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diretto da Romano Luperini

Il mondo dopo Gaza sarà a lungo popolato dai milioni di spettatori “che a distanza assistettero impotenti allo sterminio di decine di migliaia di persone su una stretta striscia costiera e furono testimoni dell’applauso o dell’indifferenza dei potenti. Essi vivranno con una ferita interiore e un trauma che durerà a lungo”. Così inizia la riflessione di Pankaj Mishra contenuta nel suo nuovo libro Il mondo dopo Gaza, (Guanda, 2025, traduzione Tiziano Lo Porto) su una catastrofe di cui si stenta a misurare la portata.

Si tratta della stessa disperazione, così ben descritta da Czeslow Milosz in “Campo dei Fiori”, generata dal senso di impotenza e angoscia vissuto a Varsavia nel 1943 mentre, a poca distanza da dove si trovava, i nazisti procedevano all’obliterazione del ghetto. Testimone della indifferenza dei molti davanti “alla solitudine dei morenti”, come accadde, immagina il poeta, per Giordano Bruno nella piazza del rogo.

I rumori dell’annientamento del ghetto di Varsavia furono coperti dalla musica di un lunapark mentre le immagini della carneficina di Gaza furono offuscate dai politici che si scagliarono contro La Corte Penale Internazionale e dai media che si prestarono a fungere da stenografi dei portavoce dell’esercito e dei leader politici, secondo la denuncia del poeta palestinese Mohammed el- Kurd. Egli cita il caso emblematico del memorandum interno del New York Times che invitava i redattori ad astenersi dall’usare, per Gaza e la Cisgiordania, locuzioni incriminanti quali “campi di rifugiati”, “territori occupati” “pulizia etnica”!

Il libro di Mishra è particolarmente necessario oggi non solo perché ripercorre la storia del sionismo e di Israele illuminandone i nodi cruciali, ma perché compie questa operazione di preziosa ricostruzione storica intrecciandola agli inascoltati appelli di testimoni illustri, da Hannah Arendt, che già nel 1946, in una lettera a Gershom Scholem, avvertiva che uno Stato Nazione ebraico avrebbe costituito una strategia stupida e pericolosa, al filosofo Yeshayahu Leibowitz, che, all’indomani della vittoria del 1967, sosteneva che l’occupazione avrebbe corrotto gli occupanti; a Zigmunt Bauman il quale, nel 1971, ammoniva che non esiste un’occupazione umana, che l’occupazione da parte di Israele dei territori palestinesi non era diversa da altri esempi storici di occupazione.

Della corruzione preannunciata da Leibowitz fu tragica conferma, pochi anni dopo, la notizia che in Israele si praticava la tortura sui prigionieri palestinesi. Un fatto sconvolgente per Jean Améry, un sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti e, fino a quel momento, un sostenitore dello Stato di Israele. Amery era e rimane la conferma di quanto sosteneva Levi: chi è stato torturato, non uscirà mai da quella condizione. Quella di Primo Levi è la voce più ricorrente, si direbbe rivesta una funzione cardinale, nella riflessione di Mishra. Levi che all’indomani dell’invasione del Libano da parte dell’esercito israeliano, nel 1982, manifestava tutto il suo sdegno per la carneficina in atto chiedendo il ritiro dell’esercito e invitando i governanti di Israele a dimettersi.

Il libro nasce, confessa Mishra, dal bisogno di alleviare il senso di oppressione insopportabile generato dalla catastrofe palestinese e al contempo come reazione alla strumentalizzazione della Shoah messa in atto da Israele anche in questo frangente, come negli ultimi 60 anni, per giustificare l’occupazione e lo spossessamento dei palestinesi sulla base dell’impietoso principio, espresso da Ze’ev Jabotinsky, uno degli ideologi del sionismo vincente, che “solo i forti, coloro che colpiscono per primi, meritano di vivere”. Principio che radica il progetto sionista direttamente nel solco coloniale. Lo scrittore confessa di aver cercato conforto in Amery, Levi e Bauman, ma di non aver trovato messaggi incoraggianti in nessuno dei tre e in particolare nella visione di Levi dell’irredimibile, duratura degradazione umana. Il tempo sembrerebbe aver dato ragione a Levi il quale sosteneva che l’Olocausto costituisce “un’offesa insanabile, un’inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia” (La tregua).

Mishra rilegge la storia della formazione dello Stato di Israele anche attraverso la lente della riflessione anticoloniale, in particolar modo quella riguardante la storia recente della sua India. Il sionismo ed Israele per i nazionalisti induisti costituirono punti di riferimento importanti. Come lo fu, sinistramente, il nazionalsocialismo di Hitler. Nella casa dei suoi genitori, l’autore ricorda la foto di Moshé Dayan alla parete e il Mein Kampf nella libreria. Questa prospettiva storica, consente a Mishra di misurare con lucidità le derive dei leader israeliani soprattutto per quel che riguarda la politica espansionista e l’affermarsi di un feroce nazionalismo etnico giustificato addirittura come lotta anticoloniale. Lo stesso Bauman ricordava che era andato via da Israele per la sua politica nazionalista, lui che era fuggito dal soffocante nazionalismo polacco.

La memoria della Shoah

Nello scandagliare le vicende e le tappe significative degli ultimi 80 anni, Mishra si sofferma sull’asse portante del processo di rielaborazione della memoria della Shoah, per i primi vent’anni del dopoguerra ai margini del discorso non soltanto in Europa e negli USA ma nello stesso Israele dove era considerata un capitolo da dimenticare: è a questo proposito eloquente la definizione dei sopravvissuti approdati in Palestina data da Ben Gurion che li considerava “rifiuti umani”. Il processo di revisione venne avviato da Begin negli anni ’70 e fu utilizzato per il perseguimento di fini politici, in particolar modo come schermo e giustificazione dell’occupazione.

Analizzando questa straordinaria metamorfosi, lo scrittore si sofferma sul ruolo svolto dalla Germania in questo processo culminato nei mesi scorsi nell’incondizionato appoggio offerto alla campagna di distruzione scatenata dall’alleato israeliano, ribadito proprio mentre il numero dei morti civili sotto le bombe a Gaza superava la soglia dei 40.000. A schierarsi con la scelta dei politici a fianco di Israele anche intellettuali prestigiosi, quali Jurgen Habermas e la scrittrice Herta Muller, mentre il governo reprimeva duramente qualsiasi dimostrazione di sostegno alla Palestina, arrivando a colpire anche scrittori, artisti e attivisti ebrei tra i quali, Candice Breitz, Deborah Feldman, Masha Gessen, Nancy Fraser rimproverati o silenziati “dai figli e nipoti di coloro che sterminarono le loro famiglie e che osano accusarci di antisemitismo”. Per comprenderne la genesi e la portata, Mishra analizza le tortuose modalità ideate dai tedeschi nel processo di denazificazione il cui inizio è segnato dall’affermazione di Adenauer secondo il quale gli stessi tedeschi erano stati vittime di Hitler. Negli anni del dopoguerra, la Germania, lungi dal fare davvero i conti con il proprio passato come vuole la vulgata, cercò un’assoluzione morale per rientrare nel novero delle nazioni civili e la ottenne con i 3.45 miliardi di marchi di risarcimenti a favore dello Stato di Israele, decisi agli inizi degli anni ’50. L’altra faccia della medaglia fu costituita da “un invadente filosemitismo”, che faceva inorridire Amery. La simbiosi della Germania con Israele suscitò l’amarezza di Primo Levi portandolo a condannare lo “spregiudicato gioco politico” (I sommersi e i salvati) che accelerò la riabilitazione della Germania a pochi anni dallo stermino di sei milioni di ebrei. Era lo stesso Paese che aveva perseguito solo una piccola minoranza di nazisti, assorbendo i restanti nell’amministrazione dello Stato e della giustizia e così riabilitandoli di fatto.

Oggi, ha osservato la studiosa Esra Özyürek in Subcontractors of Guilt (2023), il processo di sanificazione della Germania continua attraverso la demonizzazione della minoranza musulmana accusata di antisemitismo nonostante numerose ricerche confermino che il 90 per cento degli atti di antisemitismo sono commessi da tedeschi di destra.

Ancora a proposito del mistificante tipo di denazificazione intrapresa nel dopoguerra, è opportuno ricordare che la RFG, lungi dal ripudiare la politica imperiale del passato, continuò a sostenere il mantenimento del dominio coloniale dando il suo appoggio di volta in volta allo Shah di Persia, alla Francia in Algeria, al Belgio in Congo, al Portogallo di Salazar, al Sud Africa dell’apartheid, agli USA impegnati in Vietnam e dal 1966 al 1969 ebbe anche un ex nazista, Kurt Georg Kiesinger, come Cancelliere. Rimanendo così di fatto nella cerchia delle potenze coloniali. Come, d’altra parte fecero gli Stati Uniti, in relazione ai nativi e agli afroamericani. Mentre si dissolveva l’alleanza progressiva tra leader ebrei e neri, personificata dal Rabbino Heschel e da Martin Luther King.

La linea del colore

L’altro aspetto strutturale del libro è dato dall’esame del discrimine che continua ad operare seppur con importanti aggiustamenti per la cosiddetta “linea del colore”, come la definì il pensatore afroamericano W.E.B.DuBois che, alla fine dell’Ottocento, vide nel razzismo molto più che un semplice pregiudizio. Negli anni ’30 e ’40 molti pensatori americani lo consideravano, insieme con la politica imperiale e coloniale, uno degli elementi costitutivi del nazismo. Mishra cita l’intervento di Langston Hughes al congresso internazionale antifascista di Parigi del 1937: “Noi neri non abbiamo bisogno che ci dicano cos’è il fascismo in azione. Lo conosciamo. Sappiamo. Le sue teorie sulla supremazia nordica e sulla repressione economica sono da tempo realtà per noi.”

La religione della bianchezza, secondo Du Bois, offriva ai suoi aderenti “la proprietà della Terra nei secoli dei secoli” alimentando un violento fanatismo. Emblematico anche il caso di A.J.Balfour, il padrino dello Stato di Israele, che alla Conferenza di Pace di Parigi, nel 1919, replicò così alla proposta del Giappone di inserire una clausola di uguaglianza razziale nel Palazzo della Società delle Nazioni: “Non riesco a credere che un uomo dell’Africa Centrale sia stato creato uguale a un europeo”.

Molti, nel campo dei colonizzati e non solo, possono a buon diritto riconoscere la decolonizzazione come l’evento più significativo del ventesimo secolo. La guerra fredda ostacolò la ricognizione piena delle responsabilità delle potenze occidentali divenute le custodi del liberalismo e della democrazia, in quanto eredi dell’Illuminismo e nemesi del totalitarismo. Democrazie che non presero atto della loro stessa storia di spossessamento e si rifiutarono di guardare al futuro, di immaginare quei cambiamenti che sarebbero accaduti in luoghi remoti e ostili, appena liberatisi da una secolare oppressione militare. Un caso peculiare per Mishra è rappresentato dall’India dove all’indomani della partenza degli inglesi sembrò aprirsi un ampio orizzonte di emancipazione. E tuttavia il razzismo, rappresentato dal sistema delle caste, continuò a ordinare la vita sociale ed economica, in cui il disprezzo e l’odio per le minoranze offrivano, secondo Du Bois, una sorta di compensazione pubblica e psicologica alle masse diseredate.

Il tradimento delle speranze suscitate dalla decolonizzazione è ben rappresentato oggi da un autocrate quale Modi. E tuttavia, sempre oggi, il passo compiuto dal Sud Africa con l’accusa eclatante di genocidio avanzata dagli eredi di Nelson Mandela dimostra una consapevolezza e un’indignazione ancora diffuse tra i dannati della terra, che travalicano i confini degli Stati. Un’indignazione che nasce dalla consapevolezza che le potenze occidentali operarono in sintonia per mantenere “un ordine globale basato sulla razza in cui era normale sterminare, terrorizzare, imprigionare africani e asiatici”.

Ne aveva consapevolezza chiara Rosa Luxemburg che nella carneficina della prima guerra civile europea vide le stesse belve distruttive scatenate dall’Europa in altre parti del mondo. Una visione riproposta da Aimé Césaire nel suo Discorso sul colonialismo,a proposito di Hitler, il quale apparve particolarmente crudele perché si accanì contro l’uomo bianco. Ma egli applicava gli stessi metodi coloniali europei che erano stati fino ad allora riservati agli arabi algerini, ai coolie dell’India e ai neri africani.

Mishra ricorda anche la posizione di Günther Anders, una delle rare voci che negli anni ‘60 si domandava perché quelli che parlano di Auschwitz tacciono rispetto a Hiroshima. Per lui anche i vietnamiti sotto il napalm americano rappresentavano le vittime bruciate ad Auschwitz. Così come Hitler dette ai proletari tedeschi gli ebrei rispetto ai quali potevano sentirsi superiori, così gli Usa davano ai neri americani i popoli sottosviluppati dell’Asia. E’ quello che è successo in Israele con Begin che offrì gli arabi come capri espiatori agli ebrei mizrahim fino ad allora discriminati dall’elite ashkenazita.

Dopo aver offerto il quadro delle atrocità commesse dall’Occidente sulla base del principio della superiorità etnica – schiavismo, Shoah, genocidi, razzismo ancora imperante – Mishra si domanda quale lezione ne può trarre il presente anche di fronte all’abominio continuato dell’offensiva su Gaza. È urgente, secondo lo scrittore, tentare di contrastare il senso di stanchezza e di rinuncia di cui pure parla Levi. E lo si può forse fare collegando le diverse storie di sofferenza, esplorando senza ipocrisie o secondo fini un passato disastroso. Questo è possibile fare anche attraverso affiliazioni che oltrepassano i confini che uniscono storie simili, simili sofferenze e in cui la linea del colore si offusca. Contribuendo così a immaginare una solidarietà più ampia, una nuova fratellanza. Ci limitiamo a riportare due degli esempi di affiliazioni che Mishra cita.

Il primo è quello di Ahmed Kathrada, un membro dell’ANC, musulmano, il quale in carcere con Mandela a Robben Island, legge e annota Il Diario di Anna Frank. Kathrada aveva visitato nel 1951 il campo di sterminio di Auschwitz e in carcere leggendo Frank intuisce un’idea di razza indipendente dalla colour line di Du Bois come marcatore di uno stato inferiore. “Le esperienze di una vittima musulmana del colonialismo razziale a Robben Island e di una ragazza ebrea nascosta ad Amsterdam occupata dai nazisti non erano incommensurabili”. Esperienza fatta dallo stesso Du Bois due anni prima visitando le rovine del ghetto di Varsavia: “Il problema razziale a cui ero interessato trascendeva le barriere di colore, di costituzione, di credo e di status, ed era una questione di modelli culturali, insegnamenti perversi, odio e pregiudizio umano, che raggiungevano ogni sorta di persone e causavano un male infinito a tutti gli uomini”.

Il secondo è quello rappresentato dal protagonista del romanzo di Saul Bellow, Sammler’s Planet, un libro che travalica per forza d’arte le intenzioni e le fissazioni del suo autore, ossessionato, come il protagonista del romanzo, dalla minaccia primordiale rappresentata dagli afroamericani. Sammler è un sopravvissuto ai campi di sterminio, pieno di pregiudizi e orgoglioso del suo nuovo status negli USA, fortemente avverso al multiculturalismo newyorkese, insofferente dei neri, il quale, tuttavia, davanti alle violenza spietata scatenata dal genero contro un nero inerme, un borsaiolo che aveva provato a scipparli, si rende conto che esiste una sofferenza indivisa, che trascende o offusca la linea del colore. Si rende conto di quanto velocemente la vittima possa trasformarsi in un carnefice disumano e accettare “l’idea che uno possa recuperare o stabilire la propria identità uccidendo, diventando così pari a chiunque, pari ai più grandi”.

Auspici, quelli di Mishra, che sembrano incompatibili con l’illimitata e inarrestabile brutalità del presente e che portano Chris Hedges, un altro attento osservatore delle vicende mediorientale, già inviato del NYT in Israele e autore del libro A Genocide Foretold, a preconizzare un futuro molto fosco, segnato da un regresso, quale quello preconizzato da Blanqui nell’Ottocento, verso un nuovo medioevo, caratterizzato e sostenuto questa volta “dalla sorveglianza di massa, l’intelligenza artificiale, la cancellazione delle libertà civili e del giusto processo, la polizia militarizzata, contrassegnato dal terrore, l’insicurezza e il caos”.

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