Perché leggere Ronda dei conversi di Eugenio De Signoribus
Nel passaggio del millennio
approssimandosi il 2, un ancora incerto ricognitore
dall’alto mostra i resti dei disgregati camminamenti….:
ne escono, liberati e storti, fitti ganci ferrosi,
alzate mani, uno stilizzato scheletrario senza crani
*
per tutto il tempo dell’1 sul calendario è segnato così:
piantati più semi di piombo che alberi, soppressi più
umani di quanti liberati….
tanti, sorgenti dal fango o
dalla sabbia, annunciano la resa appena aperti gli occhi:
viaggiano da un pozzo all’altro dentro le tracolle
materne….e in quei cullamenti è premiata la loro
nascita…poi, messi a terra, offrono a chi li guarda
le loro antiche pupille
*
ma chi più li guarda i trascurati quando è diverso
il peso dei vivi e dei morti? Quando la lingua s’infalsa
fino a truccare pubblicamente i tabulati?….
Nell’odierno imperio è stabilito che alla violazione di
un corpo di serie A subito si risponda con una vendetta
moltiplicata…. cioè che sia scorporata, sotto un corto
mantello, un’indefinita genìa di serie minore…
Dentro l’odierno imperio, si narri più forte, per carità,
un altro sentimento: quello che contiene ogni oscurata
vita. La spina su di essa inflitta percorra tutto il corpo e
trasveni il sangue per l’arido campo…
che almeno la morte non sia sola
e si tema la colpa più del lutto
chi potrò ringraziare d’essere giunto alla fine dell’1?….
c’è un elemento di fuoco prima di ogni coscienza, un
marchio indistinto e illeggibile…., la sua forma dolorosa
dal profondo dice: mi sentirai nell’ovatta e nel gelo, nel
clamore e nella polvere… andrai avanti per questo
*
dell’ignobile secolo dei secoli t’accompagna una bolla di
sgomento: tutte le magnificenti riedifiche avvengono
sopra sette strati di simboli e cadaveri…
i morti sono le fondamenta del tempo ventunesimo
dopo Cristo… e la soddisfazione dei rinnalzatori e
dei riabitatori non può essere pienamente sicura:
perché nessuna casa può più appartenere veramente
a qualcuno
Perché smentisce a fine millennio la condizione postmoderna
Il “2” di cui questo componimento percepisce l’imminente avvento è il Duemila. Quando il testo è stato scritto, a fine Novecento, il pensiero dominante aveva sancito che l’io e il mondo fossero solo orizzonti fittizi e linguistici. Questo diktat del simulacro ha occupato per due o tre decenni la scena culturale: o almeno quella che si è dotata di massima visibilità declinando i suoi post e supponendo di essere definitivamente oltre, in un gioco di annichilimento godibile. L’ombra lunga di questa tardiva apologia postmodernista è ancora rintracciabile oggi nell’euforia che Baricco riserva alla “democrazia” senza intermediari di Google (The Game) o nelle infatuazioni del ministero (ora del “merito”) e di troppi pedagogisti per le tecnologie didattiche.
Ma il gioco oggi è finito: la storia è ritornata a manifestarsi col suo volto di sempre: quello di un tritacarne. Non siamo oltre, siamo dentro, e fino al collo. Per la scrittura e per il pensiero, dopo l’epoca postcognitiva, ritorna ingombrante il problema della responsabilità. Ritorna con le epidemie, con la consunzione definitiva del Pianeta e con le guerre. E ritorna – l’aveva intuito oltre mezzo secolo fa Franz Fanon – con gli spostamenti biblici dei popoli migranti, coi fantasmi della paura e dell’odio razzista che si stagliano sempre più duramente sullo scenario globale.
Tra vecchio e nuovo millennio la poesia di Eugenio De Signoribus mostra di averne profonda coscienza tematica e formale: con dei versi tanto reticenti nell’esibizione dell’io quanto perentori nell’additare le forme attuali dell’orrore storico. Secondo Giorgio Agamben De Signoribus è “il più grande poeta civile della sua generazione”: la categoria di “poesia civile” è tuttavia sdrucciolevole e rischia di tradursi in volontarismo ideologico se non si pone il problema del riuso formale del tema (e della vita).
Inclusa in due importanti antologie di poeti fra i due secoli (E. Testa Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, 2005 e G. Alfano, A. Baldacci, C. Bello Minciacchi, A. Cortellessa, M. Manganelli, R. Scarpa, F. Zinelli, P. Zublena, Parola plurale, Sossella, Roma, 2005), la risoluzione formale del problema etico-politico in De Signoribus mostra oggi la sua rilevanza nel panorama poetico degli ultimi vent’anni. Nella sua poesia, la ricerca del confronto con l’altro diventa infatti vera e propria struttura formale. Già in Confidenze con l’estraneo, composta tra il 1995 e il 1998 e raccolta in Principio del giorno (Garzanti, 2000) il nucleo tematico “smentisce l’identità singola dell’uomo, smentisce l’appartenenza ad una casa (casa privata, casa nazione) e getta le basi per la riconoscibilità di una identità plurale e paritaria” (Simona Morando).
Le scelte di stile e di lingua di De Signoribus sono insomma quasi sempre all’altezza del tema: lo nota Paolo Zublena, autore della bandella di Principio del giorno: la speranza di “essere-con” fa da vettore una lingua rinnovata (neologismi, slittamenti di senso, giunture inedite) perché “lanciata a caccia di un nucleo di verità ancora oscuro”, una terra di nessuno, figura di “una rigenerazione della parola” (Rodolfo Zucco) attuabile solo in un “varco solidale”, necessario ma del tutto inesistente. Nell’io poetante dissolto sorge una nuova traccia di riconoscimento: quello dello straniero: a questo utopico attraversamento alludono tutte le principali metafore cognitive di De Signoribus: gli istmi e le dune, il punto di raduno dei non ancora devastati, il luogo di chiara sosta, il fine degno, la luce o l’utopia albale, inerme.
Perché cerca un “varco solidale”
Ronda dei conversi (Garzanti, 2005 poi in Poesie 1976-2007, Garzanti, 2008) alza il tiro testimoniale, rinviando fin dal titolo a una mobilità vigile e a un patto comunitario. La raccolta si compone di nove sezioni il cui centro è dato dalla sezione V, Stazioni nella vita di una ronda, e dalla sezione VI, un dialogo tra A e B. Entrambe le sezioni centrali sono atipiche sul piano delle forme e dei generi: Stazioni è dato infatti in parte da “nonversi e quasiprose”, segno di un impegno cogitativo orizzontale e antilirico applicato a barlumi autobiografici (come Teatro spento, folgorante e impietosa rievocazione dei tic ideologici degli anni Settanta), mentre il genere dialogo è indizio di una più concreta plurivocità che, col suo insistito dantismo (“Mentre vai a quella sembianza, io, fermamente, ti / ascolto…e, senza fatica, ti vengo incontro…/”), propone un momento esemplare, anche se ancora marginale, di incontro-ascolto.
Fin dalla Premessa, la reticenza e l’inermità di De Signoribus si modificano per l’irruzione del “grido” o “bolla di sgomento”, segno di dolore e di testimonianza sacrificale: “affonda il grido che alzo”; “in offerta gorgoglio prima del boato” (p. 9). Tutti i neologismi di tipo dantesco ed espressionistico di Ronda dei conversi sono a ben guardare un’eco di quel primo grido, deformazione insistita, traccia di una partita mortale con un presente la cui rappresentazione è falsificata dai media: quello delle attuali guerre “ducesche” (“s’infalsa”, “ritarpato”, “trasveni”, “smante”, “sbruccioso”, “scheletrario”, “malume”, “gobbuti” , “rimbambino”, “incugnarsi”, “ammuschia”).
La prima sezione, Nel passaggio del millennio, narra, con la prosaicità dei nonversi, della chiusura dell’1 e dell’aprirsi del 2 “dentro l’odierno imperio” (p. 19) e porge al lettore la consapevolezza non solo che “la società delle azioni (obliqua definizione dell’occidente ad alta densità allegorica) genera continue spirali belliche, ma che la voce poetica può solo “figurare un’idea” di “attimi…al bene volgibili”. L’idea che muove la scrittura è insomma quella di “svuotare i nomi dei numi/ terreni” “nei tempi coloniali” (p. 109).
Perché costringe i versi al corpo a corpo con il mondo
Nel corpo centrale della raccolta, rastremato in scheletriche allegorie, il mondo entra con forza nei testi, il fuori dilaga materialmente nel dentro, proprio là dove si decretava fosse dissolto o virtuale: nel raffronto infraumano e nella temporalità della storia: A e B i soggetti dialoganti, 1 e 2 i millenni.
Il Congedo, infine, riprendendo l’illustre modulo del poeta che si spossessa della propria opera, ribadisce dialetticamente i limiti e, insieme, il valore della lingua poetica, “lingua di lunga scia”, “opera passiva” tra “la gente detta attiva” (p. 127).
Figurare attimi volgibili al bene, è oggi – in tutti i campi dell’esperienza umana –un’impresa agonistica e inattuale. La poesia di De Signoribus, tuttavia, trapassa i decenni del postmodernismo, è civile e corale, implica che all’io subentri il noi, come accade in una tradizione forte e minoritaria del nostro Novecento, da Rebora a Fortini a Volponi. Per essere meglio intesa forse esigerebbe una recita collettiva e orante: è preghiera laica che invoca una re-ligio, vale a dire un patto, una qualche nuova dimensione comunitaria, tanto assente quanto indispensabile alla stessa sopravvivenza del genere umano.
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