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diretto da Romano Luperini

Smarginature periferiche e solitudini esistenziali. “La colpa al capitalismo” di Francesco Targhetta

Nelle opere di Francesco Targhetta (classe 1980), poeta e scrittore tra i più interessanti della sua generazione, prosa e versi costituiscono una sorta di sistema a vasi comunicanti. Infatti se nel romanzo Le vite potenziali (2018) la lezione dei poeti crepuscolari è perfettamente innestata nel lessico specifico di un’azienda informatica, nelle poesie – dal libro d’esordio I fiaschi (Ex Cogita, 2009; ora Le Lettere, 2020) all’ultima raccolta La colpa al capitalismo (2022) – la lingua e lo stile, per dirla con Enrico Testa, sono decisamente “dopo la lirica”. E, ancora per evidenziare la singolarità di questa voce autoriale, proprio a lui dobbiamo uno dei rari romanzi in versi dell’estremo contemporaneo, Perciò veniamo bene nelle fotografie (ISBN, 2012; ora Mondadori, 2019), in cui viene riproposta la poesia narrativa cara a una certa esperienza novecentesca (dai crepuscolari a Pagliarani, per intenderci).

Dunque, i libri di Targhetta sono, in qualche modo, in bilico tra prosa e poesia: anzi, sono prosa e poesia al contempo. L’autore trevigiano valica gli “steccati” di genere e spiazza il lettore realizzando continui cortocircuiti tra l’uno e l’altro grazie a un raffinato lavoro sulla lingua.

Ne è riprova la raccolta in versi La colpa al capitalismo (La nave di Teseo, 2022): il libro si compone di dieci sezioni che alternano la misura della lirica (La colpa al capitalismo, Vita associata, Individualismo occidentale applicato, Ad altezza d’uomo, Nothing left to do list) a quella del poemetto (La morte seconda, Tiziano tra le bandiere, Nora dei fantasmi, Elegia per Marghera, Per Zero). Il titolo, già di per sé portatore di senso dell’intera raccolta, allude allo spostamento psichico che l’individuo tende a fare per giustificare il suo vuoto esistenziale attribuendone la colpa al sistema socio-economico dominante: “Data la colpa al capitalismo / a rimanere è un vuoto immenso” (p. 13), si legge negli ultimi due versi della poesia di apertura.

Soli fin dal titolo

Hikikomori’s haiku
Si è chiamato fuori
Chiudendosi dentro:
il suo atto di fede
un appartamento. (p. 17)

A partire dai titoli delle sezioni e delle singole poesie, la lingua di Targhetta mostra un’attenzione al dettaglio solo apparentemente marginale: svela, invece, un’abitudine all’osservazione del mondo circostante di rara finezza, resa ora con voce velata da leggera ironia, ora con tono dimesso. L’haiku dedicato all’anonimo hikikomori, il cui titolo è formulato secondo il genitivo sassone, oltre alla ripresa di una forma classica cara a uno dei poeti che Targhetta nomina tra i suoi maestri, Andrea Zanzotto, posa uno sguardo non colpevolizzante e ironico sull’atto di fede del giovane e solitario “adepto” che ha rinunciato alla vita.

“La prof che rimane più del tempo” fissa fin dal titolo la solitudine di una docente che, durante l’ultimo giorno di scuola di giugno, mentre imperversa “l’attesa del suono / che libera tutti”, si attarda in sala docenti per scampare a ciò che la aspetta: “le strade più sgombre, / più duro, a casa, il pane in cassetta”, con lapidario incrocio chiastico nella chiusa.

Anche “Nostalgia per la vita comunitaria di un tempo #1” traccia, con un titolo antilirico, l’attitudine all’isolamento di un anonimo personaggio femminile:

Nata alla fine degli anni novanta
È nostagica degli anni cinquanta

L’aria pulita la ricostruzione
La vita per strada
Comunitaria
La piazza la sagra il cine il raduno  

E poi nel suo palazzo
Senza ascensore
Spera sempre, scendendo
Le scale, di non imbattersi
Mai
In nessuno (p.51)

Questo testo, al quale potremmo affiancarne molti altri per costruzione stilistica, dice molto della “grana” della poesia di Targhetta: le rime, le allitterazioni, l’enumerazione per accumulo, gli enjambement producono, come ha ben scritto Riccardo Donati, “qualità performativa e profondità di senso”.

Caratteristica ricorrente della titolazione in La colpa al capitalismo è l’associazione tra un nome proprio e una situazione, rappresentata da una frase verbale o nominale. “Lexotan Livia”, “Inidoneo Iacopo”, “Il puntiglio di Gilberto”, “Ipotesi di Grazia” sono sintagmi che, in modo asciutto, restituiscono le vite possibili di ciascuno di noi. La poesia di Targhetta, infatti, è quanto di meno soggettivo e introspettivo si possa immaginare: non solo l’io lirico sparisce dalla raccolta quasi completamente (eccezion fatta per due testi), ma più che i sentimenti e le relazioni, è l’impossibilità di vivere sentimenti e relazioni a fissarsi sulla pagina. Si veda, a solo titolo di esempio, “Ferdinando ha fiuto”:

Il giorno in cui smette di sentire
L’odore di lei sulla trapunta
È lo stesso in cui gli arriva in ufficio
La nuova stampante laser.

Ferdinando ha fiuto
Ed è la sua condanna:
gli afrori compatti delle case,
le risme di carta, gli strascichi
sulla terra degli autunni
e la fodera dei suoi quarant’anni.

Vedere ovunque coincidenze
Inizia a pensare che non significhi
Niente
Se non essere, degli altri,
un poco più dolente. (p.128)

Smarginature periferiche

Sul piano tematico uno dei tratti caratterizzanti la scrittura di Targhetta è la rappresentazione dello spazio urbano e periurbano: vi si susseguono luoghi decentrati, periferici, abitati da un puzzle di individui, attraversati da arterie ora dissestate, ora trafficate, o costellate di rivendite e centri commerciali omologati. Tra tutti spicca sicuramente Marghera: la sua fisionomia si delinea per sfregi e per relitti, per ruderi e “guglie di gru e pontili”. Nel poemetto Elegia per Marghera gli impianti, come “matrioske anemiche di luoghi vuoti” si specchiano, rovesciati, nelle pozzanghere iridate:

Dopo l’ingresso della Fincantieri, 
dove sbocca la statale su ruderi
di industrie siderurgiche
ridotte a squarci e filami di amianto, 
c’è, tra le corsie, al centro, una vasta
depressione del manto, che evitano,
sfiorandosi, i Transit e i tir. Le piogge
e i freddi l’avranno scavata e ora è tutta
ricolma di acqua, stagno di unto iridato
a riflettere le gru e gli stralli, il cielo
dato in affitto verso i depositi
del Petrolchimico e il reticolo
della torre Hammon (l’ex refrigeratore
della Montecatini):
a vederla, Marghera, capovolta, 
ancor meno appartiene a questa terra.
Non ha conferma ma piace ripeterlo
L’etimo fantastico del suo nome
Mar, ghe gera – il mare c’era
Tra darsene dove è stivato l’Adriatico
In vasche per le acque di raffreddamento,
mentre dietro ai cancelli svettano ai venti
le navi da crociera pronte alla fuga
sulle onde rimaste nei mari degli altri. (p.135)

Il lungo poemetto, di cui si è riportato l’incipit, ben rappresenta il gioco di pieni e di vuoti, la commistione di industriale e residenziale, la sostanziale essenza di “terra di nessuno” che Marghera è; i riflessi di luce opachi, poco più che chiarori, si contrappongono all’”aureo abbaglio” della Venezia che spicca con le sagome dei campanili eretti dalla Serenissima Repubblica dall’altra parte del Ponte della Libertà. Del resto Targhetta stesso nomina come suoi “numi tutelari”, oltre al già citato Zanzotto, anche Bandini e Cecchinel e i “poeti della A27”, affezionati al “Veneto delle zone industriali”: si tratta di Giovanni Turra, Sebastiano Gatto, Igor De Marchi che, costituitisi in un gruppo, si sono autonominati con la sigla dell’autostrada Venezia-Belluno (si veda a questo proposito l’interessante saggio dello stesso F. Targhetta, Modelli e contorni di poetica in “Studi Novecenteschi”, Serra editore, n.98, luglio-dicembre2019, pp.289-304).

La morte seconda

Nel concludere questo attraversamento de La colpa al capitalismo, non si può passare sotto silenzio la qualità al contempo pungente e struggente del primo poemetto della raccolta, “La morte seconda”. Il protagonista potrebbe essere (o essere stato, in un passato non troppo lontano) ciascuno di noi; si tratta di un padre – ma il poemetto pullula anche di madri – alle prese con la prima riunione dell’anno alla scuola materna del figlio, quando le insegnanti condividono il programma:

“Il programma 
È importante che sia condiviso”, 
dicono nell’afa dell’aula magna
al sapore di pongo e verdure lesse
le maestre eccitate negli occhi, e tu
che niente ritieni di condividere
 col padre assessore che ti siede
davanti, due cellulari, i capelli tinti, 
niente neppure col suo unico figlio
e niente coi nipoti che avrà costui
ma annuisci lo stesso,
sedato, mentre entrano i genitori in ritardo
a causa di sessioni in palestra,
annuisci già con un cerchio alla testa
sulle luci al neon e gli effluvi sporchi
del linoleum nei corridoi: i programmi
(è ovvio) riguardano, 
sentenzia la maestra più giovane, 
“riguardano direttamente anche voi”. (pp.37-38)

Nel “distacco sedato” e nel senso di estraneità con cui quel giovane uomo guarda “la maestra baccante” e i gruppi di genitori alle prese con improbabili lavori di gruppo su ”sora morte corporale” del “Cantico delle Creature” è rappresentata tutta l’incapacità di un vero dialogo tra gli individui oggi e l’insensatezza delle vite quotidiane che viviamo; in particolare la coazione alla collaborazione è indotta da situazioni forzose (qui l’educazione dei figli, altrove il lavoro con la sua “vita agra”) nelle quali ognuno sembra essere sempre inabile. Solo il silenzio di una casa addormentata e il sonno, allora, sembrano rappresentare una via di salvezza “al divorzio, al cemento, al 740”:

Se sono già tutti a letto
È un bene, però, ti trovi a pensare,
sfondato sul divano in penombra
nel vuoto che pulsa tra i plaid,
perché ancora ti vedrebbero addosso 
come un’oscena decalcomania
tutto ciò che non sei riuscito, 
in asilo, sul foglio, a segnare, 
tutto ciò che daremo in pegno.
Ed è poi con un viso di pietra
Che vai a sbattere sul cuscino, 
il sonno pesante sul petto, 
il mattino già bianco
pronto a salire dai fossi. (p.42)

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