
Il divieto degli smartphone alla luce del pensiero di Bernard Stiegler
Quello che manca, sempre, nel non memorabile argomentare della sinistra nelle discussioni su nuove tecnologie ed educazione – ultima puntata: il divieto degli smartphone alle superiori – sta in Bernard Stiegler; più precisamente in un suo libro dal bellissimo titolo, che si può leggere lasciando il punto dopo «cura», o togliendolo: Prendersi cura. Della gioventù e delle generazioni (Orthotes, 2014, ed. fr. 2008).i
Psichico, sociale, tecnico
Al centro del pensiero di Stiegler sta l’idea che lo sviluppo psichico individuale, la dimensione socio-culturale collettiva (il «milieu simbolico») e le infrastrutture tecniche (chiamate «psicotecniche») concorrano tutti alla costituzione dell’individuo («individuazione»).
L’uomo non è una monade psico-biologica. Ciò che impara del mondo non si fonda soltanto sulle sue percezioni individuali e sulla memoria personale. In quanto essere sociale, buona parte dei suoi contenuti psichici (“interni”) sono in realtà collettivi e culturali (“esterni”): gli preesistono, nella forma di «rappresentazioni psichiche ereditate che non sono state prima vissute come ritenzioni primarie dalla coscienza […], ma che sono trasmesse dal milieu simbolico» (p. 49). Queste rappresentazioni ereditate possono essere considerate dei «ricordi sociali e materializzati» (p. 50) ed è evidente che si tratta della cultura trasmessa di generazione in generazione, attraverso l’educazione formale e informale.
Ma questi contenuti psichici e culturali, individuali e sociali, possono essere conservati e tramandati solo perché vengono “inscritti”, cioè materializzati, in supporti tecnici, il cui archetipo è il libro. La scrittura è in questo senso una «psicotecnica», una tecnologia attraverso la quale l’uomo esteriorizza i propri contenuti psichici (ma che, come abbiamo appena detto, non sono solo “suoi”). Ma la reversibilità tra esterno e interno è completa: anche la scrittura non è qualcosa di esteriore all’uomo, perché è stata “interiorizzata”, plasmando intimamente la nostra stessa costituzione psichica. Psiche e tecnica sono due facce della stessa medaglia, due entità simultanee e interrelate.
Secondo Stiegler, la difficoltà a concepire questa stretta connessione tra individuale, sociale e tecnico dipende da un errore che nella filosofia occidentale è originario e che risale e Platone, che avrebbe concettualizzato la psiche in una forma monca, considerando il pensiero, il logos, come attività speculativa e disincarnata, indipendente dalla sua materializzazione in supporti, e fondando così una secolare tradizione di diffidenza verso la tecnica.
Le «psicotecnologie» come «pharmaka»
Ma da un secolo a questa parte la psicotecnica della scrittura è stata affiancata da nuove e potentissime «psicotecnologie»: la radio prima, poi la tv, quindi internet, hanno mutato l’infrastruttura tecnica in cui viviamo, cioè i supporti per “esteriorizzare” i nostri contenuti psichici e per conservare i contenuti del milieu simbolico, andando ben oltre il libro. Per Stiegler non si può ragionare di educazione se non si assume come dato di partenza questa mutazione epocale. Egli è dunque un cantore dell’obbligo di aderire al presente, e chi obietta è un nostalgico conservatore? È solo un Maragliano o un Floridi d’oltralpe? Nient’affatto.
Per il filosofo francese, le psicotecniche sono costitutivamente ambigue. Sono «pharmaka», sia “farmaco” sia “veleno”. È d’altra parte il principio stesso della farmacologia: dipende dalla quantità assunta, che la stessa sostanza curi o uccida. Le psicotecniche e le psicotecnologie possono in altre parole liberare come soggiogare: anche la scrittura. Il libro può diventare strumento di pensiero critico, come veicolo di dogmi.
Ma Stiegler si concentra sopratutto sul caso dei sofisti, “intossicatori” di giovani secondo Platone. Essi, come sappiamo, usavano la psicotecnica della scrittura, nella fattispecie della sua traduzione in forma oratoria, badando soltanto al criterio dell’efficacia persuasiva, un criterio indifferente al punto di vista etico. Il filosofo francese perciò considera giusta la critica socratico-platonica nei loro confronti: giusta ma insufficiente. Platone, con la sua rimozione della tecnica, si impediva di comprendere adeguatamente la posta in gioco nell’educazione dell’anima dei giovani, rifiutandosi di affrontare il problema posto dai sofisti: quello appunto delle psicotecniche.
Dunque Stiegler è un cerchiobottista del giusto mezzo, un cantore dell’adagio strumentalistico e filosoficamente rozzarello de “il coltello serve sia a uccidere che a tagliare, dipende dall’uso che se ne fa”? Nient’affatto.
Le tecniche, in quanto psicotecniche, non sono affatto neutrali, strumenti di cui si possa fare buono o cattivo uso: essi, come si è visto, ci costituiscono in quanto esseri umani. Un pharmakon non è un semplice “strumento”.
La minaccia all’attenzione
La scrittura (e la lettura) sono sempre state il fondamento dell’educazione; almeno, lo sono da quando, con la fine della trasmissione culturale per via esclusivamente orale, la cultura si è depositata nelle biblioteche. Anche la scuola laica, pubblica, di massa, è stata edificata intorno a questa psicotecnica. Dalla Rivoluzione francese, infatti, con il progetto politico di un’educazione universale aperta a tutti, scrittura e lettura hanno cessato di essere prerogativa di un élite chiamata a governare la società.
Stiegler ricorda come scrittura e lettura siano al centro del progetto dell’Illuminismo – inconcepibile senza la stampa e la diffusione dell’alfabetizzazione: progetto che, ci ha insegnato Kant, consiste nel sapere aude, nell’osare far uso della propria ragione senza delegarlo ad altri; detto in altre parole, sempre kantiane, nel diventare maggiorenni, uscendo dallo stato di minorità.
L’interiorizzazione della cultura attraverso lettura e scrittura è fondata sull’attenzione profonda che l’atto di leggere e scrivere richiede. La scommessa della scuola di massa è consistita, lungo l’arco storico della modernità, nell’ambizione di garantire a un numero crescente di persone lo spazio e il tempo adeguati a sviluppare questa forma di attenzione (spazio e tempo di otium, di scholé). L’istituzione scolastica è per Stiegler un’istituzione di cura, come la famiglia: quella cura dovuta dagli adulti ai giovani, da chi ha raggiunto la maggiore età a chi ancora deve maturarla, e per questo deve essere riconosciuto e tutelato nella sua condizione di minore.
Ma nella nostra tarda modernità le cose sono cambiate. La capacità delle industrie di intrattenimento di cortocircuitare lo spazio protetto e il tempo lento della scuola è cresciuta incontrollata, e per una ragione precisa: la politica statale ha totalmente abdicato al proprio ruolo normativo, lasciando che a fare le regole fossero quelle che Stiegler chiama «industrie di programmi», in contrapposizione alle «istituzioni di programmi» come la scuola. Le prime hanno ormai in mano un vero e proprio «psicopotere» incontrollato e incontrollabile.
L’attenzione che le industrie di programmi sollecitano non è quella fondata sui circuiti lunghi dell’istruzione e della trasmissione culturale intergenerazionale: esse, per l’ovvia ragione che il loro obiettivo è aumentare i propri profitti trasformando anche l’attenzione in una merce su cui speculare, hanno bisogno di soggetti pulsionali, disponibili ad essere passivamente manipolati da un marketing della sollecitazione nervosa, del trascorrere “multitasking” da uno stimolo presente all’altro; l’istruzione, o istituzione di programmi, al contrario, si fonda sul rinvio superegotico della soddisfazione, sulla concentrazione e l’interiorizzazione, sulla prospezione verso il futuro. Ma Stiegler, tutt’altro che arcigno, ricorda che tale rinvio diventa accettabile solo se non è fine a se stesso, ma se è funzionale a un desiderio di cui ci mettiamo in attesa, giocando linguisticamente sulla somiglianza paronomastica (o forse etimologica? non saprei), che c’è in francese tra attention e attente, attenzione e attesa. Capacità d’attenzione e desiderio del futuro sono la stessa cosa e sono la forma di intelligenza più tipicamente umana.
Come detto, Stiegler ritiene che quella che chiama «battaglia per le intelligenze» (cioè per l’attenzione) non possa essere vinta se non si assume come dato di partenza l’esistenza delle psicotecnologie e il loro carattere non accessorio o accidentale per la comprensione dello specifico umano. Tuttavia la sua analisi critica lo pone al riparo dalla corrività del progressismo attuale, che di fronte al tema dell’impatto delle nuove tecnologie sull’educazione risponde invariabilmente con un paternalismo alla rovescia (non meno detestabile del paternalismo autoritario contro cui si scaglia), riducendo la questione a una incomprensione invidiosa dei vecchi verso i giovani, verso il loro mondo e il loro modo di esprimersi … Una contrapposizione moralistica, scarsamente politica, scarsissimamente materialista.
Le nuove tecnologie, nelle attuali condizioni storiche, sono un veleno, non un farmaco. Non si può semplicemente pensare di farne “buon uso”, così come sono, o di insegnarne un “uso critico e consapevole”, perché non sono “a nostra disposizione”; sono anzi infrastrutture tecnico-psichiche gestite secondo logiche economiche di estrazione di plusvalore, di cui potremo fare un uso emancipativo, un farmaco, solo se poteri pubblici e mondo adulto difenderanno il proprio dovere – anche legislativo e normativo – di prendersi cura della gioventù e delle generazioni, sottraendole all’intrusione dello psicopotere. La battaglia per le intelligenze non è una battaglia anti-tecnologica, come crede chi vede luddisti ad ogni angolo, ma una battaglia politica.
Conclusione: torniamo a noi
Non c’è dubbio che la concezione etico-politica degli interventi legislativi di questa destra non sia affatto quella della cura verso i giovani, ma quella dell’accusa moralizzante e della repressione. Non c’è alcun dubbio che iniziative come il voto in condotta o il divieto di smartphone, così concepiti, abbiano più della battaglia simbolica che serve da distrattore di massa da riforme ben più sostanziali e inaccettabili.
Ciò non toglie che a sinistra le idee siano parecchio confuse, quando si difende il diritto inalienabile allo smartphone, o quando ci si illude che basti invocare l’autonomia scolastica o l’accordo “locale” tra genitore e figli, insegnanti e studenti, ignorando la presenza del potentissimo moloch dello psicopotere. Per mettersi effettivamente dalla parte di una politica democratica e progressista, mancano totalmente radicalità d’analisi e chiarezza di visione.
i L’apparato concettuale di Stiegler è piuttosto complesso, tanto da aver bisogno di un vero e proprio glossario. Proverò a tradurlo in termini più correnti, filosoficamente forse un po’ meno rigorosi, anche se spero non tanto da tradirlo. Citerò comunque direttamente, quando utile, termini e definizioni di Stiegler.
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Una questione fondamentale, connessa probabilmente con un cambiamento ontologico piuttosto che antropologico, è quella legata alla perdita della distinzione tra la realtà e la finzione. La cultura occidentale ha lavorato per secoli con l’intento di costruire un concetto di realtà e la scienza si è accreditata soltanto quando ha potuto contare su qualche entità considerata come reale, come ‘qualcosa che sta lì’ e che noi possiamo studiare ‘in quanto sta lì’. Questo concetto sembra essere ormai irrilevante: non a caso, gli studi scientifici sono molto poco ricercati negli ultimi decenni in quasi tutto il mondo evoluto e l’Europa registra un calo generalizzato degli accessi a tali studi. Lo studio del reale in quanto tale diventa perciò sempre meno interessante rispetto alla fruizione del mondo fasullo presentato dalla televisione e dai ‘mass media’. Sennonché mi preme ribadire, in polemica con buona parte della filosofia contemporanea e, in particolare, con Emanuele Severino e Umberto Galimberti, che il male del nostro tempo non è costituito dal dominio della tecnica o della ‘tecnoscienza’ (semmai il problema che qui si pone è quello del controllo sociale sia sugli indirizzi e sui finanziamenti della ricerca scientifica, sia sul modo in cui vengono applicati i risultati di tale ricerca); mi preme ribadire, dicevo, che occorre prendere le mosse dai rapporti di produzione e che tali rapporti vanno ripensati dal punto di vista antropologico e culturale. La domanda da porre è allora la seguente: siamo davanti a un fenomeno nuovo rispetto al modo di produzione capitalistico o siamo di fronte all’avvento del capitale nella sua forma pura? In fondo, si potrebbe dire che soltanto oggi, nel mondo interconnesso, il capitale ha assunto i tratti che Marx gli aveva attribuito nei “Grundrisse”, i famosi “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”, in cui Marx previde la logica del capitale globale, l’intreccio con il processo di conoscenza (il ‘General Intellect’) e il modo in cui il capitale si beffa della sovranità dei singoli Stati e assorbe tutto il potenziale cognitivo della società: questa logica corrisponde effettivamente a ciò che sta accadendo. Casomai, se un problema va posto rispetto allo scenario disegnato da Marx, è quello concernente la complessità conflittuale delle declinazioni culturali e valoriali, che si manifesta nel mondo attuale. È vero che abbiamo un capitale globale, ma è anche vero – e la fine della globalizzazione lo dimostra – che questo capitale tende a realizzarsi in forme di vita e in contesti culturali differenti a seconda che si tratti di capitalismo asiatico (giapponese, cinese, indiano) o di capitalismo latino-americano, nordamericano, europeo. Sono proprio questi i temi che il Marx degli ultimi anni aveva analizzato nei suoi appunti sull’India, sulla Cina e sulla Russia. In conclusione, va detto che è importante spostare il ‘focus’ dell’analisi dalle strutture ai soggetti. Oggi è fondamentale cercare di capire perché nel capitalismo contemporaneo si sia determinata una frattura tra la dimensione materiale e la dimensione simbolica, perché soggetti che sono radicati in determinate strutture materiali abbiano una mentalità così distante dalla loro condizione economica e sociale e donde attinga la sua potenza il torpore collettivo che, nel mondo occidentale e, ormai, anche nel mondo extraoccidentale, alimenta un complesso di egemonie e di politiche. Si tratta di domande molto ampie, a cui chiunque legga criticamente la realtà dovrà rispondere non solo sul piano accademico ma anche, e soprattutto, nella pratica sociale dei prossimi anni.