La balena sui muri. Cronaca di un laboratorio di italiano
Credo che fossimo a metà gennaio di quest’anno quando per la prima volta alzai gli occhi e vidi il segno sul muro. Per fissare una data è necessario ricordare quello che si è visto. Così ora penso al fuoco; il velo immobile di luce gialla sulla pagina del mio libro.
Si, questo sembra esprimere la rapidità della vita, il perpetuo sciupare e riparare; tutto così casuale, tutto alla ventura
V. Woolf, Il segno sul muro
Tre problemi
E’ la fine della scuola. Mi hanno assegnato il bonus premiale a cui ero contraria. In verità ho fatto domanda per averlo (nella mia vecchia scuola avevano disposto che si facesse domanda), in modo che non finisse esclusivamente nelle tasche di chi, anche grazie alla mia “integrità morale”, ha gioco facile nel trasformare la scuola in un ramo della McKinsey. Il mio proposito, e quello di altri colleghi, era di restituirlo alla scuola sotto forma di donazione e di rivendicare pubblicamente, motivandolo, il gesto.
E’ il 14 settembre. Entro nelle aule della mia nuova scuola dopo aver fatto domanda di trasferimento. E’ un liceo artistico storico della città. Si tratta di un palazzo moderno inglobato fra altri palazzi. Al suo interno, negli spazi comuni, ci sono i manufatti in ferro, in legno, in gesso, le pitture degli studenti che fioriscono in mezzo a finestre rotte, armadi vecchi e muri sporchi. Le aule sono povere. Se si escludono i laboratori di indirizzo e un’aula di informatica, noi docenti di area comune non abbiamo altri strumenti che quattro Lim per tutta la scuola, le lavagne di classe, i banchi, sedie e sgabelli senza posizione fissa e in numero insufficiente, tanto che i ragazzi se li passano da un’aula all’altra. C’è pure una biblioteca, ma è gestita in modo tale per cui è difficilmente utilizzabile.
E’ il 14 dicembre, giorno in cui inizia la settimana dello studente. Nella mia scuola, come in molte altre, questa settimana è stata istituita per prevenire e gestire le occupazioni scolastiche. Le occupazioni sono un fenomeno ciclico ormai privo di contenuto politico. I ragazzi rivendicano non si sa bene che. E occupano. La settimana dello studente è il tentativo di istituzionalizzare, con mossa carnevalesca, la loro inquietudine e dunque anche di svuotarla. Oppure potrebbe anche essere un tentativo di dargli una forma?
Il laboratorio Palomar prende le mosse da questi tre problemi. Cominciamo dalla fine.
I luoghi che abbiamo conosciuto: cronaca
14 dicembre. Quello che i ragazzi autogestiscono nella settimana dello studente è uno spazio squallido, freddo e disadorno. Qualche servizio giornalistico di tanto in tanto ci ricorda che le scuole non sono in sicurezza e che nei bagni manca persino la carta igienica. Molto più raramente qualcuno mette in relazione questi aspetti materiali con le condizioni dell’apprendimento. Una scuola senza mezzi, una scuola povera, una scuola brutta sono un messaggio sociale forte (persino più forte di certe riforme): dicono a chi insegna e a chi va a scuola che non sono importanti e che importante non è il loro lavoro. Rinunciando a qualsiasi forma di decoro e persino di funzionalità, i luoghi della scuola testimoniano soprattutto il suo sfascio e la rinuncia collettiva – che va dal dirigente del Miur che redige circolari farneticanti al bidello che ha smesso di spazzare – a farne un posto vitale.
Eppure i luoghi che abbiamo conosciuto, anche quelli brutti, non appartengono solo alla dimensione dello spazio. Si intrecciano alle «emozioni confinanti che formano la nostra vita», come dice Proust, segnano il nostro tempo. I luoghi in cui viviamo sono sempre anche posti della memoria, degli affetti, dell’identità. Che tipo di memoria, di affetti e di identità ci comunicano posti come l’aula 37? Provate a immaginare un centro commerciale simile a quest’aula scolastica. Ci andreste? Ci passereste del tempo con gli amici? Ci vorreste comprare qualcosa?
Lo squallore della scuola ci dice che le luci sfavillanti stanno altrove, non dove studiamo e lavoriamo noi.
Con gli studenti del laboratorio, durante la settimana dello studente, siamo partiti da un’occhiata alle pareti, dall’ultima pagina della Dalla parte di Swann e da alcune domande. Sarei stata a crogiolarmi tra luoghi e non luoghi, geosofia e politiche di smantellamento del welfare altre due, tre lezioni, ma i ragazzi erano già andati avanti. E’ strano come io abbia il bisogno di filtrare il disagio, mentre loro lo buttano giù tutto d’un sorso. O forse non è strano. Hanno dai 25 ai 20 anni meno di me, non hanno conosciuto il vuoto sfavillante degli anni Ottanta, non hanno ancora viaggiato, letto, incontrato maestri e compagni con cui misurarsi. Inoltre la crisi economica gliela servono ogni giorno a pranzo e a cena. Cosa c’è tanto da discutere? Meglio seguirli nel loro bisogno di passare “al dunque”. Del resto è la “loro” settimana.
Dopo una breve discussione gli ho mostrato le immagini di altri luoghi scolastici, anche molto semplici, ma non degradati. E li ho sfidati chiedendogli come si sarebbe potuta riprogettare l’aula 37 per farne un luogo gradevole e uno spazio funzionale, cioè per trasformarla in un laboratorio di italiano per il biennio. Gli studenti hanno così fatto un rilievo e poi hanno schizzato in pianta una nuova disposizione dei banchi. Via via che procedevano davo loro dei vincoli: le vie di fuga da lasciare libere, il numero minimo di posti a sedere, la necessità di individuare uno spazio per le proiezioni di immagini. Come spesso accade, usando i vincoli hanno lavorato in modo ancora più creativo e hanno immaginato quattro zone di studio/lavoro: un’area per lo studio individuale, un’area per il lavoro di gruppo, un’area per le attività di recupero e ripasso, un’area per le attività di ricerca. Qualsiasi argomento di italiano, storia o geografia in questo spazio potrà essere affrontato in modo multimodale, in base alle diverse esigenze degli studenti e alle diverse sfaccettature che presenta il problema: si potrà studiare individualmente, ci si potrà confrontare, si potranno fissare i punti chiave, si potranno affrontare delle ricerche e degli approfondimenti. Superfluo è dire che i posti non saranno fissi.
Se gli studenti avessero partecipato alla selezione dell’ultimo PON sugli ambienti di apprendimento innovativi avrebbero vinto. Ma per fortuna non parlano il burocratese scolastico.
Volendo caratterizzare il laboratorio di italiano di un liceo artistico e avendo la necessità di rendere non solo più puliti ma anche più belli gli ambienti, abbiamo deciso di raffigurare sulle pareti dei personaggi letterari. Così ho iniziato a leggere e a raccontare alcune trame narrative. Tra i personaggi ricordati gli studenti hanno scelto quelli che gli sembravano più significativi per illustrare la funzione degli spazi: Gulliver per l’aria dell’aiuto (che a volte si riceve e a volte si dà), Moby Dick e Achab per la zona dello studio individuale (chi meglio di loro per indicare la determinazione e la sfida solitaria?), Don Chisciotte per lo spazio del reciproco scambio dei punti di vista e Ulisse, naturalmente, per la ricerca. Bocciatissimo, per ragioni estetiche, Gregory Samsa di Kafka, anche se io ci speravo. Stabilito il progetto di massima ci siamo divisi i compiti per l’indomani: pulire, stuccare, imbiancare, verniciare la porta ecc… Nel mentre i libri erano lì sui banchi, sfogliati, ri-sfogliati e letti per cercare di catturare il volto dei personaggi. Le 7 ore di scuola sono volate.
Il giorno dopo i ragazzi si sono ritrovati in aula. Hanno trasportato i materiali da lavoro e hanno iniziato a ripulire e imbiancare le pareti. Hanno restaurato la lavagna ed eliminato il mobilio vecchio. Ma questo un gruppo di persone, altri lavoravano in parallelo alla preparazione dei bozzetti rileggendo i romanzi scelti. Alla fine del secondo giorno l’aula era imbiancata e i primi due bozzetti pronti.
In didattichese il recupero di un’aula ottenuto a partire dai testi letterari e utilizzando le discipline di indirizzo si chiama service learning, cioè didattica svolta facendo un servizio pubblico. A me sembra più che altro senso di civiltà; anzi, semplicemente buon senso.
Il terzo giorno, mentre si disegnavano i bozzetti in scala di Ulisse e Gulliver subiva (con la contrarietà della sottoscritta, come al solito minoritaria) una rivisitazione moderna, a colpi di Starbucks e McDonald, nella parete di fondo iniziava a prendere forma la balena bianca, nella cui ampia pancia candida si potranno proiettare le immagini. Prendeva corpo anche Don Chisciotte, stilizzato alla maniera di Picasso. Tutto questo naturalmente grazie alla supervisione del collega di pittura che con due pennellate e due parole metteva ordine al fervore creativo degli studenti.
Questa volta le sette ore non sono bastate: i ragazzi hanno chiesto di rimanere, così mi sono fermata oltre il termine della scuola, mentre il professore di pittura, Agostino Di Trapani, è tornato nel pomeriggio per seguirli. Li abbiamo dovuti spedire a mangiare qualcosa a forza.
Il quarto e il quinto giorno sono state terminate le pitture; è stata montata una piccola libreria d’aula per consigliarci e prestarci dei libri tra di noi; è stata creata e affissa la targa del laboratorio; sono state cambiate le mascherine degli interruttori, puliti i banchi e sono state sostituite maniglie e serratura della porta per poter chiudere l’aula una volta che verranno installati il pc e il proiettore. Infine con l’autorizzazione della presidenza, una copia della chiave del laboratorio è stata sorteggiata tra i ragazzi del biennio che hanno partecipato alla costruzione del laboratorio Palomar. Questo spazio è loro ed è giusto che ne abbiano la responsabilità.
La pulizia del battiscopa è stato il vero lavoro di fatica. Ha fatto prima Ulisse a tornare ad Itaca.
Ovviamente questa piccola storia non ha la pretesa di essere impiegata come apologo. Molto di quel che è avvenuto è stato fortuito e occasionale e trarre conclusioni generali su di un mondo ormai pulviscolare e frantumato come quello della scuola sarebbe ingenuo. Come sono ingenui quei libri di professori che, a partire dalla loro esperienza individuale, enumerano i mali della scuola e si improvvisano riformatori indicando le soluzioni dei problemi. Non credo che l’esperienza personale dia un vantaggio sulla realtà. Questa esperienza, però, ha forse dato un po’ di senso all’inquietudine e al bisogno di partecipazione degli studenti. Inoltre mi ha permesso di affrontare, almeno provvisoriamente, i tre problemi iniziali da cui sono partita. Infine l’aula è oggettivamente migliore di prima.
Fine di un premio, inizio di un legame
In aula e fuori aula ci siamo avvicendati in tre insegnati di italiano e tre colleghi di sostegno. Ci ha aiutato anche il docente di Pittura. Nel laboratorio si erano iscritti studenti di quattro sezioni diverse, di primo e secondo anno. Inoltre ci sono venuti a trovare, e qua e là a dare una mano, altri studenti che non risultavano iscritti al laboratorio e altri colleghi. A fare il laboratorio eravamo una sessantina di persone, di sezioni diverse e con diversi ruoli, ma attraversate da uno stesso intento.
Naturalmente le vernici e le pitture, i pennelli, la libreria e gli altri materiali bisognava comprarli e la scuola, come da programma, non aveva fondi a disposizione per farlo. Ora si dà il caso che la scuola non ha fondi a disposizione per mantenere i locali o finanziare le attività non perché in assoluto sia povera, ma perché i meccanismi di finanziamento sono pletorici, dissennati e, sebbene erogati dallo Stato, per lo più contrari all’interesse pubblico. Più che altro i fondi dell’istituto servono ad alimentare la macchina burocratica della scuola, sempre più sfasciata e autorefereziale. Anche i soldi che l’ex governo Renzi ha messo sulla scuola sono stati giocati su un tavolo sbagliato, sono cioè stati usati come leva per piegare la scuola ad un’eteronomia dei fini: produrre performance invece che occuparsi di insegnare e imparare, competere invece che cooperare, primeggiare invece che distribuire, dividere invece che unire. La scuola della 107 è la scuola dell’uomo economico e non della Costituzione. Il premio dato ai docenti meritevoli lo scorso anno si inseriva esattamente in questo solco. E così da circa vent’anni assistiamo da una parte a una politica di piccole elargizioni gestite in modo divisivo e dall’altra osserviamo la massa degli studenti e persino i beneficiari di quelle stesse elargizioni costretti a vivere e a lavorare in ambienti degradati. In media ad ogni scuola italiana per premiare i docenti meritevoli sono state attribuite somme che vanno dai 20.000 ai 30.000 euro. Con una cifra simile, facendo un po’ di intelligenti economie, avremmo potuto ripulire tutta la scuola. Ci avremmo guadagnato tutti, incluso il governo e le istituzioni, in dignità.
Usare quel premio non gradito per dare forma a uno spazio comune era allora il giusto contrappasso. Realizzare quello spazio in modo collaborativo, spontaneo, e reciprocamente coinvolgente é stata, invece, una bella sorpresa. La fine di un premio, in qualche modo, ha segnato l’inizio di un legame. Abbiamo lavorato insieme e siamo stati bene. Che cambiare la scuola non sia altro che una forma di apprendimento collettivo?
Missionari, volontari o materialisti?
Al mio idilliaco racconto si possono muovere tuttavia delle obiezioni ragionevoli. Ad esempio qualcuno potrebbe eccepire: “bravi, però noi insegnanti non siamo missionari, non possiamo lavorare gratis e per di più rimetterci di tasca nostra”. Una variante più maliziosa di questa obiezione potrebbe essere: “è da piccolo-borghesi o da snob far finta che i soldi non siano un problema”. E ancora. “Bravi” – qualcun altro potrà aggiungere – “però in questo modo sostituite l’iniziativa privata e il volontariato al ruolo dello Stato. Dov’è lo Stato?” Ce lo chiediamo in tanti ogni volta che sentiamo di non farne parte. Tutto assolutamente vero. Ma talmente assoluto da non essere del tutto vero. Il fatto, per me, si pone sotto un’ altra luce. La luce che colpiva i segni sulle pareti dell’aula 37:
1.dallo squallore, per buon senso e amor proprio, ci si tira fuori il prima possibile e meglio che si può. Bisogna custodire e trasmettere la propria umanità.
2.Questo senso di “riguardo” verso se stessi e i propri studenti non contrasta, ma anzi rafforza, le giuste rivendicazioni economiche che vanno avanzate in sede contrattuale. L’insegnante attivo e costruttivo accresce il suo prestigio e quindi il suo peso sociale.
3.Va denunciata a chiare lettere e contemporaneamente corretta (anche dal basso) la cattivissima gestione del denaro pubblico che il governo Renzi ha fatto con la Buona Scuola. Con la 107 si sono usate le risorse non per far funzionare la scuola, ma per farla essere diversa da quello che è. Però la scuola italiana non ha bisogno di nuovi scopi. Ha bisogno delle condizioni materiali per poter funzionare dignitosamente.
Di certo se i docenti avessero usato in massa il bonus premiale per far fronte a un interesse generale delle loro scuole sarebbe stata rispedita al mittente la logica competitiva ed economicistica della Buona Scuola. Ma i legami che non abbiamo, e in forza dei quali si attivano mobilitazioni e si elaborano piattaforme di idee, nessuno ce li può dare. Somigliamo un po’ tutti al signor Palomar.
Perché Palomar?
Il laboratorio è stato chiamato Palomar come il personaggio dell’omonimo romanzo di Calvino. Palomar è un personaggio dello sguardo e non dell’azione, un personaggio che osserva ciò che è vicino come se fosse lontano e ciò che è lontano come se fosse vicino. Osserva e basta, perché Palomar non è un eroe militante. Anzi Palomar non è un eroe. Allora perché dare il suo nome a un laboratorio di italiano nato dal fervore e dalla voglia di fare? Forse soprattutto per ricordarci che si deve ripartire da dove Palomar ci ha lasciato, da dove gli impulsi vitali si sono impigliati. E forse anche perché in Palomar c’è un breve racconto che parla della luna del pomeriggio:
La luna di pomeriggio nessuno la guarda, ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento, dato che la sua esistenza è ancora in forse. È un’ombra biancastra che affiora dall’azzurro intenso del cielo, carico di luce solare; chi ci assicura che ce la farà anche stavolta a prendere forma e lucentezza? È così fragile e pallida e sottile; solo da una parte comincia ad acquistare un contorno netto come un arco di falce, e il resto è ancora tutto imbevuto di celeste.
Gli studenti, la scuola pubblica, l’umanità che la letteratura può disseppellire, i residui di valore in cui riconoscersi, il bisogno di legami mi sembra che assomiglino a questa luna.
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Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Bellezza e ricerca del senso
Un ottimo risultato: un abbellimento che si fa ricerca del senso e impulso all’azione. Particolare la scelta dei colori, che non indulge alla “sgargianteria” dominante(mediamente)nella cultura di massa attuale.
Una proposta per nuove riflessioni
Il tuo gesto e talune tue riflessioni mi hanno spinta a ritagliarmi un po’ di tempo per fare delle considerazioni …
Sicuramente un monito da non lasciar passare in sordina, uno specchio, un invito a riflettere o una spinta a ripartire su binari diversi, da una diversa prospettiva.
Il significato di un gesto che diventa lucida disamina o, forse, pretesto per aprire il sipario su una realtà scolastica complessa e controversa, interpretata con il coraggio di chi, al di là di qualsiasi finzione letteraria o moralismo ipocrita, al di là di qualsiasi slancio dettato da mero desiderio di ambizione, o peggio, delirio di protagonismo, vuole rivendicare la “maternità” di un gesto, o meglio, si fa promotrice di un’iniziativa che reca in sé l’impronta di una lezione un valore civico.
Contribuire a restituire un’appartenenza, provare a riassegnare un senso e un ruolo, a riconoscersi, per riappropriarsi di un’identità, e dar voce al sommerso per esprimere aspetti nascosti e aprire le finestre su problemi non sempre esprimibili, forse per pudore, forse per pigrizia o per timore.
Il significato di un gesto che traendo spunto dalla sua matrice, dall’universo narrativo, sa ben attualizzarne la morale, mutuandola in un vivace “coro polifonico” rivolto a tutti, docenti e discenti, per instaurare un dialogo di fronte al quale non è facile astenersi fingendo indifferenza.
Eppure quelle aule “disadorne” e “spoglie”, quegli spazi anonimi nei quali si svolge gran parte del nostro tempo, hanno un’anima, raccontano una storia, anzi, tante storie diverse, fatte di altrettanto coraggio, da parte di quanti, tacitamente, ogni giorno e senza riserve, senza tirarsi indietro, si adoperano per raccogliere la Sfida, nel convincimento che un passo dietro l’altro la Sfida si può vincere.
Penso alla mano prodiga e sapiente di quanti tra i colleghi di discipline artistiche hanno saputo imprimere su pareti e porte un “segno” visibile della loro storia, catturare frammenti di vita, un palpito di gioia, dar forma a un’emozione, ad un impulso.
In fondo basterebbe fidarsi l’uno dell’altro … per fare di quei “residui di valori” nuova forza creatrice e continuare a guardarsi negli occhi, nell’illusione di offrire un motivo in più per non desistere, o insistere a portare in alto lo sguardo di chi si volge dall’altra parte perché non vuole o non sa “remare insieme”.
Un “dono” inatteso di palingenesi, e non solo interiore, occhi più arguti per tornare di nuovo a entusiasmarsi, per far vibrare le coscienze, per rimettersi in gioco “controcorrente”.
Auguri ,Emanuela, di Buon Anno