerco per l’appunto di ricostruire le ipotesi in campo (soprattutto quelle relative al tramonto del modernismo), concentrandomi in particolare su tre elementi: sulla problematicità, come dicevo sopra, di una periodizzazione restrittiva del modernismo storico alla luce, ad esempio, dei romanzi di Bernari, Dèttore e Gadda e alla luce di alcuni elementi propri del contesto italiano; sul fatto che uno dei principali sostenitori della continuità fra il romanzo di Tozzi, Pirandello, Svevo e Borgese e quello di Moravia, Vittorini e Pavese (ma non solo) è stato Debenedetti; sull’idea di una riemersione del modernismo nel secondo Novecento così come avanzata da Luperini e Donnarumma e più di recente, in rapporto a Sciascia, da Moliterni.
Nel secondo capitolo della prima parte, come dicevo sopra, inquadro la categoria di neomodernismo e approfondisco le ragioni della sua continuità e della sua discontinuità rispetto al modernismo dando rilievo a ciò che condividono a monte della loro somiglianza formale, cioè una poetica della mediazione. Lo faccio alla luce dell’inevitabile e complesso rapporto che il modernismo e l’avanguardia nutrono nei confronti della modernità intesa come choc e crisi (ovvero alla luce di quella che Tortora ha recentemente chiamato “condizione modernista”), con l’obiettivo di distinguere la risposta che il modernismo (e il neomodernismo) e l’avanguardia (e la neoavanguardia) danno al caos del mondo, respingendo dunque l’idea che il modernismo sia interpretabile come una categoria storiografica estesa (come un sinonimo di “modernità letteraria”) articolata al suo interno da una varietà di sperimentalismi rispondenti ai problemi sollevati dalle “condizioni” della modernità; idea, come ha mostrato Somigli, che emergeva già in maniera ambivalente nel celebre volume curato da Bradbury e McFarlane a metà degli anni Settanta (Modernism, 1976) e che è oggi prevalente nel dibattito internazionale. Di seguito affronto il problema della periodizzazione del neomodernismo italiano attribuendo al 1954 e al 1979 la funzione di soglie simboliche o, meglio ancora, di intorni matematici. La periodizzazione che propongo si basa su considerazioni e su “frontiere” generalmente condivise in sede critica: il neomodernismo emerge a metà degli anni Cinquanta, quando ha inizio l’età postmoderna (è la tesi prevalente), quando tramonta il neorealismo (allora già in crisi) e quando prende avvio una nuova stagione sperimentale (intorno al 1954, l’anno di uscita del Dio di Roserio di Testori e l’anno di nascita della televisione, il campo letterario italiano subisce una mutazione profonda), e tende a scemare nella seconda metà degli anni Settanta (nel 1979 esce Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino), cioè alle soglie della «nuova stagione» (Benvenuti), della «frattura» (Donnarumma) o del «nuovo orizzonte» (Tomasi) segnati dagli anni Ottanta, quando si assiste, per rifarmi ancora a Casadei, alla «pienezza del postmodernismo». Come tutte le periodizzazioni, anche questa sconta il problema delle transizioni, ma credo ci siano buone ragioni (la fine del neorealismo, il 1956, l’avvio del boom economico) per retrodatare alla seconda metà degli anni Cinquanta l’inizio di quella stagione neosperimentale che esploderà solo nei primi anni Sessanta con la nascita del Gruppo 63 e con la pubblicazione di una serie considerevole di opere di ricerca e penso ci siano altrettante buone ragioni per non estendere la traiettoria del neomodernismo al di là degli anni Settanta. L’emersione del neomodernismo e il suo stesso significato (da cui la pregnanza del prefisso ‘neo’) si legano infatti a un contesto storico e culturale in cui si produce un «cambiamento epocale» (è la svolta postmoderna descritta da Ceserani) e in cui si afferma una «situazione di modernizzazione incompiuta» e di «doppia temporalità in conflitto» analoga a quella descritta da Jameson a proposito del contesto di emersione del modernismo. Mazzacurati non aveva torto a sostenere che il «ritorno» del «campo sperimentale» nel secondo Novecento, tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, non è determinato da una sola ragione storiografica, e tuttavia una simile riapertura si comprende meglio alla luce della rapida trasformazione del modo di vivere che si consuma in quei decenni e alla luce della diffusa percezione di uno scollamento fra i tradizionali codici espressivi e i nuovi referenti di realtà. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, la torsione che caratterizza il neomodernismo italiano e che ricalibra la poetica modernista, cioè l’attenzione alla sfera pubblica dell’esistenza, diventa problematica. Non è casuale che i principali romanzi neomodernisti che escono negli anni Ottanta, Aracoeli di Morante (1982) e Le mosche del capitale di Volponi (1989), si leghino per più di una ragione al decennio precedente (a partire dalla loro elaborazione) e tematizzino una mutazione già avvenuta e persino, alla loro uscita, inattuale. In questa prospettiva, le successive ed eventuali persistenze e declinazioni del modernismo o del neomodernismo nel romanzo italiano contemporaneo (dagli anni Ottanta e Novanta a oggi) esulano da questo lavoro perché aprono un altro capitolo di storia letteraria e chiedono di essere verificate e pensate altrimenti, alla luce di un contesto storico e culturale profondamente mutato, nel quale il rapporto tra la sfera privata e la sfera pubblica della vita si articola diversamente rispetto al passato (è quello che ha fatto, ad esempio, Donnarumma, parlando di ipermodernità e di ipermodernismo).
Nel terzo e ultimo capitolo della prima parte mi occupo dei reciproci rapporti tra neomodernismo, neoavanguardia e postmodernismo, valuto le eventuali sovrapposizioni tra neoavanguardia e neomodernismo (Balestrini e Leonetti) e cerco di chiarire perché ha senso parlare di persistenze del modernismo e non di neomodernismo per alcune opere sperimentali (di Pizzuto, ma non solo) e perché Il male oscuro di Berto rappresenti uno dei casi più problematici di persistenza del modernismo.
La seconda parte di questo libro, intitolata Tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, e la sua terza parte, intitolata I vertici neomodernisti degli anni Settanta, sono articolate in cinque capitoli ciascuna e sono dedicate all’analisi dei romanzi che propongo di interpretare in chiave neomodernista. Dopo aver dato brevemente conto di alcuni casi che mi paiono problematici perché vivono al confine fra «tradizione conservata» (è una definizione di Casadei) e neomodernismo (la “tri logia della modernità” di Calvino, i due romanzi politici di Arpino, Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa), nella seconda parte di questo volume mi occupo del Dio di Roserio di Testori (1954) e della Giornata di uno scrutatore (1963) di Calvino; della Vita agra (1962) di Bianciardi e di Registrazione di eventi (1964) di Roversi; della trilogia di Vigevano di Mastronardi (1959-1964); del primo Volponi, cioè di Memoriale (1962) e della Macchina mondiale (1964); del Padrone (1965) di Parise. Sebbene escluso da questa ricognizione (in vista di ulteriori riflessioni), credo che anche il Partigiano Johnny (1968, postumo) di Fenoglio si presti a una lettura in chiave neomodernista. La tensione epica che innalza e nobilita il valore della lotta collettiva (la Resistenza) viene infatti problematizzata e resa incerta dalla continua soggettivazione degli eventi narrati da parte dell’eroe protagonista e il senso della lotta – per quanto necessario e sacrosanto e perciò sorretto dal “grande stile” (Beccaria), cioè da un linguaggio universalizzante – non è garantito e riscattato dall’impresa dell’io protagonista (non si trasfigura cioè in un destino), ma resta incerto e problematico.
Se la scelta di occuparmi di opere e non di autori o autrici è dettata da ragioni di carattere metodologico (credo infatti che qualunque categoria creata a posteriori com’è il caso del modernismo o del neomodernismo non riguardi autori o autrici, se non eccezionalmente, ma opere), la scelta di tener distinta l’analisi dei romanzi pubblicati negli anni Cinquanta e Sessanta da quelli pubblicati negli anni Settanta (in un caso dello stesso autore, cioè Volponi) è dettata dalla loro netta differenza. I romanzi che esamino nella terza parte, cioè Corporale (1974) di Volponi, Horcynus Orca (1975) di D’Arrigo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) di Consolo e Petrolio (1992, postumo) di Pasolini, portano infatti alle estreme conseguenze le potenzialità dello sperimentalismo che erano emerse negli anni Cinquanta e Sessanta e rappresentano i vertici del neomodernismo italiano, ora perché estremizzano il peso dell’io, cioè il mimetismo psichico (è il caso di Corporale e Horcynus Orca), ora perché estremizzano il peso della forma, cioè l’opacità dei codici (è il caso del Sorriso e di Petrolio). Le ragioni che spingono questi autori a un simile grado di investimento formale vengono chiarite nel primo capitolo della terza parte, il quale funziona a tutti gli effetti come un’introduzione rispetto alla scelta di tenere distinti questi “vertici” dai casi precedenti esaminati.
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