Paolo Zardi, Storia delle mie copertine /6
Non ho mai avuto talento per le arti figurative. Quando ero bambino, nella casa in cui vivevo c’erano innumerevoli libri di arte – volumi illustrati su Michelangelo, Raffaello, Giotto e Zurbaran – che io sfogliavo con curiosità; mia madre, che sapeva disegnare bene e che da giovane aveva prodotto anche alcuni quadri di una certa bellezza, mi aveva regalato uno splendido libro su Mirò, nel quale le sue opere venivano usate come se fossero i capitoli di una storia: i personaggi principali erano il Sole, un toro e altre entità molto spagnole. Prima ancora, leggevo piuttosto avidamente dei sottili libricini di favole di quel maestro che era stato Bruno Munari. Ma nonostante tutti questi sforzi educativi, per anni sono rimasto incantato di fronte ai quadri di cavalli al tramonto, pagliacci con la lacrima e ritratti di Teomondo Scrofalo, chiedendomi, di nascosto, perché diavolo tutti ne parlassero male. Con il tempo, certe ingenuità se ne sono andate; ma è rimasto, in sottofondo, una sostanziale incapacità di individuare il segreto della bellezza esteriore – e d’altra parte, sono convinto che se fossi stato bravo in disegno, o avessi saputo scolpire, o cantare, o suonare, non mi sarei mai dedicato alla più faticosa e ingrata tra le arti, la scrittura.
E quando ho iniziato a scrivere, alla fine degli anni zero, poco prima del 2010, pensavo che tra le tante cose che uno scrittore doveva fare, una volta finito il suo lavoro, ci fosse anche quello di pensare a una copertina. Allora avevo in mente le edizioni Einaudi, tutte bianche, con una foto in mezzo; feci qualche esperimento in questo senso, ma alla fine scelsi uno stile più moderno, una copertina con una foto in bianco e nero che riempiva tutta la pagina. Era il mio primo manoscritto che, per vanità, avevo stampato con lulu.com, il sito di print on demand. Quel libro non venne mai pubblicato.
Ma la raccolta di racconti che avevo mandato alla Neo, invece, era piaciuta. Loro erano appena agli inizi, avevano pubblicato quattro libri piuttosto eterogenei tra loro e tutti di gran qualità. Il loro progetto mi entusiasmava, e mi entusiasmavano loro, Angelo e Francesco, i due cugini che si erano imbarcati in questa avventura editoriale. Il mio manoscritto (che ovviamente non avevo scritto a mano: tra gli altri talenti che mi mancano c’è anche quello della bella scrittura) era composto da più di trenta racconti e sei o sette poesie. Aveva anche un titolo, “L’amore ai tempi del nulla”, e pure un’idea di copertina: una foto in bianco e nero di un palo della luce di una tangenziale immersa nella nebbia.
“Che ne dite della mia copertina?” avevo chiesto loro in una delle tante mail che ci scambiammo nei mesi in cui lavoravamo sul libro. Loro, che hanno sempre avuto una natura gentile, sono stati vaghi. Non dicevano che era orribile. Ci giravano intorno. Mi dissero che pensavano di affidarsi all’artista Toni Alfano che realizzava delle opere molto potenti. In effetti, sarebbe stato sufficiente andare sul sito della Neo per capire che strada avevano preso.
“E che ne dite del mio titolo?” chiesi qualche mail dopo – a quel punto, avevo iniziato ad avere qualche dubbio pure su quello. Ma anche su questo dimostrarono la loro natura gentile: mi dissero che era bello e che ci avrebbero pensato.
Qualche settimana dopo mi hanno mandato la copertina via mail. Ero al lavoro, in una sala il cui nome, the war room, lasciava intendere il tipo di serenità che vi si respirava. Le finestre si aprivano sul soffitto – eravamo, infatti, un piano sotto il livello del suolo – ed erano ricoperte dai petali caduti da due alberi che crescevano proprio là sopra, indifferenti a noi e alla nostra fatica. Ho aperto la mail. L’emozione di quel momento è una delle cose belle della mia vita. Era la copertina che avrei realizzato io, se solo avessi avuto quel particolare talento. È come quando, ascoltando una canzone che amiamo, magari mentre siamo in doccia, iniziamo a cantare sopra la voce originale e per un attimo ci pare che pure la nostra voce, fondendosi con quella, sia meravigliosa: scatta una sorta di comunione tra il nostro sentimento e il talento di qualcun altro – che è quello, poi, che succede quando leggiamo un buon libro, e ci pare che i pensieri dello scrittore siano, in parte, anche i nostri. Così, aprendo quella mail nella war room, sotto un tappeto di petali rosa, mi sono commosso. Quel quadro di una donna e un uomo seduti in una metro, i loro visi stanchi e arresi, gli occhi chiusi, perfino i colori, coglievano la natura più intima di ciò che avevo scritto. Non era un riassunto del libro, o un’immagine che ne illustrava il contenuto: era, piuttosto, l’arte che spiegava i suoi potenti mezzi per suggerire ciò che le parole non sapevano dire. Un mese dopo uscì “Antropometria”. Andò bene e la copertina piacque.
Da quel momento in poi, ho smesso di fare ipotesi o proposte sulle copertine dei miei libri. Non sono tra quelli che pensano di essere bravi a far tutto: io scrivo, ed è già tanto, per me. Nel corso degli anni successivi, Giulia Belloni mi ha stupito con il viso intenso di una ragazza danese, in “La felicità esiste”; e poi Toni Alfano, ancora con la tenerezza de “Il giorno che diventammo umani” e la potenza di “XXI Secolo”; la Intermezzi, con la copertina astratta de “Il signor Bovary” , e di nuovo la Neo con “La Passione secondo Matteo” .
Ho amato moltissimo anche la copertina di una raccolta che ho curato per Galaad, “L’amore ai tempi dell’apocalisse”. Ogni volta, ho aspettato con trepidazione la mail dell’editore e ogni volta, dopo averla aperta (sul divano di casa mia, di ritorno da un viaggio, in bagno con il cellulare in mano), si è ripetuto lo stesso incantesimo.
È successo anche per l’ultimo libro appena uscito per Feltrinelli, “Tutto male finché dura” . Non c’era più Toni Alfano a leggermi nel cuore e a tirare fuori splendide e inaspettate visioni. Si ripartiva da zero. Un giorno sono andato nella nuova sede della Feltrinelli a parlare del libro – un confronto su alcuni punti con la responsabile della collana – e poco prima di andarmene mi ha chiesto: “Ti va di vedere la copertina che abbiamo pensato?”. Non ero preparato, così l’emozione è stata doppia. Era un’illustrazione originale di Gianluca Foli, capace di cogliere tutto lo spirito del libro con un’unica immagine. E anche questa volta è uscita una lacrimuccia di commozione.
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