Perché leggere “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello
Di giorno, su un palcoscenico di teatro di prosa.
N.B. La commedia non ha atti né scene. La rappresentazione sarà interrotta una prima volta, senza che il sipario s’abbassi; allorché il Direttore Capocomico e il capo dei personaggi si ritireranno per concertar lo scenario e gli attori sgombreranno il palcoscenico; una seconda volta, allorché per isbaglio il Macchinista butterà giù il sipario. Troveranno gli spettatori, entrando nella sala del teatro, alzato il sipario, e il palcoscenico com’è di giorno, senza quinte né scena, quasi al bujo e vuoto, perché abbiano fin da principio l’impressione d’uno spettacolo non preparato. Due scalette, una a destra e l’altra a sinistra, metteranno in comunicazione il palcoscenico con la sala. Sul palcoscenico il cupolino del suggeritore, messo da parte, a canto alla buca. Dall’altra parte, sul davanti, un tavolino e una poltrona con spalliera voltata verso il pubblico, per il Direttore-Capocomico. Altri due tavolini, uno più grande, uno più piccolo, con parecchie sedie attorno, messi lì sul davanti per averli pronti, a un bisogno, per la prova. Altre sedie, qua e lì: a destra e a sinistra, per gli Attori; e un pianoforte in fondo, da un lato, quasi nascosto. Spenti i lumi nella sala, si vedrà entrare dalla porta del palcoscenico il macchinista in camiciotto turchino e sacca appesa alla cintola; prendere da un angolo in fondo alcuni assi d’attrezzatura; disporli sul davanti e mettersi in ginocchio e inchiodarli. Alle martellate accorrerà dalla porta dei camerini il Direttore di scena.
(L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, Didascalia in esordio)
Quintessenza del dramma moderno
Certo, su quest’opera che rappresenta “la quintessenza del dramma moderno” (Szondi), è quasi ridicolo spendere qui parole. (A. Camilleri, Biografia del figlio cambiato, Rizzoli, Milano 2000, p. 220)
Come si può dare torto ad Andrea Camilleri (e a Péter Szondi)? Spendere ancora parole per fabbricare pillole di buone ragioni utili a leggere la quintessenza del dramma moderno, quando tante (e autorevoli, e definitive) ne sono state spese che hanno consacrato questo testo pirandelliano come monumento del teatro e al teatro, accanto ai grandi classici di tutte le epoche: non è solo ridicolo, è pure rischioso. Ma a volte si ha l’impressione che proprio questo genere di monumenti sia esposto, più di altre e defilate sculture, all’ingiuria delle intemperie; e come sui monumenti si depositano strati di muschio, e ruggini, e smog che lentamente ma inesorabilmente finiscono per coprire particolari e dettagli lasciando, riconoscibile alla vista, soltanto l’involucro, così accade a queste opere monumentali, coperte dalle etichette del tempo. E I Malavoglia sono il romanzo “dell’ideale dell’ostrica”, gli Ossi di seppia paradigma di “correlativo oggettivo”, i Canti “pisano-recanatesi” segnano l’avvento del “pessimismo cosmico”…; e i Sei personaggi in cerca d’autore fondano il “teatro nel teatro” (e solitamente a seguire, ma con enfasi minore, si citano Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto). Questo paradossalmente avviene con maggiore frequenza mentre si percorre la storia della letteratura italiana con le classi del triennio: in quella galoppata, a tratti frenetica, tra epoche, opere, autrici e autori, le etichette sono confortanti stazioni di posta, dove raramente si usa la striglia.
Nella mia città hanno dato a teatro un ottimo adattamento dei Sei personaggi in cerca d’autore, per il quale erano previsti dei matinée per le scuole, proprio mentre mi trovavo a inaugurare con le mie due seconde liceali il percorso nel testo drammaturgico. Volevo che lo vedessero. Ma cominciare proprio da Pirandello, e da quest’opera, con ragazze e ragazzi di quindici anni, del tutto sprovvisti di strumenti di accesso al teatro (genere ed edificio) e di conoscenze storicoletterarie (e pirandelliane in particolare) mi ha imposto di chiedermi perché leggere proprio questo testo, una volta caduti i perché legati alle contingenze della didattica (non ho quinte, non ho “obblighi di canone”).
Perché Qui non si narra! Qui non si narra!
Pirandello mette in scena l’opera nel 1921, riprendendo la tesi dell’autonomia dei personaggi dall’autore, già abbozzata in almeno tre novelle (Personaggi, La tragedia di un personaggio, Colloqui coi personaggi). È ormai un narratore affermato e con fortuna ha debuttato come drammaturgo. Potrebbe cavalcare l’onda del successo: la sua ascesa sembra inarrestabile (del 1934 è la assegnazione del Nobel); invece scantona la via più agevole, già tracciata dalle sue prime prove teatrali, e si ripresenta in scena con quei Sei personaggi che, destinati a segnare la sua (quasi definitiva) conversione al teatro, lì per lì gli procurano non pochi guai: alla prima romana di maggio viene fischiato e (pare) sommerso da un lancio di monetine, mentre gli spettatori si accapigliano gridando allo scandalo. A settembre però Milano lo incorona innovatore (cfr. R. Luperini, Pirandello, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 98-112). È forse il segnale più vistoso di come l’opera abbia fatto centro; centro come sempre dovrebbe farlo un’opera teatrale: mostrando le fratture della società, specie quelle scomposte e senza ricomposizioni.
Qui non si narra! qui non si narra! – urla agitandosi la Figliastra quando il Padre tenta di fornire al Capocomico le debite spiegazioni al loro dramma doloroso: un dramma è cosa ben diversa da una narrazione. Questo è il primo dei perché: leggiamo i Sei personaggi in cerca d’autore perché qui, dichiaratamente, non si narra. In particolare, nel tool chest di una seconda classe gli strumenti di indagine del testo narrativo sono quelli acquisiti con maggiore consapevolezza: l’intero primo anno trascorre nella lettura di tutto il narrato, dai miti ai poemi, dalle fiabe alle novelle, dai racconti ai romanzi; al secondo, mentre si prende dimestichezza con il testo poetico, si è impegnati comunque nella lettura dei Promessi sposi, che costituiscono un territorio importante di verifica e di consolidamento delle abilità d’analisi del testo narrativo e delle ragioni del narrare e del narrarsi. Il testo pirandelliano offre dunque, a partire dalla sua genesi (le tre novelle), una magnifica opportunità di misurare lo scarto tra narrazione e drammatizzazione, tra ciò che, nella vita, è soggetto al racconto, narrabile, e ciò che è invece materia per un dramma. Quando la Figliastra indugia nei dettagli della sua infanzia, il Capocomico la rintuzza infastidito: Ma tutto questo è racconto! E il Padre si precipita a rettificare: D’accordo, signore! Perché tutto questo è antefatto. E io non dico di rappresentar questo. L’azione drammatica si distingue da quella narrativa proprio perché è perennemente, eternamente agìta, mai rielaborata, filtrata e magari riassorbita dal racconto; e per questo infinitamente dolorosa.
Perché Ciascuno è vestito (e solo vestito) di dignità
A determinare lo scarto tra narrazione e drammatizzazione è sempre la scoperta o lo svelamento di uno scontro insanabile e della sua centralità. Volendo ricondurre a due sole direttrici conflittuali le infinite rette passanti per l’io a confronto con l’altro-da-sé, potremmo dire che il teatro di ogni epoca ci mostra essenzialmente o il contrasto tra l’esterno e l’interno dell’io o il contrasto tra ciò che l’io sente di essere per sé e la percezione che gli altri ne hanno ovvero la funzione che gli attribuiscono. In Sei personaggi in cerca d’autore queste due direttrici sono presenti entrambe, e in modo esemplare. Il contrasto tra l’interno e l’esterno dell’io (l’eterno to be or not to be) si traduce nel testo pirandelliano nello scontro tra il racconto di sé e la messa in scena di sé. In più momenti del dramma, battute folgoranti ci svelano quella che è la tragedia dell’essere umani. Così – ad esempio – parla il Padre al Capocomico, nel tentativo di spiegare il cedimento di un uomo maturo agli impulsi sessuali quando nessuna donna più gli può dare amore:
Signore, ciascuno – fuori, davanti agli altri – è vestito di dignità: ma dentro di sé sa bene tutto ciò che nell’intimità con se stesso si passa, d’inconfessabile. Si cede, si cede alla tentazione; per rialzarcene subito dopo, magari, con una gran fretta di ricomporre intera e solida, come una pietra su una fossa, la nostra dignità, che nasconde e seppellisce ai nostri stessi occhi ogni segno e il ricordo stesso della vergogna. È così di tutti! Manca solo il coraggio di dirle, certe cose!
Al Padre piace raccontarsi come uno che ha sempre avuto di queste maledette aspirazioni a una certa solida sanità morale; eppure, mettendosi in scena, è costretto a mostrare il prevalere, sulle sue aspirazioni, dei suoi istinti, che lo portano a cercare il sesso a pagamento con una diciottenne a lutto; per scoprire che è la Figliastra. La Figliastra, per potersi consentire il racconto del suo disprezzo, deve mettere in scena la sua vergogna, consapevole, tuttavia, che proprio quella vergogna sarà l’arma che imbraccerà per entrare da padrona nella casa del Padre, accolta dal disgusto del Figlio, superbo della sua legittimità. E il Figlio, a sua volta, racconta di sé di essere estraneo a quegli altri cinque, di non essere fatto per figurare qua in mezzo a loro, di essere un personaggio non realizzato drammaticamente, ma poi è costretto a restar qui, per forza, legato alla catena, indissolubilmente, per potersi liberare, vivendolo sulla scena, del trauma che non osa confidare neanche a se stesso. Né del trauma è idonea a risarcirlo la Madre, che, remissiva quanto una Griselda, ha lasciato che il Padre lo allontanasse da lei, salvo poi tentare di profondere con angosciosa insistenza cure materne.
Perché gli altri Stanno a guardarci da fuori
Questo contrasto tra il dentro-di-sé e il fuori-di-sé si amplifica poi nel contrasto tra ciò che l’io sente di essere per sé e la percezione che gli altri hanno di quell’io o della sua funzione. Lo dice chiaramente il Figlio al Capocomico, irridendo l’attore che lo osserva per rifarne, sulla scena, la parte:
Ma non ha ancora compreso che questa commedia lei non la può fare? Noi non siamo mica dentro di lei, e i suoi attori stanno a guardarci da fuori. Le par possibile che si viva davanti a uno specchio che, per di più, non contento d’agghiacciarci con l’immagine della nostra stessa espressione, ce la ridà come una smorfia irriconoscibile di noi stessi?
Di lì a poco (1925), Pirandello avrebbe dato alle stampe un romanzo iniziato circa quindici anni prima, il cui titolo emblematico, Uno, nessuno, centomila, trova qui, in quest’opera, una possibile declinazione, ancora una volta da parte del Padre:
Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda – si crede «uno» ma non è vero: è «tanti», signore, «tanti», secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: «uno» con questo, «uno» con quello – diversissimi! E con l’illusione, intanto, d’esser sempre «uno per tutti», e sempre «quest’uno» che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero! non è vero! Ce n’accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all’improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non esser tutti in quell’atto, e che dunque una atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi, alla gogna, per una intera esistenza, come se questa fosse assommata tutta in quell’atto!
Nella società moderna, dove l’individuo è «educato (…) a essere protagonista e consumista» (G. Bollea, Le madri non sbagliano mai, Feltrinelli, Milano 2000, p.113), dove «una sorta di patologia dell’abbondanza (…) ritarda in misura notevole l’imporsi del principio di realtà, importante difesa di fronte alle inevitabili frustrazioni della vita» (ibidem), questi personaggi (e nel novero si includono anche attori e attrici della compagnia), sistematicamente frustrati nella loro aspirazione ad essere – costi pure la dignità – protagonisti, continuano a parlarci e a metterci in guardia dai rischi non soltanto dell’individualismo esasperato, ma del consumismo smodato delle passioni (tante volte invocate dalla Figliastra e dal Padre) e dell’opportunismo dei sentimenti. Il primo attore, costretto a recitare (come da copione) il ruolo di Leone Gala con berretto da cuoco e grembiule, intento a sbattere con un mestolino di legno un uovo in una ciotola, protesta, frustrato, di sentirsi ridicolo. S’indigna, frustrata, la prima attrice alle risate della Figliastra, di cui le è stato affidato il ruolo. E il Capocomico (volgarmente ansioso di conoscere come si svolse il fatto, ci dice lo stesso Pirandello nella Prefazione all’opera del 1924) interviene piccato frustrando le istanze drammatiche dei sei personaggi, perché a teatro non recitano i personaggi, ma gli attori. E i personaggi stanno lì, nel copione:
La loro espressione diventa materia qua, a cui dan corpo e figura, voce e gesto gli attori, i quali – per sua norma – han saputo dare espressione a ben più alta materia: dove la loro è così piccola, che se si reggerà sulla scena, il merito, creda pure, sarà tutto dei miei attori.
Il dispositivo del «teatro nel teatro», pur essendo (come scrive ancora Pirandello nella Prefazione) un modo disordinato, strambo, arbitrario e complicato di rappresentare il dramma, lungi dal generare confusione, funge non tanto da specchio quanto da grimaldello, scardinando la parete fragile che protegge l’io dagli altri e da sé e mostrando cosa ci sia dietro: il palcoscenico com’è di giorno, senza quinte né scena, quasi al bujo e vuoto, lo spazio inquietante di quello spettacolo non preparato (come recita la prima, lunga didascalia), di quel caos organico e naturale (è sempre Pirandello della Prefazione) che, a dispetto d’ogni nostra ridicola forma di controllo, è la nostra vita. Il linguaggio esagitato dei personaggi (tutti e tutte, compagnia teatrale inclusa) è il segno manifesto di questa perdita di controllo, della impreparazione sostanziale di ognuno a dire, oltre che a vivere, la propria esistenza.
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