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diretto da Romano Luperini

A dieci anni dalla scomparsa del poeta, Mondadori ripubblica la selezione delle poesie di Seamus Heaney (Poesie, a cura di Marco Sonzogni, 2023) già inclusa nel Meridiano, uscito nel 2016. Stilata dal poeta stesso, la scelta copre quasi 50 anni di lavoro: 12 raccolte, da Death of a Naturalist, del 1966, all’ultima, Human Chain, del 2010, degna conclusione di una carriera straordinaria, caratterizzata anche da una straordinaria e originalissima produzione critica, traduzioni e riduzioni teatrali.

La poesia d’apertura della selezione italiana ma anche di tutti i Selected -“Digging”, scavando – prende spunto dall’attività in cui è fissato nella memoria del poeta il padre, al lavoro con la vanga nell’orto della fattoria di Mossbawn nella contea di Derry, nell’Irlanda del Nord, in cui Seamus Heaney nasce nel 1939. La poesia indica, al contempo, un’origine e una divaricazione. A chi scrive non sarà dato, infatti, di seguire le orme del padre, contadino, salvo che in quella attività particolare, lo scavo, che egli compirà su altri piani con la penna, attraverso la poesia. L’attività di recupero di quelle memorie dell’infanzia e adolescenza finirà per innervare uno degli assi cardinali della sua produzione poetica:

Il freddo odore di muffa sulle patate, guazzo e schiaffo
della torba zuppa, i secchi tagli di una lama
su radici vive mi ritornano in mente.
Ma non ho una vanga per seguire uomini così.

Tra dito e pollice
è posata la tozza penna.
Scaverò con essa.
(“Scavando”, Death of a Naturalist)

Omphalos

Mossbawn rimarrà il luogo mitico degli affetti, omphalos, come viene definito in un altro componimento. La casa in cui cresce, il podere, la comunità che lo abitava, la stessa terra – definita ancora, nella sua ultima poesia, “In a Field”, “breathing”, vivente – torneranno in un processo di incessante riscoperta, fatto con la mente sgombra da pregiudizi bucolici, come attesta ironicamente la poesia eponima della sua prima raccolta, Death of a Naturalist.

“Quelle memorie, dirà in un’intervista a chi scrive, sono costituite da immagini e luoghi dell’infanzia e credo che ormai mi venga naturale parlare di ciò che ho scritto piuttosto che di quello che veramente mi è accaduto. Sono consapevole del fatto che i ricordi si inventano. Quell’ambiente trasmetteva tranquillità e sicurezza ed escludeva ogni paura. Una piccola fattoria, una campagna ermeticamente chiusa alla modernità. Tutto quello che si riferisce a quel tempo è come contenuto in una capsula. Quando cominciai a scrivere, fu come aprire una busta di tabacco sotto vuoto: l’aria che entra e l’aroma che sale alle narici. In quella vita erano presenti tutti gli elementi mitici”. (“Tuttavia ogni voce ricorda”, il manifesto, 23/24 aprile, 1989).

In quella stessa intervista, il poeta ci tenne a rimarcare che la sua carriera di poeta non avrebbe mai potuto avere avvio senza l’ Education Act, promulgato dal governo laburista nel 1947, che consentiva l’accesso all’istruzione secondaria e all’università agli allievi meritevoli delle classi meno abbienti. Altrettanto decisiva, nell’incoraggiarlo a scrivere di quei luoghi e di quelle esperienze, la lezione di un poeta inglese, Ted Hughes, e di un poeta irlandese, Patrick Kavanagh: “Ricordo un momento in particolare, nel 1962, nella biblioteca comunale di Belfast, quando aprii per la prima volta un libro di Hughes, Lupercal: una poesia su un maiale squartato che pende da una trave in un fienile. Io l’avevo visto tante volte da bambino, ma lo conservavo come un segreto primitivo. Non ne avrei mai parlato al mio professore di inglese. E, all’improvviso, aprivo un libro e questo aspetto segreto della mia esistenza era lì, in una lingua viva, senza imbarazzi o reticenze, diretta, piena di sensazioni. Scorgevo la possibilità di collegare le mie scritture con le mie esperienze, il mio vissuto. Non avevo mai pensato prima che avesse diritto di apparire in poesia. Hughes e Kavanagh ti autorizzavano a farlo”.

Scavando

Scavare equivarrà ad aprire una porta sul buio, come dice il titolo della seconda raccolta, Door into the Dark. Sarà anche un’occasione per rendere omaggio a mestieri antichi che lo affascinavano, il fabbro, il costruttore di tetti, il rabdomante, un essere misterioso, quest’ultimo, incaricato dell’impresa, impossibile ad altri, di individuare la vena d’acqua sotterranea, stabilendo un contatto con le risorse nascoste per metterle a disposizione della comunità, come Heaney dirà in seguito della poesia di Kavanagh.

Scavare diverrà un’attività a tutto campo, a partire dal tesoro delle parole, “the word-hoard”, in cui “le voci assordate dell’oceano” suggeriscono di calarsi nella poesia eponima di North, la sua quarta raccolta, che nel 1975 ne conferma la statura di poeta a livello internazionale. Questa operazione era già stata avviata nella raccolta precedente, Wintering Out del 1972, in cui di quello spazio dell’immaginario si resuscitano la peculiare oralità e dizione, la varietà di lingua propria del suo luogo d’origine, contenente le tracce di tutte le correnti che l’avevano attraversato nella storia, il gaelico, lo scozzese, l’inglese, e più avanti, l’anglosassone con la traduzione del Beowulf nel 1996 di cui l’antologia riporta i versi iniziali (1-163) e quelli finali con i funerali dell’eroe.

Così, quello scavo, inevitabilmente, finirà per alimentare una riflessione sulla storia, l’incubo di Joyce da cui è difficile risvegliarsi, e sulle divisioni e le ferite che quella storia aveva provocato in Irlanda, molte delle quali ancora aperte, come le cronache stavano tragicamente confermando. Le divisioni, a ben vedere, stavano già nel toponimo centrale, Mossbawn: fattoria fortificata sulla torbiera per i coloni scozzesi, il nome di un fiore, l’eriophorum, in gaelico. L’oralità ctonia che lo affascina è perfettamente espressa in “Anahorish”, “il luogo di acqua chiara” in gaelico:

Il mio “luogo di acqua chiara”,
prima collina del mondo
dove le sorgenti sgorgavano
sull’erba scintillante

e annerivano i ciottoli
del fondo del sentiero.
Anahorish, morbido gradiente
di consonanti, prato di vocali.
(“Anahorish”, Wintering Out)

Scavare significa andare giù per strati: più si va a fondo, più alta è la qualità della torba. Ma la torbiera conserva le memorie di un passato, che riaffiorano allo scavo, restituendo reperti preservati, paradossalmente, dagli acidi delle dissoluzioni, persino del burro salato, vecchio di cent’anni, e lo scheletro del Grande Alce Irlandese, come si ricorda in “Terra di torbiere”. Con nuovi significativi ritrovamenti, il poeta si stava confrontando leggendo The Bog People dell’archeologo danese P.V. Glob, uscito in inglese nel 1969, dedicato ai corpi palustri risalenti all’Età del Ferro ritrovati nelle torbiere dello Jutland. A due di questi, i più noti, l’Uomo di Tollund e l’Uomo di Grauballe, Heaney dedicherà delle poesie, prima in Wintering Out:

Un giorno andrò ad Aarhus
per vedere la sua testa bruno-torba,
i morbidi baccelli delle palpebre,
il cappuccio di pelle appuntito”
(“L’Uomo di Tollund”)

E poi in North. Dopo aver descritto la mummia in dettaglio, il poeta si chiede :

Chi potrà dire “cadavere”
al suo vivido stampo?
Chi potrà dire “corpo”
al suo opaco riposo?
(L’Uomo di Grauballe”)

All’uomo di Tollund ritornerà ancora nella penultima raccolta, District and Circle con la poesia “The Tollund Man in Springtime”, a confermare la centralità cardinale dell’immagine e del simbolo nel canone, giustamente definita un capolavoro da Paolo Febbraro nel suo, indispensabile per chi voglia approfondire lo studio, Leggere Seamus Heaney.

Si tratta di vittime sacrificali di un rito tribale, come la ragazza sgozzata, rappresentata nella poesia “Regina della torbiera”, che si impongono come potenti simboli e figure chiave nella riflessione in cui è impegnato, come d’altra parte molti altri, soprattutto i poeti, in quegli anni in una terra, messa “sulla Scala Richter degli eventi mondiali”, come dirà Derek Mahon, dall’incontenibile violenza che stava squassando le due comunità.

North, si apre con “Luce solare” dedicata alla zia paterna, Mary Heaney, in versi che ricreano lo spazio domestico e l’amore che lo contraddistingueva: “Ed ecco l’amore/ come un mestolo di stagno/ affondato oltre il suo bagliore/nel barattolo della farina”; e si chiude con “Esposizione”, una tra le poesie più note, che registra uno spartiacque esistenziale e artistico. Si tratta della crisi generata nel poeta dal dubbio che il trasferimento da Belfast nella Repubblica possa significare la fine della sua attività creativa e insieme dalle domande sul rapporto tra aspirazioni e doveri: “immaginando un eroe /in qualche caseggiato fangoso,/ il suo dono come un sasso lanciato/ da una fionda per i disperati”. Il riferimento è a Mandel’stam nel gulag staliniano e il rovello centrale di chi parla s’incentra sui doveri del poeta, da un lato, nei confronti della sua comunità e, dall’altro, nei confronti della sua vocazione. Cosa sono, poi, i suoi “responsabili Tristia” rispetto a quelli di un poeta perseguitato da un regime feroce?

Né internato né spia
Un emigrato interno, capelluto
E pensoso, un bandito nei boschi,

sfuggito al massacro,
che si mimetizza
con tronco e corteccia,sensibile
a ogni soffio di vento,

che soffiando su queste scintille
per un po’ di calore, ha mancato
il portento unico nella vita,
la rosa pulsante della cometa.
(“Esposizione”, North)

Lungi dall’indebolire la sua vena, il trasferimento porterà nuove poesie, una nuova raccolta, Field Work,nel ’79, con la sequenza dei sonetti di Glanmore, luogo in cui riuscirà a ricreare un luogo molto simile alla sua Arcadia infantile, e due elegie, fra le più alte scritte dal poeta, “La spiaggia sul Lough Beg”, dedicata al cugino Colum McCartney, trucidato dai lealisti, e “Vittima” dedicata ad un amico, Louis O’Neill, ucciso dall’IRA per non aver rispettato il coprifuoco imposto dopo la domenica di sangue a Derry. Entrambi ricompariranno tra le ombre di Station Island, la raccolta del 1984, fortemente ispirata alla Commedia di Dante, la cui sezione eponima è ambientata per gran parte nel St. Patrick’s Purgatory, sul Lough Derg, tradizionale luogo penitenziale. Il cugino lo rimprovererà per aver, nel ricordarlo, “edulcorato la sua morte”. Tra le ombre, i personaggi della storia letteraria irlandese, da William Carleton, uno dei primi narratori in lingua inglese dell’Ottocento, a James Joyce, uno dei fari letterari, che nella XII sezione, lo invita a seguire la sua strada a “spingersi a nuoto al largo/ colmando l’elemento/ di segni sulla tua frequenza,/ scandagli, esplorazioni, indagini, allettamenti/ bagliori di anguille nell’oscurità del mare”.

La prima parte del libro, basata sui New Selected Poems 1966-1987, si chiude con la raccolta The Haw Lantern, che contiene la sequenza di sonetti dedicati alla madre da poco scomparsa e al loro rapporto, “la nostra fase Figli e amanti”. Nel settimo sonetto, la sua scomparsa, come quella della zia ricordata in “Luce solare”, svuota lo spazio in cui essa giace riversando quel vuoto negli astanti perché lo serbino. Come il castagno abbattuto, piantato l’anno della nascita del poeta, che si trasforma in “un lucente non luogo,/ un’anima ramificante e per sempre /silenziosa, oltre l’ascoltato silenzio.”

Le incursioni nel visionario

Visione è termine chiave per i componimenti della seconda sezione del libro, tratta dai New Selected Poems 19882010, che si apre con la raccolta Seeing Things, del 1991. Di Veder cose, Heaney dirà che è il prodotto di un suo deciso ritorno alla poesia lirica, generato e sostenuto da un’ondata di energia creativa. Visione è la dimensione misteriosa, onirica cui si allude nella sequenza “Marcamenti “ attraverso la descrizione del passaggio da un livello di consapevolezza a un altro. Questo accade ai ragazzi che giocano a pallone nel campo la sera, nella versione di Gilberto Sacerdoti:

Ragazzi urlanti da squarciare la gola,
la luce muore e loro vanno avanti,
il gioco ormai si gioca nella testa:
la palla vera presa a calci arriva
pesante come in sogno, il fiato corto
nel buio, le scivolate sull’erba
hanno un suono di sforzo in un altro mondo…
Era veloce e costante, un gioco
senza necessità di avere fine.
Un qualche limite era stato oltrepassato,
c’era rapidità, oltranza e resistenza,
un tempo extra, libero e imprevisto.
(“Marcamenti”, Veder cose)

Si tratta di un fenomeno già descritto in “Postscriptum”, la poesia che chiude The Spirit Level del 1996, riferendosi alla spinta irrefrenabile che coglie l’osservatore in certi momenti davanti a un evento o un fenomeno naturale:

Inutile pensare di parcheggiare e catturare tutto
più compiutamente. Non sei né qui né lì,
un’urgenza in cui passano cose note e strane
mentre deboli colpi di vento investono la fiancata
e colgono il cuore alla sprovvista spalancandolo.
(“Postscriptum”, The Spirit Level)

E’ il vento che ritroviamo nella poesia di apertura dell’ultima raccolta, Catena umana, “Se non fossi stato sveglio”:

Venne e se ne andò in modo così improvviso
E quasi, sembrò, così pericoloso
tornando come un animale a casa.

Uno scoppio messaggero che lì per lì
sfumò nell’ordinario. Ma mai più
da allora. E non ora.
(“Se non fossi stato sveglio”, Human Chain)

In quest’ultima raccolta, secondo le parole del poeta, “prevale l’interesse per le corrispondenze tra i vivi e i morti”, il secondo asse genetico, che aveva già dato la sequenza elegiaca dedicata alla madre in The Haw Lantern e profondamente segnato la penultima raccolta, District and Circle. Popolata di “shades and wraiths “, ombre e spettri, è, infatti, Catena umana, composta negli anni successivi all’ictus sofferto nel 2006. La catena umana del titolo, locuzione già usata in District and Circle) per descrivere la folle di altre ombre della metropolitana londinese, si riferisce qui agli amici, descritti nella poesia “Miracolo”, che lo trasportano in barella giù per una scala stretta fino all’ambulanza che lo porterà all’ospedale. Scorci del viaggio in ambulanza con la moglie che gli tiene la mano “flaccida come la corda di una campana”, li abbiamo in “Chanson d’aventure”, che ha in epigrafe un distico tratto da “The Ecstasie “ di John Donne: “I misteri d’amore crescono nelle anime/ma il nostro corpo è il libro dell’amore”.

Il presagio di morte e insieme il desiderio di vita sono illustrati in “Il campo sulla riva del fiume” che riporta la traduzione dei versi 704-15 e 748 -51 dal Libro VI dell’Eneide. Vi si parla delle anime, ancora ombre, in attesa di bere l’acqua del Lete, “affinché abbandonino i ricordi di questo mondo sotterraneo/ e l’anima desideri abitare carne e sangue/ sotto la volta del cielo”. La centralità di Virgilio e del suo Libro VI è ribadita nella sequenza intitolata, “Linea 110”, la linea dell’autobus che riportava il giovane poeta da Belfast a casa. Sono 12 quadri di luoghi e persone e viaggi ed eventi, a partire dal momento che si rivelerà fondamentale in cui acquista la prima copia, usata, del Libro VI dell’Eneide. La sequenza si conclude con un’immagine di vita, la nascita della dedicataria, la nipotina Anne Rose, “la cui lunga attesa sull’ombreggiata riva è finita”, associata così alle anime che attendono di rinascere nell’Ade di Virgilio, nume tutelare di quest’ultima straordinaria fase creativa.

L’antologia si chiude con il testo del discorso, intitolato Crediting Poetry,pronunciato a Stoccolma, in occasione del conferimento del Nobel nel 1995, in cui il lettore ha, tra l’altro, l’occasione di intuire le straordinarie doti di critico letterario del poeta, attività che Heaney ha praticato con un acume e una sensibilità fuori dal comune, e i cui saggi sono disponibili in italiano per le attente cure di Massimo Bacigalupo: Attenzioni, Il governo della lingua e La riparazione della poesia (tutti per i tipi di Fazi editore).

Heaney ha, infatti, accompagnato, come il Dante di Contini, la sua attività poetica con una riflessione costante sul proprio operare oltre che sulla lezione dei poeti che hanno costituito punti di riferimento costanti, e con i quali ha continuato, come suggeriva Auden, a condividere il pane. Egli ha scritto pagine memorabili sui colleghi irlandesi, inglesi e americani, allargando nel tempo il dialogo ai poeti dell’Europa orientale: Mandel’stam, innanzi tutto, che sarà fondamentale per la lettura e interpretazione della Commedia, e Herbert, Holub e Milosz.

In tutti i poeti trattati, Heaney è riuscito nel compito di “dare credito alla poesia” come forza riparatrice e a gettare un po’ di luce sul mistero alla base dell’energia che genera o rende possibili i versi, in particolare l’aspetto visionario, persino in poeti in apparenza lontani da tali incursioni, come ad esempio, Philip Larkin, cui è dedicato il saggio “Orbita di luce” o Elizabeth Bishop, poeta molto amata, come attesta il coinvolgente close reading della poesia “Ai magazzini del pesce”, nel saggio eponimo della seconda raccolta di saggi critici, Il governo della lingua. Heaney mostra, con un procedimento quasi incantatorio, come una poeta votata per propensione naturale a esercitare il governo della lingua nel senso dell’autocontrollo, attenendosi scrupolosamente alla pratica dell’osservazione, finisca proprio attraverso quel modo di procedere per compiere il salto che porta poeta e lettore d’un balzo su un altro livello di emozione e consapevolezza. Il passaggio da un piano all’altro avviene in quel misterioso corso in cui è la lingua ad assumere il comando e a governare, trascinando chi scrive in una corrente di cui non ha più il controllo. L’acqua dell’oceano che “si gonfia lentamente come prossima a tracimare” e che poi ha un certo punto tracima, quell’acqua, simbolo del mistero, elemento imperscrutabile, “incompatibile con i mortali”, in cui i versi, come pure poeta e lettori, saranno inesorabilmente attirati al seguito della foca che vi si immerge.

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