Che cos’è un libro? Sull’oblio della lettura nell’era digitale
Pubblichiamo un estratto di Che cos’è un libro? Sull’oblio della lettura nell’era digitale, di Anna Angelucci e Renata Puleo (Giovanni Fioriti Editore, 2021). Ringraziamo le autrici per averci concesso l’autorizzazione.
Da una situazione in cui nulla può accadere,
tutto di colpo torna possibile.
M. Fisher, Realismo capitalista
Negli ultimi vent’anni ci si è focalizzati su un unico oggetto tecnologico, sotto le diverse forme assunte dal personal computer, dai cellulari, dai tablet e da altri strumenti per navigare. Quest’unico oggetto tecnologico è stato investito in modo assoluto – nella doppia accezione della totalità con cui agisce e dell’esclusione di qualunque legame con i contesti in cui agisce – dalla qualifica di “innovazione”. Quel che possiamo oggi osservare sono i fenomeni di disfunzionalità linguistica, i deficit di attenzione e di concentrazione, la mancanza di sguardo “largo”, la smania di fotografare e fotografarsi ossessivamente, in una nuova gerarchizzazione dell’esperienza umana che la subordina alla sua rappresentazione immediata e compulsiva, lo scarso ricorso alla memoria a lungo termine, lo schermo utilizzato come protezione, come difesa dall’altro ma anche come mistificazione, aggressività, menzogna, fino alle manifestazioni patologiche, talora pericolosissime, del falso Sé.
Aspetti che colpiscono perché non ci vengono indicati solo dalle neuroscienze, che ci allertano sui danni addirittura organici dell’esperienza digitale immersiva sui cervelli plastici delle creature piccole, ma dal mondo degli artisti che lavorano sul corpo e sulla figura, sull’immagine evocativa e metaforica, rispetto alla fruizione adulta di cinema, teatro, pittura, fotografia.
Così Susan Greenfield, nel suo Mind Change. Cambiamento mentale. Come le tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta nel nostro cervello, a proposito dell’accusa di eccessivo allarmismo da parte di chi caldeggia le potenzialità del digitale:
“Che tipo di prova servirebbe per dimostrare, in tempi realistici e con la soddisfazione di chiunque, che la cultura dell’interazione con lo schermo stia arrecando cambiamenti a lungo termine su fenomeni diversi tra di loro, come empatia, consapevolezza, comprensione, identità?”[1].
Già, che tipo di prova serve?
Viviamo in un mondo caratterizzato da processi socio-economici globali, dall’accelerazione esponenziale di uno sviluppo tecnologico che, oltre a modificare condizioni, modi e strumenti di produzione e consumo, agisce collettivamente sulle strutture sociali e sui nostri abiti mentali, anche attraverso l’interiorizzazione di forme di manipolazione individuale sempre più insinuanti che producono l’elaborazione spontanea di condotte conformi al sistema[2].
Con i nuovi media digitali, così enormemente presenti nelle nostre vite, in cui la funzione creativa, riflessiva e immaginativa è schiacciata su quella comunicativa, ogni giorno circolano velocemente informazioni che superano vecchi perimetri e confini spazio-temporali.
In questa “modernità liquida”, secondo l’efficace definizione di Zygmunt Bauman, a dominare è la quantità. Qualità, profondità, attendibilità e veridicità di ciò che viene raccontato su quanto accade nel mondo non sono affatto garantite; piuttosto, andrebbero scrupolosamente cercate e indagate.
Il rischio è quello di essere sopraffatti da un profluvio crescente di informazioni in cui progressivamente sembra sfumare non solo la distinzione certa tra vero e falso, tra bugia e verità, tra ciò che accade realmente e ciò che viene comunicato pubblicamente, ma anche la possibilità stessa di elaborare una cornice di lettura e di interpretazione critica che rifletta sui dati per selezionarli e per dare loro un significato, che non si limiti ad accostarli o ad agglomerarli in statistiche, ma che sappia costruire o ricostruire una prospettiva di senso, a partire dai nessi sincronici e diacronici di spazio, tempo, cause e effetti.
Nelle spire di una condizione pervasiva di coercizione alla conformità instillata dalla connessione digitale totale – il digital turn descritto dal filosofo coreano Byung Chul Han – corriamo il rischio di disimparare a pensare, a immaginare e a capire ma anche ad agire in modo responsabile e soggettivamente critico, rinunciando alla faticosa postura di una ricerca di senso tanto più necessaria nella complessa architettura di questa nostra contemporaneità segnata dal molteplice, dalla sovrapposizione, dall’attraversamento.
È sotto questo profilo che lettura e letteratura possono costituire un fattore protettivo, antagonista rispetto alla condizione di alterità meccanicistica e al depauperamento del simbolico che il dominio dell’immaginario digitale e la trasformazione del reale esercitati dalle nuove tecnologie informatiche possiede e mette spregiudicatamente in campo.
La letteratura – ovvero la lettura, in casa, appartata e silenziosa oppure, a scuola, espressiva e condivisa del testo letterario – costituisce ancora una preziosa occasione di formazione all’umano sentire, perché offre l’opportunità di un posizionamento dinamico e creativo in un percorso di risonanza, conoscenza e interpretazione, che è sempre, allo stesso tempo, di soggettivazione e di relazione con l’altro da sé, nella temporanea sospensione dell’esperienza solipsistica, a tratti autistica, realizzata dai dispositivi e dai paradigmi del digitale.
Che si configuri come un percorso del riconoscimento del già noto oppure di avvicinamento, scoperta e conoscenza dell’ignoto, la letteratura, a differenza della Rete, ci vuole umanizzati e non reificati.
La letteratura chiama a gran voce la nostra umanità e la amplifica, riproponendoci al cospetto di un mondo incorporato che ci invita ad una relazione profonda e arricchente, ad un coinvolgimento etico ed estetico carnale e diretto, ad un contatto significativo capace di lasciare il segno sui nostri tracciati emotivi, in quell’engagement corporeo che la Rete, al contrario, sistematicamente preclude.
Riavvicinare i giovani al libro di letteratura significa sottrarli alla mortificazione del linguaggio quotidianamente perpetrata dai social media, risarcirli del progressivo immiserimento della parola che, nelle forme algoritmiche del digitale, non può che essere strumentale, limitata, stereotipata, adattata e contingente. Non più intessuta in una trama di significati potenzialmente inesauribile, non più capace di esercitare la sua vitalità nella costante negoziazione semantica, nel reciproco adattamento tra chi la pronuncia o la scrive e chi la riceve o la legge; piuttosto, deprivata nella Rete dei suoi necessari riferimenti pragmatici, del contesto sociale, storico, culturale in cui invece, con l’opera letteraria assume e trasmette la sua forma-libro, la parola appare oggi, nell’immaginario e nel linguaggio più diffuso, scarnificata e de-significata perché sempre più de-situata e irrelata.
La letteratura, che “è nulla di più ma anche nulla di meno di un momento della educazione e comprensione generale della specie umana, del suo percorso nella storia e della esistenza di ognuno in quella”[3], può restituire alla parola e a chi (leggendola, poi pronunciandola e infine impadronendosene) fortunatamente la incontra, i suoi possibili percorsi di significazione umana: una tregua al commercio obbligato con la tecnologia, un rivivificato desiderio della realtà empirica cui tendono i moti profondi dell’animo, una possibile epifania più che di una memoria profonda o di una presenza antica, di una irrinunciabile verità, ovvero la nostra necessità del mondo e del nostro racconto del mondo.
Attraverso la letteratura e la lingua che la esprime possiamo ancora imparare a guardare il prossimo e noi stessi, a “porre in relazione fatti personali e fatti generali, attribuire valore a piccole o a grandi cose, considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili”[4].
In una interessante monografia dedicata al ruolo delle emozioni e dei sentimenti nella lettura dei romanzi, la studiosa americana Suzanne Keen ha sottolineato l’importanza delle reazioni affettive nel lettore del testo letterario, all’interno di specifici repertori socioculturali[5]. Si tratterebbe infatti di quelle che gli psicologi definiscono ‘emozioni complesse’ (distinguendole da quelle ‘di base’ pressoché comuni a tutte le culture umane), determinate per aspetti significative da condizioni culturalmente e socialmente marcate. Assumendo una prospettiva fenomenologica, possiamo certamente affermare che l’esperienza della lettura di un racconto, un romanzo o una poesia unisce emozione immaginazione e percezione in una dimensione dinamica ‘situata’, a un tempo astratta e corporea, sensoriale e mentale. Un’esperienza geograficamente e storicamente determinata, purtuttavia capace di attraversare spazio e tempo e di presentarsi al cospetto di un inesauribile qui e ora.
Ma c’è di più. La narrazione, considerate dallo psicologo Jerome Bruner, come la “modalità privilegiata per custodire, riorganizzare e comunicare l’esperienza nella sua forma più aderente alla percezione originale”, sembra possedere una irrinunciabile funzione epistemica: attraverso la narrazione acquisiamo e sedimentiamo esperienza e conoscenza, attraverso la narrazione interpretiamo le menti altrui e le cose del mondo, in una prospettiva – circolare e ricorsiva – soggettiva e intersoggettiva, individuale e sociale. La narrazione è un atto linguistico, ma è anche un raffinato strumento cognitivo che ci consente pensiero riflessivo e immaginativo, comunicazione interpersonale e attribuzioni di senso. La letteratura è una forma espressiva della narrazione che trasforma la “parola vissuta” in “parola incontrata”[6]: il linguaggio – che è azione – in una scrittura, che è rivelazione. E la narrazione è la “nicchia ecologica” che ha contribuito a garantire nel tempo la sopravvivenza dell’Homo sapiens. Una nicchia narrativa in cui ci siamo adattati (in termini evolutive) animando, attribuendo capacità di agire e interagendo empaticamente con ciò che animato non è. Una nicchia narrativa che è vita.
Ma è questa vita – così imperfetta, imprecisa, provvisoria, mancante proprio perchè umana – che le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale oggi ci prospettano?
Ancora una volta, la letteratura prova a disegnare un orizzonte e Adam, il robot umanoide di Macchine come me di Ian McEwan, formula così la sua utopia negativa:
“Quasi tutto ciò che ho letto della letteratura mondiale descrive variabili di fallimenti umani, a livello di comprensione, di logica, di buonsenso e di adeguata solidarietà. Mancanze di cognizione, onestà, cortesia, consapevolezza; strepitose raffigurazioni di violenza, ferocia, egoismo, stupidità, paranoia e, soprattutto, di profonda incomprensione degli altri. C’è spazio anche per la bontà, questo è vero, e per l’eroismo, la grazia, la saggezza, la verità. È dal fertile groviglio di questa matassa che si dipanano le diverse tradizioni letterarie, come le piante selvatiche nella famosa siepe di Darwin. I romanzi si sviluppano utilizzando tensione, inganni, violenza, ma anche momenti d’amore e perfette risoluzioni formali. Ma quando il connubio tra uomini, donne e macchine sarà completo, questo genere di letteratura diventerà obsoleto perché allora ci comprenderemo troppo bene. Abiteremo una comunità di intelligenze a cui avremo accesso immediato. La connessione avrà raggiunto livelli tali che i grumi isolati di soggettività si dissolveranno in un oceano di pensieri, di cui internet, per come la conosciamo, non è che una rudimentale anticipazione. Arrivando a poter dimorare nella mente gli uni degli altri, perderemo la capacità di mentire. I nostri racconti cesseranno di essere interminabili cronache di malintesi. La letteratura perderà la propria malsana fonte di nutrimento. Sono sicuro che faremo tesoro della letteratura del passato, per quanto possa inorridirci. Ci guarderemo indietro, meravigliandoci della bravura con cui individui di tempi remoti hanno saputo descrivere i loro difetti, di come hanno ideato geniali favole non senza speranza, a partire dai loro conflitti, dalle loro mostruose inadeguatezze e dalla reciproca incomprensione”[7].
Non ci meraviglia dunque che, nell’epilogo del romanzo, l’Homo sapiens incarnato dal protagonista umano non subisce scacco matto da parte del potente giocatore tecnologico; piuttosto, lo disinnesca distruggendolo, così come aveva fatto l’astronauta minacciato dal supercomputer di bordo HAL nel film profetico di Stanley Kubrick, 2001. Odissea nello spazio.
Ma se nella realtà non fosse così, se il processo e l’esito non fossero rispettivamente altrettanto scontati e salvifici, è chiaro che alla scuola – oggi davvero laboratorio di sperimentazione della digitalizzazione del mondo – si starebbe chiedendo un contributo fondamentale perché la tecnologia registri i vantaggi della sua definitiva vittoria sull’umano, la scuola essendo il sistema dei luoghi in cui vivono le creature piccole, le più esposte e plasmabili. Gli umani che noi siamo, i corpi che noi siamo, la relazione che noi siamo forse sono astrazioni, reminiscenze marginali, lacerto di vecchie ideologie incapaci di intercettare il presente?
“Cos’è un libro?”, potrebbero chiedersi i bambini a breve, immersi in questo contemporaneo, inesplorato disincanto. Senza più saper trovare la risposta.
“L’immaginazione non è una dote innata. Dobbiamo imparare a svilupparla con l’aiuto dei genitori e degli insegnanti. C’è stato un tempo in cui l’immaginazione era particolarmente importante, perchè era la fonte principale di divertimento. Nel 1892, se avevate sette anni, poteva capitarvi di leggere una storiella – una storiella semplice semplice – su una bambina a cui era morto il cane. Non vi fa venire da piangere? Non capite perfettamente quello che prova la bambina? E poi magari leggevate una storia su un riccone che scivolava su una buccia di banana. Non vi fa venire da ridere? E così piano piano nella vostra testa si costruisce il circuito dell’immaginazione. Se andate in una pinacoteca, quello che vedete sono dei rettangoli con sopra delle macchie di vernice che non si muovono da secoli e secoli. Non ne esce alcun suono. Il circuito dell’immaginazione è addestrato a reagire anche al minimo impulso. Un libro non è altro che una particolare disposizione di ventisei simboli fonetici, dieci cifre e circa otto segni di interpunzione, eppure mentre il lettore li guarda, davanti agli occhi si materializzano l’eruzione del Vesuvio o la battaglia di Waterloo. Però oggi non è più necessario che questi circuiti li costruiscano i genitori e gli insegnanti. Ora ci sono spettacoli prodotti da professionisti, con ottimi attori e scenografie, suoni e musiche molto convincenti. Ora c’è la Rete. Certi circuiti non ci servono più, come non ci serve più sapere andare a cavallo. Quelli di noi che li hanno sviluppati possono guardare in faccia una persona e vedervi dentro delle storie; per tutti gli altri, una faccia è soltanto una faccia”.
K. Vonnegut, Un uomo senza patria.
[1] S. Greenfield (2016). Mind Change. Cambiamento mentale. Come le tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta nel nostro cervello. Fioriti Editore, Roma, p. 25.
[2] In Cina, la potente spinta del Partito Comunista Cinese verso l’automazione e il controllo sta producendo due fenomeni: il primo è l’adattamento del cittadino, indotto anche dall’emergenza sanitaria che sembra giustificare il tracciamento; si vedono, in numerosi video in rete, bambini giocare con “camerieri-robot”, ragazze che si mostrano con civetteria al controllo facciale, persone costrette a mostrare il lasciapassare decine di volte al giorno con rassegnata obbedienza (video che, anche qualora fossero montature, mostrano aspetti ampiamente analizzati da sinologi); il secondo sono le forme, sul modello occidentale, di sensibilità al concetto di privacy, la sotterranea insofferenza verso l’invadenza delle telecamere (installate anche nelle scuole di ogni ordine e grado per consentire ai genitori di “guardare i propri figli in tempo reale”). Simone Pieranni (2021). La Cina nuova. Laterza, Bari-Roma; id. (2020). Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina. Laterza, Bari-Roma.
[3] F. Fortini (1979). Letteratura, in Enciclopedia Einaudi, 16 voll. Einaudi, Torino 1977-84, vol. VIII, pp. 152-75:170.
[4] I. Calvino (1995). Il midollo del leone, in Una pietra sopra. Mondadori, Milano, p. 17.
[5] S. Keen (2007). Empathy and the Novel, Oxford University Press, Oxford-New York.
[6] J. P. Sartre (1960). Che cos’è la letteratura?. Il Saggiatore, Milano, p. 126
[7] I. McEwan (2019). Macchine come me. Einaudi, Torino, p. 140.
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