Pascoli, l’indicibile e la classe
Premessa
Presento qui qualche riflessione nata dalla necessità dell’incontro delle classi quinte, che si rinnova negli anni, con una personalità letteraria profondamente ambigua e perturbante come quella di Giovanni Pascoli. Nel farlo, non mi soffermerò sulle concrete pratiche didattiche e sulla lettura dei singoli testi, ma cercherò di proporre un discorso complessivo sulla legittimità e utilità degli approfondimenti biografici per la migliore comprensione di un autore e, nel caso specifico, sull’opportunità o meno di affrontare assieme alla classe delle tematiche difficili o addirittura scabrose.
Ancora oggi infatti, attorno alla vita di Pascoli, circola una forte pruderie, eco forse del modo in cui la sorella Maria ha voluto consegnare ai posteri un’immagine idealizzata del fratello, mondata da ogni “impurità”. È ormai nota l’opera di cura e di censura operata post mortem da Mariù sulle carte di Giovannino: testi inediti rimaneggiati (a volte anche senza intenti mistificatori), scrittura biografica ravvicinata ma sapientemente orientata in alcune direzioni e con enormi omissioni (non necessariamente volontarie, non di rado vere e proprie rimozioni operanti in Mariù stessa), lettere e documenti compromettenti amputati o distrutti, specie quando incrociavano in modo inaccettabile le tematiche tabù dell’eros, dei fidanzamenti, dei propositi matrimoniali del fratello.
Ida
È noto che nella biografia di Pascoli c’è un grande buco nero proprio in corrispondenza di affetti familiari sempre esibiti e, al tempo stesso, sempre travestiti. Molto si è insistito sul rapporto con Maria, compagna esclusiva degli ultimi quindici anni della vita del poeta, con allusioni probabilmente del tutto fuori bersaglio alla possibilità di una relazione incestuosa; mentre è rimasta a lungo nell’ombra (se non per collegarne il matrimonio e la fuga dal “nido”, nel 1895, con il tracollo emotivo di Pascoli) quella che, nella poesia pascoliana, è la presenza femminile più importante, la sorella Ida. La sottovalutazione di questa figura nell’alimentare la felicità esistenziale e poetica pascoliana soprattutto dei primi anni di Massa (1885-87) deriva probabilmente dal travisamento di alcuni passaggi fondamentali di una vicenda che difficilmente si può non definire amorosa.
Fortissima la censura attorno a questa vicenda, come pure quella che del resto ha fatto calare per decenni un silenzio omertoso sulle responsabilità del terribile assassinio di Ruggero Pascoli (un giallo in cui, a quanto sembra, tutti sapevano il nome dell’assassino: si veda in proposito la ricca indagine curata da Rosita Boschetti, direttrice del Museo Casa Pascoli di San Mauro, Omicidio Pascoli. Il complotto, Milano-Udine, Mimesis, 2014). Si preferisce attribuire la devastazione prodotta nella mente di Pascoli dalla “fuga” e dal matrimonio della sorella a un inverosimile malcontento economico piuttosto che a una causa profondissima e straziante che non può essere detta.
Poesie familiari
Per capire di più basta leggere lo splendido libro di Cesare Garboli (Trenta poesie familiari di Giovanni Pascoli, Torino, Einaudi, 1990; recentissima una nuova edizione pubblicata da Quodlibet, a cura di Emanuele Trevi), al tempo stesso racconto critico, antologia commentata e saggio filologico, in cui vengono riportate alcune poesie “familiari” di Pascoli, pubblicate da Maria dopo la morte del poeta (con il titolo Poesie varie), risalenti al periodo singolarmente felice della vita in comune tra i tre fratelli, a Massa, quando il poeta, ottenuto l’incarico di insegnamento presso il Liceo Pellegrino Rossi, aveva finalmente potuto prendere con sé, dopo anni di lontananza dovuti alle note tragedie familiari, le due sorelle più piccole, all’epoca appena ventenni. Fino a quel momento Ida e Maria avevano vissuto a Sogliano, dove nel 1868 erano state accolte dalla zia David, dopo la morte del padre e della sorella Margherita; e dove dal 1874, dopo la morte della madre, di Luigi e il matrimonio del fratello-capofamiglia Giacomo (che morirà anche lui nel 1876), furono definitivamente ospitate nel convento delle Agostiniane.
Il momento della ricostruzione del “nido” familiare, a metà degli anni Ottanta, è appunto quello delle poesie cui si faceva cenno; poesie pervase da un senso di gioia e leggerezza quasi primaverili. E non è difficile accorgersi, anche grazie al commento di Garboli, di come lo sguardo che si posa su Ida sia quello di un innamorato.
Si prenda la poesia più antica della serie, la poesia “Ida!” (1882):
Vengo a te da lontano ermo paese,
ti vengo nel tuo giorno a salutare;
ti vengo a dir che non ci son difese
di monti e piani, di fiumi e di mare,
per il mio cuor, pel cuore
di tuo fratello, o mio soave amore!
[…]
Certo, potrebbe trattarsi di un affetto fraterno che si esprime attraverso una retorica tardo-romantica tutt’altro che rara nel nostro secondo Ottocento. Ma che dire dell’alcaica “Ida” (1886), forse la poesia d’amore più trasparente scritta da Pascoli? Vale la pena di leggerla per intero:
Al suo passare le scarabattole
fremono e i bricchi lustranti squillano;
e la grave padella
col buon paiòl favella:
qual è codesta polledra, dicono,
che ancor non doma nitrisce all’aure,
e tremar tutta sembra
nelle virginee membra?
Non sanno: e invano di lei dal povero
foco la vecchia pentola brontola:
sol la silenzïosa
lampada sa qualcosa:
sa come a notte le vola trepida
sul foglio e arguta la penna scricchiola —
si volge al suo chiarore
l’occhio interrogatore — ;
la reginella pensa discendere,
chè i tenui lari più non le arridono;
e già, con atto stanco,
si scioglie il grembiuol bianco;
depone il breve serto dagli aurei
capelli, al giogo declina docile
la sua rosea cervice,
lieta ad altrui s’addice.
Il tremito prodotto da Ida al suo passaggio persino negli umili utensili da cucina, tremito che riecheggia nel saltellare degli sdruccioli «scarabattole», «fremono», «squillano»; la mescolanza di una caratterizzazione domestica e di elementi sensuali, sia pure attenuati da reminiscenze omeriche — «polledra» che «non doma nitrisce all’aure», gli «aurei capelli», la «rosea cervice»; soprattutto, la qualifica di «reginella», in più occasioni associata da Pascoli alla tematica matrimoniale (e si veda la «reginella dalle bianche braccia» in Myricae) — fanno pensare a un sentimento diverso da quello che si presume possa essere rivolto a una sorella.
Ma poi troviamo una dichiarazione ancora più esplicita nella conclusione de “L’amorosa giornata” (1885), serie in quattro momenti tutta dedicata a Ida:
Or che notturna infuria la tempesta,
felice ascolto l’equinozïale
pioggia strosciare, assidua, lenta, eguale:
ché a fuggevoli baci il tuon ridesta
sovente le tue labbra fremebonde;
gli occhi no, che il guancial timidi asconde.
Muove il tuo cuore quasi in rapid’onde;
poi si appisola e dorme dolcemente,
sì che il mio che lo culla appena il sente.
Per una volta il contesto in cui si inseriscono i «fuggevoli baci» e le «labbra fremebonde» di Ida viene chiarito in modo abbastanza credibile da Maria, che pure non spiega e non può spiegare le connotazioni sensuali dell’aggettivazione, così come non può spiegare perché protagonista dell’ «amorosa giornata» sia nella poesia di Giovanni la sola Ida:
«Ora un dolce ricordo di quell’ottobre. Una notte ci fu un temporale tremendo. Un continuo lampo, un continuo tuono; l’acqua e il vento facevano un fracasso indiavolato. L’Ida ed io eravamo spaventate e piangendo chiamavamo Giovannino. Egli aveva appena spento il lume; lo riaccese, si vestì e venne nella nostra camera tra i nostri letti posandoci una mano per una sulla testa. In quella posizione ci raccontava fatti e storielle o commoventi o amene per distrarci dalla paura. Il temporale non smise fino all’ora d’alzarsi, e Giovannino fino a quel momento stette in piedi con le sue braccia aperte su di noi. E con la sua notte bianca, andò a far scuola pieno d’insolita allegrezza per averci assistite e protette. Quante volte abbiamo ripensato a quella notte! Oh! quelle mani!» (Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Milano, Mondadori, 1961).
D’altra parte nel sonetto “Sera” (1886), dedicato a entrambe le sorelle, Maria viene descritta così: «Ma la dolce Maria sta solitaria/ e pensosa in disparte…»: l’evidente eco lessicale da “Il passero solitario” lascia pochi dubbi su quale fosse, fino al matrimonio di Ida, il ruolo di Maria all’interno della triade familiare e nella mente di Pascoli.
Segreti di casa Pascoli
Quello che Garboli lascia intendere, nel suo argomentare concentrico e ad ampie volute, lo psichiatra Vittorino Andreoli lo dimostra in modo fin troppo convincente — tra l’altro attraverso l’analisi di alcuni significativi disegni/ schizzi pascoliani — nell’impressionante I segreti di casa Pascoli (Milano, Rizzoli, 2006); anche se forse Andreoli osa un po’ troppo quando ipotizza che quello dell’Ida sia stato in realtà un frettoloso matrimonio riparatore, imposto da Maria e necessario a interrompere una situazione incresciosa creatasi nella «coppia» troppo poco fraterna Ida-Giovanni.
Senza insistere oltre sull’argomento, che ognuno potrà approfondire sui testi citati e nelle motivazioni (ad esempio il trauma originario dichiarato da Pascoli, il «non ho potuto crescere» che avrebbe circoscritto le sue possibilità di amare all’ambito familiare; si veda anche il progetto di matrimonio con la cugina Morri fatto fallire da Maria, sembra, con una perfida allusione alla «malformazione» di un dito del piede di Giovanni), è interessante chiedersi se e in che modo sapere tutto questo possa aiutarci a capire meglio la poesia pascoliana, e soprattutto a farla comprendere meglio ai nostri studenti. La questioni in realtà sono (almeno) due: da una parte il carattere oggettivamente perturbante di questa tematica familiare e l’opportunità o meno di affrontarla in classe; dall’altra, in generale, l’interrogativo su quali siano le modalità più corrette con cui (e i limiti entro cui) il legame tra produzione letteraria e biografia dell’autore possa essere utilmente indagato.
Vita e opera
Su quest’ultima questione, di ampiezza e portata difficilmente minimizzabili, che impegna da sempre appassionati e studiosi di letteratura, ben poco si può aggiungere qui. Certo, nel periodo relativamente recente in cui si postulava l’autonomia del testo rispetto a chi l’aveva scritto, la stessa riflessione sul rapporto vita-opera sarebbe stata considerata inutile e oziosa, vista l’impossibilità di definire un’astratta realtà extratestuale chiamata convenzionalmente autore; ma abbiamo anche una lunga e consolidata tradizione che mostra invece la fecondità della tendenza a esplorare i legami tra scrittura testuale e vita. Per essere precisi, più che di vita, troppo a lungo ridotta a nozionistico notiziario riprodotto stancamente nei libri di testo, occorrerebbe forse parlare della biografia profonda, delle fantasie e dei fantasmi, da cui l’immaginazione letteraria trae alimento. È questa una linea interpretativa che si può far partire dai sondaggi artistico-letterari dello stesso Freud, con i memorabili saggi su Dostoevskij, su Leonardo, su Goethe, sulla Gradiva di Wiilliam Jensen (in cui però Freud si limitava a una straordinaria analisi tematica del lungo racconto senza ipotizzare rapporti con le dinamiche profonde di un autore di cui non conosceva quasi nulla).
In Italia, dove la psicoanalisi è stata introdotta a livello scientifico dal medico triestino Edoardo Weiss, allievo diretto di Freud e analista tra l’altro di Umberto Saba, le potenzialità del pensiero psicoanalitico nell’ambito dell’interpretazione letteraria sono state intuite ed esplorate per primo da Giacomo Debenedetti. Dopo l’incrocio con uno strutturalismo che in teoria negava la validità di questo tipo di approccio ma sottobanco lo praticava, sotto forma di individuazione di «strutture profonde» che potevano essere attribuite al testo ma anche alla mente dell’autore, grazie ad esempio agli studi di Francesco Orlando, Mario Lavagetto e dello psicoanalista Franco Fornari, abbiamo l’abbondante opera critica di Elio Gioanola, con le sue ricche ricerche attorno al nesso tra la vita e le compensazioni fantastiche ed emotive della creatività in Pirandello, Svevo, Leopardi, Gadda, Pavese, Pascoli stesso (su cui Gioanola ha scritto il saggio dall’eloquente titolo Pascoli. Sentimenti filiali di un parricida, Milano, Jaca Book, 2000). Una panoramica sull’argomento è offerta dallo straordinario e imprescindibile saggio di Michel David, La psicoanalisi nella cultura italiana, purtroppo non più aggiornato dopo il 1990, e ancora da Gioanola, nel capitolo “La critica psicoanalitica” del volume Psicoanalisi e interpretazione letteraria (Milano, Jaca Book, 2005).
È una prospettiva, quella che collega la scrittura alla vita, che affascina sempre i giovanissimi, alla ricerca di sé anche attraverso il confronto con le storie altrui, a patto appunto che la biografia non si separi dalla voce viva del testo e non si riduca a una serie di nozioni prive di qualunque utilità e profondità esistenziale.
Non è escluso che proprio il mancato approfondimento della dimensione affettiva ed esistenziale, di cui la letteratura è una testimonianza, sia pure formalizzata e indiretta, abbia contribuito (assieme a cause più recenti, come quelle legate all’epidermicità della comunicazione social) al progressivo allontanamento dei giovanissimi dalla lettura nel contesto scolastico. La pratica di ridurre i testi letterari a pretesti per analisi tecniche fini a sé stesse d’altra parte non è così lontana da noi e sembra ancora fin troppo presente nelle nostre classi. Come ricorda Romano Luperini, in Insegnare la letteratura oggi (Lecce, Manni, 2013), «lo strutturalismo cominciò a esercitare un’egemonia sulla didattica abbastanza tardi. Solo negli anni Ottanta e nella prima metà dei Novanta si passò, nelle scuole, dalla centralità della storia letteraria a quella del testo. Si affermò allora un’analisi del testo concentrata sul dato linguistico e basata su esercizi di lettura imperniati sulla narratologia, sulla metrica e sull’analisi della struttura interna del testo. Il problema del senso venne lasciato in subordine, mentre la diffidenza verso il momento ermeneutico portò a privilegiare l’aspetto catalogante o tassonomico, schemi e schemini, formule che aspiravano a un rigore algebrico o matematico. La questione, pur centrale, del significato per noi di un’opera venne perlopiù accantonata».
Aneddoto e interpretazione
Tornando a Pascoli e alla sua complessa vicenda esistenziale è chiaro che, nel raccontarla, non possiamo oggi proseguire sulla linea inaugurata da Mariù che, custode della memoria del fratello fino alla morte, nel 1953, ne ha fatto una sorta di poeta della purezza e, con l’antologia Limpido rivo (1912), l’educatore della «cara gioventù» che avrebbe voluto aiutare i fanciulli a «raggiungere le speranze della grande madre Italia».
Oggi ovviamente Pascoli va raccontato in tutt’altro modo. E qui torniamo alla domanda iniziale: in questo racconto debbono rientrare anche gli aspetti più imbarazzanti e scabrosi della personalità del poeta? E come raccontarli? Se la risposta fosse negativa, non potremmo leggere assieme agli studenti nemmeno un testo come “Il gelsomino notturno”, incomprensibile senza fare riferimento a una visione evidentemente tormentata e involuta della sessualità.
Probabilmente occorre qui saper distinguere prima di tutto tra conoscenze biografiche capaci di aiutare nell’interpretazione e nel conferimento di senso al testo e aneddoti troppo fini a se stessi, al limite del pettegolezzo voyeuristico.
È comunque difficile pensare di poter capire la poesia di Pascoli senza una qualche consapevolezza, anche soltanto abbozzata, del fondo doloroso e indicibile da cui prende vita. Vale la pena di riprendere la considerazione di Todorov riportata nel libro di Luperini da cui si è citato poco sopra: «Essendo oggetto della letteratura la stessa condizione umana, chi la legge e la comprende non diventerà un esperto di analisi letteraria, ma un conoscitore dell’essere umano».
Si tratta di contemperare franchezza e sincerità — che con giovanissimi alla ricerca della “verità” (specie su se stessi) pagano sempre — con un senso del limite fatto di cautela e rispetto dell’intimità di persone in crescita, con un’identità affettiva, sentimentale e sessuale ancora in formazione (cautela, sia detto en passant, che oggi manca negli sconfinamenti in campo psicologico di para-professionisti come orientatori, counselor o facilitatori delle emozioni). Il lavoro letterario potrebbe continuare a essere anche oggi lo strumento d’elezione di questo connubio catartico tra esplorazione dei nodi più intensi, contraddittori o dolorosi dell’intimità degli esseri umani, in cui gli adolescenti non possono non riconoscersi, e la loro rielaborazione attraverso il discorso, la parola, la dicibilità, la condivisione, l’oggettivazione estetica.
Penso ai commenti scritti dai miei studenti di quinta proprio su “Il gelsomino notturno”, di cui do qui in chiusura qualche brevissimo estratto: mi sembrano un esempio di come a scuola si possa parlare con fiducia reciproca anche di tematiche difficili, e al tempo stesso sia bene stabilire un distanziamento — attraverso il filtro delle storie e dell’esperienza altrui — che protegga il diritto alla riservatezza e lo spazio di intimità di ciascuno.
«Da come viene descritta la poesia il poeta sembra quasi offeso e triste di non essere lì con loro in quel momento così intimo del suo amico e la sua sposa. Infatti la scena viene descritta come se fosse vista da fuori, come se li stesse spiando dalla finestra».
«La poesia descrive i movimenti dei due sposi nella loro casa. Pascoli racconta come la luce accesa in casa si sposta, dalla sala da pranzo alla camera da letto dove si spegne. Questo allude quindi a un atto sessuale».
«Pascoli crea molte immagini, a partire dalla notte dei novelli sposi; passa poi al momento in cui un’ape impollina un fiore, inoltre raffigura anche il suo senso di esclusione che ha alla vista dell’amore».
«La poesia esternamente racconta di una sera d’estate passata in campagna, ma se si vuole scavare più a fondo l’intera poesia è una singola e gigantesca allegoria sessuale. […] Se ci si vuole soffermare su Pascoli si può percepire la gelosia che lui prova al solo pensiero dell’atto – giustificabile se si ricorda che lui non si sposò mai per timore di lasciare sola la sorella».
«Un simbolo particolare è l’urna usata per descrivere il ventre della donna che terrà [corsivo mio] il bambino, ed è un’immagine molto strana perché paragona il ‘luogo’ dove si forma la vita all’oggetto che contiene i resti dei morti».
«Un’altra immagine molto bella è quella dell’ape tardiva che rientrando nell’alveare trova tutte le celle piene. Anche qui il poeta non ci spiega cosa volesse intendere con l’ape ma si può pensare che quell’ape sia lui stesso che ormai è troppo grande per trovare una donna».
Si capisce, da certi dettagli anche minimi e anche da quello che non viene scritto, che la stessa poesia suscita una risposta immaginativa ed emotiva diversa per ogni studente/ studentessa; si capisce anche che nel commentare — già nella scelta di una parola, di un’espressione o di un’immagine particolare — ognuno rivela qualcosa di sé. Ma se non vogliamo trasformarci in apprendisti stregoni in delirio di onnipotenza e di controllo, come fa qualche orientatore narrativo, dobbiamo fermarci a questa consapevolezza e all’intuizione della sensibilità e interiorità dei nostri studenti, cui viene permesso di esprimersi anche attraverso il contatto con la «riserva dell’immaginario» rappresentata della letteratura. Basta questo.
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Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Giulia Falistocco, Orsetta Innocenti, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore

Grazie, un articolo commovente, Pascoli mi tocca sempre suscitando tenerezza e dolore.
“Il gelsomino”… così tormentata: per come la leggo io, lì Pascoli oltre al pudore quasi infantile ha la consapevolezza di star anche violando. Le immagini sono sensuali in un modo quasi urtante [l’odore di fragole rosse; i petali gualciti, l’urna molle e segreta… ci vedo la mollezza che segue il turgore degli organi, e la felicità nuova, la nuova vita, che si annida proprio lì: è tutto stanco e ancora caldo, ma ai quasi ignari sposi viene ricordato l’effetto dell’atto. La sensualità del concepimento conserva e insieme trasfigura quella dell’amplesso], è quell’effetto paradossale per cui è il pudore stesso a caricare l’atto sessuale di potenza sconvolgente (il sesso scritto franco è qualcosa di cui si può anche facilmente ridere, quasi neutralizzato).
Un bel contrappunto è il terzetto “Non v’è in China” da Turandot: i tre ministri fantasticano che finalmente la principessa si sposi producendo un erede, cosa che ripristinerebbe la fiducia nella forza vitale per tutto il popolo cinese. Anche qui viene evocata una sensualità dei giardini notturni, per accostarla a una descrizione più esplicita dell’atto:
Nel giardin sussurran le cose
e tintinnan campanule d’or…
Si sospiran parole amorose,
di rugiada s’imperlano i fior!
Gloria, gloria al bel corpo discinto
che il mistero ignorato ora sa!
(https://www.youtube.com/watch?v=UyKZvlR6Dp0)
tutt’altro tono e umore (nell’economia emotivo-narrativa dell’opera è un momento di sogno spensierato e quasi umoristico, necessario intermezzo rispetto alla gravità che colora la musica costantemente, a sottolineare le conseguenze mortifere del dramma interiore di Turandot) ma questo accostamento mi permette di vedere anche una sfumatura più celebrativa in Pascoli, avendo visto un uso sì voyeuristico ma non pudico delle stesse immagini. Allora forse è ancora più interessante: il perturbante del Gelsomino non viene tanto dall’uso mimetico delle immagini (ché nel caso visto come analogia-contrasto non risultano così pesanti emotivamente), quanto più da altri elementi più rarefatti e onnipervasivi definiscano la quasi-morbosità quasi-angosciata del poeta.
Mi sembra di riscontrare una possibile complementarità tra questo stimolante contributo di Malgioglio e il mio su Pascoli/Assiuolo (v. qui nel sito), perché in entrambi ci serviamo di un approccio psicanalitico per trattare il nesso vita/testi, su versanti diversi ma non privi di reciprocità (anche nella messa in questione che qui vorrei suggerire): l’impiego rivitalizzante dello strumento nella didattica della letteratura, quello di chiave esplicativa relativa al ritorno del rimosso nella rete simbolica di un testo. Ma proprio muovendo dai limiti del mio stesso contributo (resi espliciti spero a sufficienza), vorrei dire che un medesimo “rischio” accompagna sia l’interpretazione critica a sé stante, che la sua mediazione didattica, quello cioè di un certo biografismo (per quanto sofisticato si voglia e anzi, proprio in quanto tale, più strisciante). Malgioglio ha certo ottime ragioni per sostenere che “occorrerebbe forse parlare della biografia profonda, delle fantasie e dei fantasmi, da cui l’immaginazione letteraria trae alimento”, suscitando in quella “comunità ermeneutica” (cfr. Luperini, Zinato e altri) che è una classe scolastica, risonanze emotive coinvolgenti oltre il piattume di tante schede antologiche, attraverso un contatto intimo – opportunamente calibrato, – con le tematiche dei testi.
Ma la necessaria, auspicabile accensione di fuochi per far appassionare alla lettura – al contatto diretto, autonomo, problematico ecc. ai testi, – non dovrebbe originare presso i giovani lettori una sorta di equazione diretta tra gli ipotetici contenuti “latenti” (in s. psicoanalitico), e la loro altrettanto ipotetica espressione simbolica. Si scivolerebbe appunto in un contenutismo psicologico, osteggiato già negli anni ’70 da un vero maestro della critica, un teorico della letteratura come Francesco Orlando – che per questo meriterebbe uno specifico posto a sé: la lista dei nomi che lo include nel contributo di Malgioglio non lascia intendere differenze significative, anche se concordo sul fatto che lo strutturalismo di quegli anni “in teoria negava la validità di questo tipo di approccio (psic., ndr) ma sottobanco lo praticava, sotto forma di individuazione di «strutture profonde» che potevano essere attribuite al testo ma anche alla mente dell’autore”).
Ritengo insomma che nell’interpretazione testuale il taglio psicoanalitico debba far considerare i testi come prodotti di una semiosi che senza dubbio si alimenta di “contenuti latenti” individuali (biografia profonda ecc.), ma il passaggio decisivo al versante testo-lettore (e qui il limite ermeneutico si pone con l’assunzione della c. d. “funzione destinatario”, che non può variare all’infinito, diversamente dal lettore empirico) avvenga solo a patto di sostituire – secondo il dettato di Orlando, – la nozione di “rimosso” con quella più estensiva di “represso” (inteso quale modo di pensare, secondo una logica più prossima a quella del c. d. “sistema inconscio”, cfr. F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura).
Che fare, dunque, sul versante della sfida didattica che Malgioglio mostra di aver ingaggiato con successo (bellissimi i suoi esempi d’intelligenza “critica” da parte dei suoi lettori-empirici in classe – confesso quanto mi manchi l’esercizio quotidiano della spiegazione, anzi, dello “squadernare” su queste simili basi, da quando manco da scuola…)?
Giro a lui la domanda, sempre che possa concordare sul rischio che ho segnalato (biografismo), pensando a una sorta di necessario “potere che frena”, per bilanciare l’uso di una chiave di lettura che resta – con tutti i suoi rischi -, irrinunciabile e decisamente (ri)motivante.