Marginalità e piccole patrie in Rigoni Stern e oggi
Ho passato l’estate a leggere romanzi contemporanei italiani (da Veronesi a Durastanti, Covacich, Perrella, Terranova, Vicari, Bazzi…), afroitaliani (Igiaba Scego) e americani (Whitehead, una mezza delusione nonostante il Pulitzer), ma nessuno mi ha dato l’emozione e la gioia di un vecchio libro di Rigoni Stern, regalatomi in agosto da un amico, un dolce amico avrebbero detto gli antichi latini. Si tratta di due racconti lunghi accomunati dall’argomento: contadini e montanari in una terra fra i monti, marginale e di confine, fra Italia e Austria: Storia di Tönle e L’anno della vittoria, il primo del 1978, il secondo del 1985, ma riuniti in volume unitario da Einaudi già nel 1993. E in effetti L’anno della vittoria, quello immediatamente successivo alla conclusione della prima guerra mondiale, sembra la continuazione ideale di Storia di Tönle, che termina con la morte del protagonista alla fine del 1918.
Nei due racconti gli abitanti della piccola patria non parlano fra loro né italiano né veneto né tedesco, ma un’”antica lingua” (come vi si legge) più vicina al tedesco che all’italiano (ma con qualche influenza anche del ladino, se non erro). E tuttavia i protagonisti conoscono bene, e speditamente parlano, italiano, tedesco, veneto. E si capisce: il protagonista, per esempio, è italiano ma ha fatto il soldato nell’esercito dell’impero austroungarico agli ordini di un ufficiale certamente anche lui italiano, il maggiore Fabiani, e pratica il piccolo contrabbando di nascosto alla polizia di frontiera dei due stati, ma talora anche con il suo interessato accordo, e vive per alcuni anni facendo il venditore ambulante (vende stampe iconografiche, che diffondevano nel centro Europa la lezione dei grandi maestri della pittura italiana) in Boemia, Austria, Polonia, Ungheria mentre alcuni suoi amici e conterranei si spingono sino ai Carpazi, all’Ucraina e alla lontana Russia. Sono certo contadini e montanari, ma sanno leggere e scrivere e conoscono Vienna, Cracovia, Praga, Budapest, oltre naturalmente a Venezia, Belluno, Trento. La loro piccola patria non conosce confini: è il luogo della casa e della famiglia, dei parenti, degli amici e dei morti, a cui il protagonista sempre fa ritorno dopo ogni viaggio; ma è una patria aperta al mondo, senza angustie e senza limiti, una patria dove ancora le stagioni dell’anno scorrono con il ritmo della natura annunciato dal canto e dal volo degli uccelli, dal succedersi dei raccolti e dalla trasformazione delle piante. In questa terra l’unico vero nemico è la miseria contro cui lottano tenacemente in modo solidale tutte le famiglie.
Su questa piccola patria si abbatte la grande guerra, che distrugge le case e le messi, una guerra incomprensibile e assurda che mette gli uni contro gli altri amici di vecchia data e persino membri della stessa famiglia. Il protagonista, che sa fare ogni mestiere (altre al contrabbandiere e al venditore ambulante, è stato contadino, muratore, allevatore di cavalli), si riduce a fare il pastore di un piccolo gregge che vaga per monti e valli cercando di evitare gli opposti eserciti e le cannonate che essi si scambiano, sinché, arrestato dai militari italiani e mandato verso Venezia, riesce a fuggire e muore per l’età e per gli stenti nel suo viaggio di ritorno alla vecchia casa, che nel frattempo i bombardamenti hanno distrutto.
Quando uscì L’anno della vittoria Giulio Nascimbeni scrisse sul “Corriere della sera” che questo libro sarebbe dovuto diventare un testo di lettura per le nostre scuole, ma non ne spiegò bene i motivi. Disse solo che era “esemplare” (immagino dal punto di vista morale) e “poetico”. Mi azzardo a fornire qualche altra ragione.
Una ragione, intanto, è di tipo storico. Quando si studia la prima guerra mondiale sembra che si contrappongano solo due posizioni: quella degli interventisti (non solo d’Annunzio ma la maggior parte degli intellettuali italiani) e quella dei neutralisti e pacifisti (nell’arco che va da Croce e Giolitti al papa cattolico che condannava “l’inutile strage”). Ma gli abitanti della piccola patria di cui qui si parla, come molti contadini mandati al fronte, non sono interventisti e nemmeno pacifisti o sostenitori della neutralità. Nella loro cultura la guerra è solo insensata perché oppone uomini abituati alla solidarietà nella lotta contro la miseria, il freddo, la fame, la febbre spagnola: nel mondo della piccola patria l’aiuto reciproco è necessario e indiscutibile. Per loro le frontiere non hanno ragione d’essere e sembrano esistere solo per essere superate con astuzia e abilità. Loro vivono fra le frontiere e nonostante le frontiere. La loro piccola patria è insomma una civiltà autonoma, diversa da quella italiana o austriaca o genericamente “occidentale”.
Si dirà che proprio per questo sono condannati alla inessenzialità e alla marginalità. Ma siamo proprio sicuri che il centro in cui viviamo noi (il cosiddetto Occidente) sia portatore di una civiltà migliore?
Una seconda ragione è, infatti, la straordinaria attualità della marginalità. Se oggi si intravede una qualche possibilità di cambiamento non viene proprio dai marginali (come sono, per esempio, gli esuli e gli emigrati, che spesso incontriamo fra di noi di nuovo come venditori ambulanti)? Gli stessi insegnanti, e la massa proletarizzata di quelli che un tempo si chiamavano intellettuali, non sono un esempio di marginalità? Non sono costretti a una sorta di contrabbando, a una vita difficile fra le frontiere e i muri con cui oggi si cerca di difendere patrie ormai prive di ideali, che non siano quelli economici, e costrette ad arroccarsi riesumando propagande a sfondo razzista e nazionalista? Non cerchiamo anche noi (noi intellettuali, noi insegnanti) di far passare di contrabbando valori di solidarietà che la nostra civiltà ormai ignora o addirittura combatte? La scuola stessa oggi non è una piccola patria assediata da una civiltà aliena?
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