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diretto da Romano Luperini

Una vittoria dei ricchi

«C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo».  (Warren Buffett, 2012. investitore finanziario, la sesta persona più ricca del mondo).

Lunedì 20 gennaio il presidente eletto Donald Trump si è insediato con una cerimonia, che ha poco a che spartire con i precedenti Inauguration Day, anche se molto era già cambiato dalla spartana cerimonia di giuramento prevista dalla costituzione statunitense. Dopo aver prenotato lo stadio coperto, il Capitol One Area, ha ripiegato sul Campidoglio, nonostante i brutti ricordi del fallito colpo di stato di 2021. I media asserviti spiegano la scelta della cerimonia al chiuso nel Campidoglio con l’ondata di freddo artico, ma anche lo stadio è al chiuso, tanto che domenica 19 Trump vi ha tenuto l’ultimo comizio da capo-popolo e i supporter da lì hanno assistito all’insediamento. Nell’etichetta istituzionale il giuramento si tiene tradizionalmente nella sede del Parlamento, così il presidente ne riconosce l’autorità democratica. Poi c’è stata la rottura con la tradizione della cerimonia riservata alle rappresentanze diplomatiche degli altri stati; viceversa sono stati invitati alcuni Capi di Stato e di governo ed esponenti dell’area sovranista. C’erano l’iperliberista Milei, il semidittatore salvadoregno Bukele, la neofascista Meloni, unico capo di un governo europeo, e il vicepresidente cinese. Orban ha declinato l’invito. Sono stati invitati molti rappresentanti dei partiti della destra estrema mondiale invece dei corrispondenti Capi di Stato. Una sorta di internazionale nera. È significativo che non sia stata invitata la Von Der Leyen, un disconoscimento dell’Unione Europea. Siamo a un cambio di scenario, a un tornante della storia che chiude un’epoca. L’editoriale dell’ultimo numero di Limes, la rivista italiana di geopolitica, esordisce in maniera lapidaria: “L’America come la conoscevamo non è in crisi. È finita. Con essa il mondo americano”. Messa così forse è troppo drammatico, ma sembra aver vinto l’ondata sovranista e autoritaria, per non dire fascista della destra su scala planetaria, che era sembrata resistibile nelle tornate elettorali dell’ultimo decennio. Nella mezzora di discorso a braccio Trump ha ribadito i punti decisivi della sua campagna elettorale: lo stop netto al green deal, la ripresa a pieno ritmo della trivellazione dei carburanti fossili, la deportazione di massa dei migranti, la fine di ogni politica di genere e in omaggio a Musk la bandiera stelle e strisce piantata su Marte. Il primo atto di Trump appena alla Casa Bianca è stata una raffica di ordini esecutivi, preparati per tempo a dare un segnale forte di discontinuità: in primo luogo la rottura di accordi internazionali (uscita dall’OMS e dall’accordo di Parigi sul clima), e poi l’invio di diecimila soldati per blindare il confine col Messico e il ripristino della pena di morte federale.

Una vittoria dei ricchi nella guerra di classe

Una cosa è certa: l’elezione di Trump è una vittoria dei ricchi non fosse altro perché “the Donald” è un “tycoon” – come lo chiamano tutti –, un magnate miliardario, e il suo socio, che avrà un ruolo di primo piano nel governo, è Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo. Costui è il capofila di una cordata di finanziatori della campagna elettorale di Trump, in particolare i “tech billionaires”, letteralmente “miliardari della tecnologia”, soprattutto elettronica. E questa volta hanno promesso di fare sul serio, di non rimanere prigionieri dello “stato profondo”, cioè degli apparati di formazione liberal, che governano gli States, come è accaduto nel primo mandato di Trump. Il compito di Musk nella compagine governativa come responsabile del nuovo “Dipartimento per l’efficienza amministrativa” sarà mettere a frutto la propria competenza di “tagliatore di teste” per ridimensionare gli apparati e di sostituirli con fedelissimi. Paragonando le cose piccole alle grandi è quanto Giorgia Meloni sta cercando di fare da noi, dove gli apparati burocratici romani sono tutt’altro che liberal. Siamo di fronte a un episodio significativo di quella “lotta di classe dall’alto”, di cui abbiamo già parlato qui. La strategia neoliberista viene da lontano, dalla scuola di Chicago degli anni Cinquanta, proseguita dalla de-regulation di prima Carter e poi di Bush, che punta alla disarticolazione di ogni resistenza di classe in primo luogo sindacale, ma anche politica per affermare il proprio dominio incontrastato. Alla vittoria epocale di tale strategia ha contribuito in proprio il disarmo politico e culturale delle sinistre, in particolare quelle socialdemocratiche. Ricordiamo che Carter era un “democratico”. Nella citazione messa in esergo colpisce il tono brutale con cui Buffett rivendica la “guerra di classe”, che i ricchi hanno vinto, a fronte dello stupido pudore con cui nel linguaggio delle sinistre si tende a occultare il termine “lotta di classe”.

I padroni della rete direttamente in campo senza mediazioni

Nell’antica analisi delle istituzioni statali marxiana il governo è considerato “il comitato d’affari della borghesia”, al quale sono affidati gli interessi sociali, economici e legislativi della classe dominante. Sino ad oggi “i politici” di professione erano un ceto sociale a cui la borghesia delegava la gestione dei propri affari. Vi era ancora un qualche livello di intermediazione, di gestione del consenso e di egemonia politica. Con l’ascesa al potere di Trump e Musk il tenue velo cade: sono i più ricchi ad avere direttamente le mani in pasta. Vi è un precedente nostrano (su cui riflettere analogamente al copy-right tutto italiano dell’”invenzione” del fascismo): quello di Berlusconi, un miliardario zoppicante e pieno di debiti all’esordio, che sfruttava la tecnologia precedente a quella oggi dominante, la televisione. Potremmo dire che la tendenza populista ha fatto saltare l’ultimo velo di Maya, che mascherava il potere di classe della grande borghesia. Non è un caso che l’uomo forte dell’amministrazione Trump sia proprio Musk, un “padrone della rete” come all’epoca della prima rivoluzione industriale si parlava di “padroni del vapore”. Musk ha condizionato la vittoria di Trump utilizzando la potenza pervasiva di uno dei social più diffusi, X, l’ex-Twitter, da lui acquisito nel 2022 per 44 miliardi di dollari. Sembra che sia stata la chiave di accesso ad ampi settori dell’elettorato soprattutto giovanile. Inoltre, Musk ha posizioni dominanti e pressoché monopolistiche non solo nel settore dell’auto elettriche (Tesla), ma soprattutto nella conquista dello spazio con Space X, impresa che ha in pratica rilevato la potente agenzia spaziale statale, la NASA. Musk controlla, poi, gran parte dei satelliti per le telecomunicazioni (Starlink), con cui ha aiutano l’Ucraina in guerra e a cui il governo Meloni si sta affidando mani e piedi, siglando un accordo da un miliardo e mezzo per cinque anni sulla sicurezza nazionale. Per spiegare il processo il citato editoriale di Limes ricorre a una tesi di Gramsci: il “sovversivismo delle classi dominanti”, che concentra il potere fino al ricorso alla forza per non “incorrere in crisi di egemonia”. Con l’avvento di Trump e Musk “non è lo stato a finire sotto il dominio dei fondi di risparmio o del Big Tech. Sono questi ad essere politicizzati, fondendosi con lo Stato”. È questa una specifica caratteristica della cosiddetta “tecno-destra”.

La rivoluzione informatica, la globalizzazione e la tendenza “autocratica” del grande capitale

A mio avviso è in corso da alcuni decenni a cavallo tra i due millenni una lotta senza esclusione di colpi per impossessarsi dei proventi e del potere derivanti dagli effetti globali della terza rivoluzione industriale, che chiamiamo globalizzazione, fondata sulle macchine elettroniche e caratterizzata dall’enorme velocità di tutti i mezzi di comunicazione dai trasporti a quelli virtuali. Ancora una volta il capitale non controlla i mostri che suscita secondo il folle modello di sviluppo senza limiti. L’attuale sviluppo delle macchine elettroniche permetterebbe in linea teorica una liberazione quasi totale dell’uomo dal lavoro soprattutto nelle mansioni più esecutive attraverso l’automazione, ma gli attuali sistemi di governo dell’economia impediscono una reale emancipazione degli strati inferiori della scala sociale, i quali in tutti i modi devono essere tenuti fuori della gestione del potere. Le tecnologie informatiche gestiscono ogni linguaggio, l’“infosfera”, esprimendo un elevato livello egemonico del consenso, corrispondente a un’alienazione dell’umano senza precedenti; per non parlare dei rischi dell’affermarsi dell’intelligenza artificiale fuori da ogni controllo. Giustamente uno dei sociologi più attenti della modernità, Anthony Giddens, ha rivendicato una Magna Charta Libertatum dell’epoca informatica. Davanti ai computer si va formando un “cognitariato” (cioè il proletariato della conoscenza), esordito fin dal movimento del ’68 (cfr. Alain Touraine, ripreso da Guido Viale), che potrebbe avere la potenzialità di rovesciare il sistema, ma è troppo disperso e precario per essere facilmente organizzabile in senso rivoluzionario. Ma le classi dominanti sono pronte anche al ricorso all’uso della forza. La parola “forza” è ossessivamente ripetuta nei discorsi di Trump. Questo mette in crisi i sistemi di democrazia liberale come li abbiamo conosciuti e l’esempio statunitense lo dimostra. Nella situazione attuale, che richiede un più stretto controllo dell’economia, le cosiddette “autocrazie” sembrano essere avvantaggiate. È l’esempio della Cina e della Russia post-comuniste. Le élite dirigenti delle democrazie occidentali sempre più in difficoltà guardano con invidia alla capacità di controllo e di sviluppo economico in particolare della Cina. Sul versante geopolitico gli Stati Uniti tentano di difendere il proprio ruolo di superpotenza unica, nato dal crollo dell’URSS, cercando di rallentare il proprio declino, di espandersi a Est e di mantenere l’egemonia sugli oceani. È la guerra per procura dell’Ucraina contro la Russia e la ricerca di alleati in funzione anticinese nel Mar della Cina. Anche il conflitto medio-orientale può essere letto come una parte della contesa con la Russia di Putin. Si veda il crollo del regime di Assad in Siria e il continuo ridimensionamento dell’Iran, alleati della Federazione Russa. A questo serve il sostegno del feroce espansionismo di Israele. D’altro canto, per gli USA sono evidenti le difficoltà sia economiche che di risorse umane (l’esercito in campo) a mantenere il ruolo di superpotenza unica. Ne sono dimostrazione le pressanti richieste di innalzamento delle spese militari di Trump agli alleati europei.

Una analisi del voto che ha portato Trump alla vittoria

L’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale ha riassunto tale analisi in cinque punti. La sintesi ci può aiutare a capire un altro aspetto del processo.

  1. Il “Blue Wall”, la diga democratica, non ha retto: Trump ha conquistato tutti e sette gli swing states, gli stati in bilico, sei dei quali avevano dato la vittoria a Biden nel 2020.
  2. Trump elettoralmente è cresciuto tra le minoranze, in particolare quella ispanica e quella nera. Non ha superato il risultato della Harris, ma ha ridotto il margine che aveva dato la vittoria a Biden. Soprattutto tra gli ispanici hanno i prevalso le preoccupazioni economiche. Quasi la metà dei poveri hanno votato per i ricchi e si sono aggiunti ai ceti medi impauriti dalla crisi economica.
  3. Il tema dei diritti civili, in particolare quello dell’aborto, non ha pagato tra le donne. Il candidato democratico Kamala Harris ha avuto un margine di voti inferiore al previsto, esattamente come nel caso delle minoranze. La politica reazionaria di genere ben si intona allo stile maschilista di Trump nella sua vita privata come in quella di tanti difensori della famiglia tradizionale.
  4. Trump ha fatto breccia tra gli indipendenti, cioè chi non si identifica né coi democratici né coi repubblicani. Trump si è aggiudicato il voto del 45% di loro, migliorando la posizione di 4 punti.
  5. Il “voto popolare”, pur non eleggendo direttamente il presidente, dato che lo fanno grandi elettori nel sistema maggioritario statunitense, ha privilegiato il candidato repubblicano come non accadeva dal 2004.

Ciò vuol dire almeno due cose. Gli Stati Uniti elettoralmente rimangono spaccati, questa volta a favore di Trump, soprattutto quasi la metà dei poveri vota per i miliardari. Per utilizzare un’altra categoria di Gramsci, usata anche per spiegare il consenso di massa del fascismo storico, è in corso una rivoluzione passiva, cioè un processo economico, sociale e politico potenzialmente rivoluzionario, come quello legato alla rivoluzione informatica, che viene incanalato in soluzioni lente e graduali con l’acquiescenza degli strati subalterni. Essa si sposa micidialmente con il sovversivismo delle classi dirigenti.

Il multilateralismo conflittuale, Trump “uomo di pace” e la tendenza alla guerra

Trump ha teso ad accreditare l’immagine di sé come uomo di pace, che assomiglia maledettamente al Mussolini di Monaco (1938). Il segnale più evidente è il tentativo di intestarsi il merito della tregua tra Netanyahu e Hamas a Gaza, che speriamo vada in porto, anche se sono evidenti le difficoltà nell’applicazione dell’accordo siglato a Doha, che poi ripropone i contenuti di Blixen, il segretario di stato di Biden nell’agosto scorso. Altro segnale è il mancato invito di Zelensky alla cerimonia di insediamento. Ormai da tempo sappiamo che la guerra in Ucraina è persa e lo sanno anche gli strateghi del Pentagono che la soluzione sul campo del conflitto è impossibile. Al di là dell’immagine da accreditare – come abbiamo visto – Trump punta a ridurre le spese militari e soprattutto a costringere gli “alleati” europei ad aumentare le proprie fino al 2% del PIL e il finanziamento alla NATO, insieme alla minaccia dei dazi sulle esportazioni degli europei verso gli USA.

Abbiamo già scritto qui a proposito della pace e della guerra che l’equilibrio planetario a causa del declino americano configura un multilateralismo conflittuale in cui la concorrenza e le guerre commerciali inclinano verso i conflitti armati regionali. Un vero equilibrio tra tutti gli interessi dei potentati in campo implicherebbe solide istituzioni internazionali, a cominciare dalla riforma dell’ONU, ma per primi gli Stati Uniti hanno lavorato in direzione opposta. La politica sovranista di Trump, riassunta dallo slogan “America First Again”, minaccia di essere un fattore pericoloso di squilibrio. Quindi è facile prevedere che tale politica produca ancora guerre commerciali e conflitti armati regionali, se il Pentagono non riuscirà a mantenere il difficile equilibrio attuale. Ma già Trump si è lamentato dei propri generali con obliqui riferimenti a quelli fedeli a Hitler (La Repubblica, 23 ottobre 2024).

Trump vuol ridimensionare l’Europa e Meloni come servo sciocco

Il segnale inviato all’UE con il mancato invito all’insediamento di Ursula Von der Leyen è piuttosto chiaro. Trump non ha interesse ad avere un partner europeo coeso. Infatti, ha invitato anche i rappresentanti dei movimenti sovranisti, a cominciare da Nigel Farange invece del premier laburista inglese. Quindi preferirà trattare con i singoli governi nazionali. Va in questa direzione l’invito a Meloni, compreso il ruolo avuto da Trump con la mediazione di Musk nella triangolazione del caso della giornalista Cecilia Sala, dove l’Italia in grosso imbarazzo per la richiesta americana di arresto ed estradizione dell’ingegnere iraniano Abedini ha fatto la figura di essere una provincia statunitense. Meloni si presta al ruolo subalterno di servo sciocco nella speranza di avere trattamenti di favore a spese dei nostri più forti partner commerciali europei, in primo luogo la Germania, con il rischio che questi si rivolgano contro di noi. Come ha dichiarato alla 7 la Prof.ssa Urbinati, Giorgia Meloni verrà usata da Trump come “un piede di porco” per scardinare l’Unione Europea.

Infine, la conquista di Marte

Quella di piantare la bandiera a stelle e strisce sul pianeta rosso può sembrare una battuta per far esultare Musk, che ringrazia l’imperatore con un saluto romano subito cancellato dai media, ma esso ha un retroterra remoto nel cosmismo utopico di questo “genio del male”, un’ideologia che predica la conquista dello spazio per far nascere una nuova specie post-umana immortale e superomistica grazie alla tecnologia. Sembrano chiacchiere fantascientifiche, ma intanto proteggono gli interessi materiali di Musk (la sua impresa spaziale) e soprattutto esprimono la natura elitaria della sua ideologia, cioè l’altra faccia dello sfruttamento del pianeta Terra fino all’ultima goccia di petrolio del compare Trump, fregandosene dell’ecosistema. Quanti potranno accedere alla futuribile colonia marziana? Ventimila privilegiati forse, tutti gli altri miliardi di umani possono marcire nel vecchio pianeta prosciugato di ogni risorsa.

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