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La natura linguistica e comunitaria delle emozioni. Intervista a Matteo Pelliti

 A cura di Daniele Lo Vetere

Il poeta Matteo Pelliti ha incontrato alcuni studenti e studentesse di un liceo senese, per un dialogo sulla sua poesia. Pubblichiamo l’intervista che gli è stata fatta in quell’occasione dal nostro collaboratore Daniele Lo Vetere.

Per l’incontro ci hai gentilmente concesso di leggere anche l’ultima raccolta ancora inedita, Dire il colore esatto. C’è una poesia che ha colpito molto alcuni studenti, Il più vecchio del mondo. Ne cito alcuni versi: «Morto l’uomo più vecchio del mondo, aveva 116 anni. / Così recitava una notizia di qualche mese fa. / Ogni anno ne muore uno. O forse ogni mese. // Il più vecchio, che lascia il posto al secondo più vecchio / che, nel frattempo, è diventato ancora più vecchio / e, alla fine, muore». Nella nostra «civiltà dei record, / basata sui superlativi», riusciamo a fare notizia anche sul tutt’altro che eccezionale susseguirsi di morti, anche se, dici, nascosto da qualche parte c’è sicuramente chi «vegeta e sogna senza curarsi affatto d’essere / un superlativo, fossile notiziabile». La tua poesia è attenta ai fatti del mondo e della giornata, è piena di cose concrete; di conseguenza, dal momento che la nostra quotidianità ormai è costituita anche da questo, sei molto attento anche alla mediosfera. Non c’è argomento che non sembri poetabile. Sei d’accordo con questa osservazione?

Partirei proprio del termine che usi, “poetabile”, che mi rimanda, per assonanza, a qualcosa sia di “potabile” sia di “portatile”. Sì, penso che non ci sia argomento che non possa essere attraversato per mezzo della poesia che è, appunto, lo strumento linguistico che storicamente si è usato per attraversare qualsiasi argomento e che è stato capace di assorbire, modulare i linguaggi e le forme espressive più diverse proprio per riuscire a “parlare” di qualsiasi cosa, dall’amore, alla morte, alla filosofia, alla natura, al Cosmo, alla vita quotidiana. Tendenzialmente sono sospettoso verso una poesia unicamente orientata a temi, per così dire, “metafisici”. Mi interessano di più le forme capaci di accogliere gli oggetti, i fatti, le cose, le persone anche nelle loro interazioni minute, biografiche e quotidiane. Una poesia che sia capace di far scaturire una riflessione più astratta a partire da elementi molto concreti.

Una studentessa ha commentato così la tua riflessione ne Il più vecchio del mondo: «è una cosa ovvia, ma non ci avevo mai fatto caso». In realtà voleva dire – ma non lo sapeva – “è una cosa ovvia, perché non ci ho mai fatto caso”. A me pare che un’altra delle ragioni della tua poesia stia proprio in questo desiderio di intensificare minuziosamente la percezione e di deautomatizzare il linguaggio. Faccio solo un paio di esempi, per rendere approssimativamente l’idea. Intensificazione percettiva (con un salto di scala, dal piccolo al grande, che vorrei definire “pantografico”): «Il casellante sporge / il braccio sinistro tatuato / fuori col resto, e io resto / mi arresto cercando / nel grafo nero dell’avambraccio / la strada, la mappa / ufficiale-autostradale / che mi porti ad altro arto / di altro casellante. // Allora penso – o spero – / ad una rete stradale / tatuabile a pezzi / su ogni avambraccio / di casellante» (Un braccio di strada, in Versi ciclabili). Deautomatizzazione linguistica: «La data-logo, / l’undici-torri, / segnala questo eterno / tramontare (an)estetizzante / e occidentale. // La storia nuova / non comincia mai “oggi”» (undicisettembre, in Versi ciclabili). Fai tutto questo, però, usando lo straniamento in modo molto controllato, raziocinante, lucido. È questa per te la quintessenza dello sguardo poetico?

Questo disinnescare gli automatismi del linguaggio comune è sicuramente uno dei modi in cui mi interessa fare poesia. E’ una strategia, più che un aspetto quintessenziale. Così come una strategia è l’uso dell’ironia. Quintessenziale, forse, è l’idea che in poesia si attinga a un livello di “densità” linguistica superiore, o ulteriore, rispetto a tutti gli usi “pratici” del linguaggio. Questo consente, inoltre, di tenersi alla larga da una specie di gergo, o di “poetichese” che oggi rischia di rinnovarsi travestendosi, o assumendo l’alibi, a volte, della “poesia di ricerca”. La poesia è sempre di ricerca, anche quando è leggibile. In questa sua leggibilità, e nella presa sul presente, attribuisco un funzione civile alla poesia, per come cerco di praticarla.

Un’altra caratteristica della tua poesia è la metalinguisticità. Una tua intera raccolta, Boicottando mongolfiere e ghigliottine è costruita sui deonimici, ma questo è solo l’esempio più lampante. Tu sei laureato in filosofia e sei un lettore di Wittgenstein. Quali rapporti stabilisci tra la filosofia e la poesia nel tuo modo di intendere e di praticare quest’ultima?

La filosofia è la mia formazione, il luogo dal quale “provengo”, cioè quell’insieme di pratiche, di teorie, di idee, di “giochi linguistici”, tanto per usare una espressione wittgensteiniana, che formano un pezzo considerevole della cultura occidentale. Non so misurare quanto questa provenienza mi influenzi e agisca nel mio fare poesia; se una correlazione c’è non è tanto di “temi”, quanto di intenzionalità o di consapevolezza, di approccio, direi, alla “materia linguistica”. Forse sono pochi i miei testi che possano dirsi esplicitamente “filosofici”, ma tutti provengono da una posizione nei confronti del linguaggio per me simile, tra filosofare e poetare, cioè qualcosa che avviene nel linguaggio. Per me il linguaggio poetico, ad esempio, è il luogo dove la natura linguistica e comunitaria delle emozioni trova piena realizzazione. Cerco le parole non per descrivere i miei vissuti emotivi, ma le parole che danno forma a quei vissuti e li rendono condivisibili comunitariamente.

A partire dalla tua terza raccolta, Dal corpo abitato, questo tuo sguardo analitico e curioso è applicato in modo decisamente più scoperto all’autobiografia e agli affetti domestici. In particolare affronti il tema della casa: la casa come corpo, «derma supplementare» (Corpi) o abito che riveste l’abitante (con gioco paraetimologico); le stanze della casa associate a una parte del corpo o a una funzione fisiologica; lo spiazzamento d’identità provocato dai traslochi e dalle separazioni che costringono a periodi d’interregno tra due o più case; le case dell’immaginazione (la casa di via dei Matti di una famosa canzone per bambini: in Dall’infanzia), … Dopo aver letto alcune di queste poesie, hai chiesto agli studenti di scrivere anonimamente su un foglietto una loro definizione di casa. È un esperimento che hai ripetuto anche in altre occasioni. Che risposte hai avuto? Che cos’è la casa per noi? Le suggestioni che questa indagine ti fornisce hanno modificato in qualche modo la tua stessa percezione, che dell’argomento sembri aver osservato ogni piega?

La casa è una grande struttura simbolica. “Dal corpo abitato”, per certi aspetti, può essere letto come complementare al “Nel condominio di carne” di Magrelli, o a un suo “converso”, un libro di prose che ebbe un forte impatto su di me. Là è il corpo umano ad assorbire la metafora abitativa, mentre io ho risemantizzato la casa, per così dire, in chiave fisiologica, biologica. Ho chiesto in diverse occasioni di scrivere una propria descrizione dell’idea di casa, in incontri con studenti universitari, o con persone più adulte nel laboratorio di scritture Tracce che tengo a Pisa. La natura bifronte della casa, protettiva e costrittiva insieme, l’idea, cioè, di qualcosa che mi protegge dal mondo e forma la mia identità oppure che mi separa da mondo come una prigione, è sempre ricorrente. Nei foglietti degli studenti del nostro incontro a Siena prevale ancora l’aspetto protettivo e luminoso della casa, come luogo dell’affettività familiare e della libera espressione di sé. La definizione più semplice che ho trovato scritta dalle ragazze è anche quella più efficace: “Casa è dove sto bene. In questi ultimi tre anni, portando in giro il libro e ragionando sul tema della casa in laboratori di scrittura, ho verificato quanto profondo, intimo e spesso doloroso sia il nostro rapporto con le case, e ho avuto una conferma della natura relazione delle nostre identità.

Quali autori o libri di poesia consiglieresti a un adolescente?

Consiglierei di leggere Penna, e Caproni e Saba. Poi consiglierei di considerare Dante non una materia scolastica ma una cattedrale da esplorare liberamente, magari poco alla volta. Certamente Leopardi e Baudelaire. Li consiglierei anche di essere un poco diffidenti verso i sentimentalismi, perché facilmente, e soprattutto in rete, gli verranno spacciati per poesie. E poi  li consiglierei di guardarsi intorno, di ascoltare molto e di scrivere una poesia, quando non vogliono dimenticarsi qualcosa che hanno vissuto.

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