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Su le Lettere “inutili” di Bianciardi

Il primo di tre volumi dell’epistolario di Luciano Bianciardi è stato appena pubblicato per esplicita volontà della figlia, Luciana, presso la sua casa editrice Excogita, con il sostegno della Fondazione Bianciardi di Grosseto. L’impresa è stata possibile grazie alla collaborazione di un folto gruppo di ricercatori, coordinato da Arnaldo Bruni, grossetano, già professore ordinario di letteratura italiana all’Università di Firenze. Il curatore ha dotato l’epistolario di un dettagliato apparato di note e di indici, molto utile per ricostruire la vicenda umana e letteraria dello scrittore. Bruni all’inizio della sua introduzione ci avverte che le lettere ai familiari «riuniscono il maggior numero di missive rispetto agli altri gruppi di destinatari (123 su 443 dell’edizione completa in tre volumi), soprattutto per via delle settanta indirizzate alla madre, Adele Guidi Bianciardi».

La struttura dell’epistolario

Un primo contingente raccoglie 17 lettere alla sorella minore, Laura, principalmente dedicate al servizio militare, intorno alle vicende dell’esercito italiano del Regno del Sud dopo l’armistizio di Cassibile (8 settembre 1943). Succede la lunga corrispondenza con la madre, 70 lettere, che abbracciano l’intero arco della vita adulta di Bianciardi dal 1945 al 1970. Poi il volume riporta le lettere agli altri familiari: nell’ordine la zia paterna, la prima moglie, Adria, con una sola lettera, e soprattutto ai figli, Luciana e Ettore. Chiude l’epistolario una significativa lettera di Maria Jatosti, la compagna di vita di Bianciardi, alla madre di lui.

Un anarchico arrabbiato?

Il quadro, che emerge, appare lontano dal «paradigma biografico», storicamente delineato dalla ricezione dell’opera dello scrittore grossetano, quello dell'”anarchico arrabbiato”, a cui egli stesso accondiscende ad esempio nel racconto La mamma maestra (1972). Parlando di un documento quattrocentesco, scrive «che si conserva nella Biblioteca Chelliana di Grosseto, della quale ero un tempo (io anarchico dichiarato, figurarsi), nientemeno che il ‘conservatore» (L. Bianciardi, L’antimeridiano, Vol. I, 2003). Non convince che la cifra dell’opera di Bianciardi possa essere la figura dell’anarchico arrabbiato, accreditata dal contemporaneo Indro Montanelli per giustificare il rifiuto di collaborare al «Corriere della Sera» dopo il successo de La vita agra. Nella stessa direzione andava la fortunata biografia di Corrias (Vita agra di un anarchico, 1993), che portò alla riscoperta dell’autore dopo vent’anni di oblio in seguito a un fortunato convegno che inaugurò la Fondazione grossetana. Nelle lettere troviamo poche tracce della collera, che ha improntato la cosiddetta «trilogia della rabbia», cioè i tre romanzi maggiori, bensì quella che il curatore chiama «una sorta di autobiografia dissimulata». Ciò dovrebbe indurre a una riflessione più accurata del cosiddetto autobiografismo dell’opera bianciardiana. Nella monografia Luciano Bianciardi, la protesta dello stile, del 2017, Carlo Varotti ha evidenziato nell’opera di Bianciardi un «gioco sistematico di commistioni e confusione [?] tra dati reali, mondi fittizi e mondi possibili», che spingerebbe a pensare «alla categoria dell’autofiction». Varrebbe la pena di chiedersi piuttosto quale sia il bisogno specifico di Bianciardi di ricorrere all’ibridazione dei generi e alla commistione «tra autobiografia, autofinzionalità e pamphlet», che intitola il capitolo da cui è tratta la citazione. Comunque l’epistolario, e segnatamente la parte maggiore, le lettere alla madre, rimanda l’idea di un uomo, che «sgobba» – termine iterato nelle missive – in condizioni semiproletarie inchiodato alla macchina da scrivere per giornate intere dividendosi tra le traduzioni (tantissime), le collaborazioni giornalistiche per migliaia di articoli e la produzione narrativa (romanzi e racconti), ritagliata dai tempi sottratti al lavoro.

Lo stile delle lettere

Lo stile è colloquiale, come è ovvio aspettarsi da lettere scritte nella cerchia dei familiari. Bianciardi le considera «inutili (cioè disinteressate)», da cui il titolo dato al volume, in base alla citazione, riportata in quarta di copertina, da una lettera all’amico Tullio Mazzoncini. Il tono è quasi dimesso salvo alcuni guizzi ironici o linguistici. Sappiamo che l’ironia e il sarcasmo sono tipici dello stile di Bianciardi narratore e giornalista con un gusto pirotecnico per i giochi linguistici per cui è stato avvicinato a Gadda. Questa caratteristica è più marcata nel gruppo delle lettere indirizzate ai figli, soprattutto a Luciana.

Le lettere alla madre si susseguono con uno schema costruttivo, che si ripete pressoché uguale: un’apertura di scuse per «il lungo silenzio» tra una lettera e l’altra, che si susseguono a cadenza più o meno mensile. Il tono rivela un atteggiamento costante di rendiconto all’autorità materna, che rimanda a un costume antico. Fa seguito una dettagliata informazione sui lavori di traduzione o giornalistici, che occupano tutta la parte centrale delle lettere e che vogliono dare l’immagine di dedizione al lavoro (come in effetti era: lo «sgobbo» per guadagnarsi da vivere). La parte finale è dedicata alle notizie sulla salute dello scrittore, della compagna Maria e del loro figlioletto, affettuosamente chiamato “Marcellino”, in particolare quelle degli anni dell’”esilio” a Rapallo (1964-1970), dopo la fuga da Milano. La salute viene rappresentata come una ovvia necessità, ma in particolare come condizione indispensabile per chi vive del lavoro non garantito del free-lance, come si direbbe oggi, il cui guadagno non è mai scontato. I soldi, tanto ironicamente vilipesi soprattutto ne La vita agra (gli infernali «danè» dei milanesi, disposti a tutto per intascarli), rappresentano un assillo ossessivo. Sembra che Bianciardi si sforzi con la madre di rappresentare un normale quadretto familiare, teso a giustificare la fuga da Grosseto per Milano e la rottura del matrimonio con Adria Belardi da lui tanto voluto e altrettanto avversato dalla madre. Questo potrebbe essere il motivo psicologico e autobiografico, che tiene fuori dalle lettere la rabbia dell’anarchico, anche se tale spiegazione sembra sbrigativa e di taglio basso. Analogo discorso si potrebbe fare per le lettere ai figli, nel tentativo di recupero del rapporto che ne fece all’epoca della loro adolescenza. Le lettere alla seconda nata, Luciana, indubbiamente preferita a partire dal numero delle missive inviate (22 rispetto alle 5 al primogenito, Ettore), hanno uno stile ironico scoppiettante più simile a quello dei romanzi, che tradisce lo sforzo di accaparrarsi la simpatia. Con Luciana Bianciardi condivideva la passione per la traduzione dall’inglese. Scherzosamente la definisce «la giovane anglista». Il rapporto con Ettore, che non ha seguito le indicazioni paterne di tentare il concorso alla Scuola Normale di Pisa, appare più prossimo, da uomo a uomo. Nella lettera 3 del 9 maggio 1970 al figlio traspare per una volta la tendenza arrabbiata. Ettore a Pisa ha avuto un confronto con un poliziotto (sono gli anni caldi della contestazione): «i poliziotti vanno picchiati, si capisce, perché sono dei traditori, tradiscono la fame dei loro bisnonni, nonni, babbi, dovrebbero disertare, come chiese loro Mario Capanna la sera di sant’Ambrogio, e non lo fanno per quelle merdose sessantamila lire che pigliano ogni mese» (en passant noto qui anche la simpatia dello scrittore grossetano per il movimento del ’68, contrariamente a quanto affermato da Maria Iatosti).

La mamma maestra

Se guardiamo al corrispettivo letterario, il ricordato racconto La mamma maestra, lo slittamento verso la rabbia e la protesta per un legame soffocante si evincono immediatamente: «Ma i guai seri, nei rapporti tra me e mia madre, cominciarono quando entrai nell’età della scuola … mia madre era ed è maestra: ma non soltanto a scuola. No, mia madre era ed è maestra sempre, anzi, a casa lo era di più … la conosco meglio di chiunque altro, essendo stato suo alunno, prima che figlio, per la bellezza di trentadue anni (a parte quelli della guerra, che non contano). È come avere una ‘maestra a vita’, e le maestre a vita non sono comode, provare per credere […] Fu in questo modo che io, figlio della maestra Bianciardi, all’età di sei anni, presi a recitare la parte del primo della classe, e la tenni fino al giorno che non mi sposai». Qui c’è la ribellione, l’ironia, il sarcasmo tipici della scrittura letteraria di Bianciardi. Nelle lettere il destino da primo della classe sembra rovesciarsi come un destino irredimibile su Marcellino, anche lui primo della classe fin dalle elementari, capoclasse, studiosissimo, un ometto che passa più tempo in casa a parlare come un grande coi genitori che giù in strada con i suoi coetanei. Come è possibile questo scarto tra l’autobiografia «quasi dissimulata» rintracciabile nelle lettere e il racconto chiaramente autobiografico con tanto di nomi e date? La rabbia è sì mutuata dai modelli americani (in particolare gli “arrabbiati” americani, che traduceva, da Henry Miller alla beat generation), ma corrisponde a una rabbia che nella vita reale covava dentro di lui fin dall’epoca della lezione degli sterratori e dei minatori della Maremma con un netto segno di classe, una lezione e una vicinanza che non dimenticò mai. Bianciardi ha vissuto una vita “alienata” in tutti i sensi, che poteva trovare espressione nel torvo espressionismo degli scrittori della costa toscana – come è stato scritto -, mitigato solo dall’ironia e dalla passione per il gioco linguistico, di cui ha lasciato esempi notevoli. L’alienazione della vita contemporanea poteva trovare sfogo solo nell’ibridazione dei generi dell’allegoria moderna. Possiamo considerare anche la motivazione psicologica. Uno squarcio ci è offerto dall’ultima lettera dell’epistolario, che come scrive Arnaldo Bruni «non appartiene alla corrispondenza di e a B., ma riferisce una situazione preoccupante». È la lettera di Maria Jatosti alla madre di Luciano. Messa così, “fuori squadra” nel rigore filologico del lavoro del curatore, funziona come una spia semantica. Maria chiede aiuto ad Adele: «Tu devi fare qualcosa. La cosa migliore sarebbe che tu venissi quassù [a Rapallo] per un lungo periodo e gli stessi accanto. La mia idea personale è che la vostra visita a Natale lo abbia turbato profondamente e gli abbia riaperto antichi e mai risolti problemi … ci sono momenti in cui tutto gli ricade addosso: le colpe, gli errori, il dispiacere, la mancanza dei figli. Ti prego aiutalo tu. […] Non posso entrare nel merito di certi rapporti, benché sia sempre stata io a cercare di indirizzarlo in certo modo» (corsivo di chi scrive). Sinteticamente – perché la questione meriterebbe un discorso più ampio proposto altrove (Stefano Adami, Beppe Corlito, Bianciardi alla rovescia, 2023) – lo scrittore reprime la rabbia per un super-io tirannico, rappresentato dalla madre severa con ridotte capacità di esprimere la dolcezza, che pure esisteva fuori della ferocia educativa (Bianciardi stesso la riconosce verso i nipotini nel citato racconto). Ne risulta la tristezza depressiva, che Bianciardi chiamava nella lettera 69 alla madre «distonia» (così voleva intitolare l’ultimo romanzo mai scritto), una sorta di nota stonata, aggravata dal problema con l’alcol che ne ha condizionato la morte precoce, nonostante i tentativi di smettere attestati nella lettera 9 alla figlia del 27 aprile 1970.

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