Narrazione, saggio, biografia: su “La Sibilla. Vita di Joyce Lussu” di Silvia Ballestra
La Sibilla. Vita di Joyce Lussu di Silvia Ballestra (Laterza) ripercorre le vicende biografiche di una delle protagoniste del Novecento: Gioconda Salvadori Paleotti meglio nota come Joyce Lussu, dal cognome del marito Emilio. Dal punto di vista del genere, questo libro non costituisce un’eccezione nella produzione editoriale odierna, essendo un esempio di quella narrativa ibrida che mette felicemente in cortocircuito il piacere delle storie narrate con quello di un approccio conoscitivo a un tema o a un personaggio storico: per citare altri autori che, come Ballestra, hanno pubblicato recentemente opere di questo genere di ampia risonanza basterà nominare Benedetta Tobagi, con La resistenza delle donne (Einaudi), e Carlo Greppi con Il buon tedesco e Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo che salvò Primo (entrambi editi da Laterza).
La Sibilla è, come quelle, un’opera difficilmente ascrivibile a una categoria di genere e sollecita il lettore in più direzioni; da una parte, infatti, pur non essendo un racconto di finzione, presenta alcuni capitoli – in particolare quelli riguardanti il fuoriuscitismo di Joyce e Emilio – che si prestano a essere letti come un romanzo d’avventura o una spy-story; dall’altra, pur non essendo un vero e proprio saggio, è costruito su una ricca e solida documentazione e presenta quelle digressioni con le quali l’autrice commenta determinate scelte di vita, offrendo a sua volta una propria visione del mondo; infine, pur trattandosi di una biografia, la narrazione della vita di Joyce non è certo data in modo freddo e oggettivo dal momento che l’autrice l’ha conosciuta personalmente, ha avuto il privilegio di coltivare con lei un rapporto intenso e può rievocarne oggi la viva intelligenza e la portentosa personalità. Anzi va ricordato che La Sibilla costituisce una sorta di punto di arrivo nella ricostruzione memoriale di Ballestra che aveva già dedicato alla intellettuale anglo-marchigiana un lavoro nel 1996, Joyce L. Una vita contro. Diciannove conversazioni incise su nastro (Baldini&Castoldi).
Come un romanzo
La narrazione degli anni del fuoriuscitismo e della resistenza di Joyce e Emilio si estende nella parte centrale del libro e ne occupa una sezione rilevante (capitoli 4 -7): fonte essenziale – ma non esclusiva – per la ricostruzione di questa fase è il libro autobiografico della donna, Fronti e frontiere (riedito da Abbot nel 2021), dove si narrano i frequenti spostamenti da una città europea all’altra (Parigi, Marsiglia, Lisbona, solo per nominarne alcune) e i passaggi tra varie nazioni lungo frontiere impervie e pericolose (a esempio per raggiungere la Svizzera neutrale e portare in salvo i coniugi Modigliani). Emilio Lussu è uno dei giellisti più in vista dell’antifascismo italiano: è un ricercato a cui la polizia dà la caccia in tutta Europa. Da qui i continui, talvolta repentini, trasferimenti che si accompagnano al poliglottismo e a cambi di identità ai quali Joyce dà un contributo fondamentale diventando un’abile falsaria. Come sottolinea Ballestra, il punto di forza di questa complicata vita clandestina durata ben cinque anni (dal ’38 al ‘43) è stato il muoversi sempre in coppia; difatti mentre gli uomini dell’OVRA pensano al pericoloso rivoluzionario come a una persona impegnata esclusivamente nel raggiungimento del suo obiettivo politico, e lo ricercano immaginandolo solo, la coppia Joyce-Emilio riesce a muoversi passando quasi inosservata:
È in questo periodo che si fissa la loro grandezza di persone e di coppia. Che strana dimensione, quella di coppia, in una storia di lotta e resistenza.
[…] Joyce ed Emilio passano continuamente le frontiere in maniera clandestina, spinti dai fronti di guerra che avanzano. Come ci riescono? Ci riescono perché sono una coppia (e perché sono bravissimi e determinati). […] A piedi, in treno, in aereo, sul motoscafo, Joyce ed Emilio, per tutta la guerra, viaggiano nell’Europa occupata dai nazisti. Volano, navigano, camminano. Marciano moltissimo. Parlano lingua che non sono le loro. Incontrano contrabbandieri, zingari, profughi, malavitosi, soldati, diplomatici, spie, compagni, brave persone, perseguitati politici. Cambiano continuamente identità. Sono signori polacchi, agrari corsi, maestri francesi, professori svizzeri. Per fortuna, nella realtà, sono anche due scrittori, così che noi oggi possiamo leggere le loro testimonianze preziose, vederli in azione attraverso le loro pagine. (pp. 61-63)
Ballestra va ben oltre questo sommario, ricostruendo passo passo la storia sentimentale e politica dei due: Joyce e Emilio si conoscono nel ’33, quando il fratello di lei, Max Salvadori (altra figura chiave capitale dell’antifascismo italiano) le chiede di raggiungere l’esule, riparato in Francia dopo la leggendaria fuga con Carlo Rosselli e Francesco Fausto Nitti dal confino di Lipari (narrata nel capitolo 2), per recapitargli un messaggio: tra i due l’intesa è immediata, nonostante la differenza anagrafica di 22 anni.
Complicate vicende li terranno separati per un quinquennio ma, ritrovatisi nel ’38, non si lasceranno più. Ballestra ripercorre la vita all’estero di Joyce e Emilio in modo accurato e efficace e ne rende bene i contorni rocamboleschi; le avventure politiche e la vita di coppia vanno di pari passo: quello di Joyce e Emilio è un sodalizio che li costringe a attraversare dolori e difficoltà (valga per tutti la rinuncia a un figlio in arrivo mentre sono nella Parigi occupata) ma che li vede, al contempo, cementare la loro relazione sul piano umano e politico. La loro “telepatia familiare” è tale che dopo la caduta del fascismo, Joyce, rientrata in Italia qualche mese prima del marito, intuisce perfino quando è il momento di andargli incontro per ritrovarsi:
A Imperia trova Joyce ad attenderlo sul marciapiede della stazione. Non si sono dati appuntamento, non hanno scambiato comunicazioni: semplicemente, Joyce è arrivata da Roma per andargli incontro dopo averlo aspettato per giorni nella capitale. È uno di quei casi di ‘telepatia familiare’, come la chiama scherzosamente Joyce. […] . Joyce ed Emilio sono due compagni accordati e sintonizzati su frequenze multiple: sentimentali. Di intelligenza, di risoluzione pratica di problemi, di tensione morale e politica. Pensano insieme anche quando sono separati. E insieme riprendono la lotta, in Italia (pp. 114-115)
Insomma una coppia “da romanzo”.
Tra biografia e saggio
Ma non c’è solo l’abilità narrativa, in questo libro di Ballestra, scrittrice esordiente negli anni Novanta grazie alla stagione di scouting di Tondelli – quando era stata semplicisticamente etichettata “cannibale”, come molti coetanei (Vinci, Brizzi, Campo, per fare qualche nome) – e che ha in seguito maturato una voce tutta sua, coronata dal bel romanzo I giorni della rotonda (2009), nel quale ancora una volta il contesto storico riveste parte decisiva nel racconto.
Ballestra scrive La Sibilla intrecciando le parti più marcatamente storico-biografiche con inserti saggistici che cuciono le varie fasi della vita di Joyce attraverso uno sguardo di certo non asettico. Alcuni dei capitoli più vividi e interessanti sono quelli che ricostruiscono le scelte di Joyce dopo la guerra, quando la donna cerca e trova una sua autonomia politica dal marito; sono forse queste le parti del libro che consegnano al lettore la figura più vicina e moderna: Joyce femminista, pacifista, terzomondista (qui si rimanda a quanto Annalisa Nacinovich ha scritto sul libro autobiografico L’uomo che voleva nascere donna).
Mentre Emilio sarà impegnato nella Costituente e nei lavori delle prime due legislature (rispettivamente il governo Parri e quello De Gasperi), Joyce si dà all’attivismo femminista, contribuendo in modo fondamentale all’UDI, Unione Donne Italiane e lavorando in particolare al fianco delle donne sarde che vivono in una situazione di evidente regresso socio-economico e politico:
Politicamente, Joyce comincia forse a prendere atto di una serie di cose che non vanno. Riguardano il lavoro dei partiti, la mancata corrispondenza tra visione del mondo uscita dalla lotta di liberazione e realizzazione di ideali in una società nuova, posizione delle donne negli organi decisionali. (p.174)
Il suo impegno, lontano dalla carriera politica “classica”, sarà sempre all’insegna del pragmatismo: a lei interessa fare concretamente, incidere davvero sulla realtà. L’azione che la riguarda è quella “più difficile. Meno visibile, meno prestigiosa e, aggiungiamo, meno remunerata” (p.172). Per questo, accanto alle lotte femministe, Joyce sarà saldamente a fianco dei popoli africani in cerca di indipendenza, in particolare di quello angolano:
[…] sono emozionanti le sue impressioni sulla nascita di queste nuove società, libere, che si istaurano in paesi tutti da ricostruire. Sono l’attimo in cui si realizza l’utopia, questo concetto così caro a Joyce: per lei non un sogno irrealizzabile, ma una progettazione concreta. L’utopia non è, come dicono i vocabolari, «un ideale etico-politico destinato a non realizzarsi sul piano istituzionale», non è un miraggio e non è una fuga dalla realtà, ma per lei è proprio ciò che, realmente, potrebbe essere fatto. (pp. 197-198)
La Sibilla, tra cosmopolitismo e periferie
Una volta conclusa la lettura delle vicende tumultuose e infaticabili di questa donna, colpisce come una figura cosmopolita come lei senta di avere le sue radici con uguale intensità in due luoghi diversamente periferici: la sua terra d’origine, le Marche, e l’isola del marito. La Sardegna che Emilio le fa conoscere nell’immediato dopoguerra è una terra che la conquista e la cui malìa viene narrata nel libro L’olivastro e l’innesto. Scrive Ballestra:
Immersa in una cultura eurocentrica «sottilmente colonialista», quello con la regione del marito è un incontro sorprendente e doloroso. Sente che la sua cultura classica non ha nulla da insegnare e nessuno, anzi, è lei che deve imparare dal contatto con «gli sterpi e le rocce di villaggi desolati dallo sfruttamento e dall’incuria di poteri estranei e sprezzanti». (p. 152)
Alle donne sarde dedicherà moltissime energie politiche e intellettuali e molto del suo attaccamento per quella terra si esprimerà in racconti a cavallo tra il realismo francese e russo con protagonisti “vecchi e vecchie (con l’ombra delle acabadoras, le donne che accompagnavano verso la fine), bambini lavoratori […], madri di neonati, madri lavoratrici spaccapietre” (p.167)
Del resto un attaccamento altrettanto ancestrale Joyce ha nei confronti delle streghe, delle sibille, di quelle donne anticonformiste e autonome che, si dice, un tempo reggessero le comunità matriarcali sui monti Sibillini; alle donne di queste comunanze Joyce deve il suo soprannome, la Sibilla, e così “molte persone la chiamavano […] e capitava spesso, quando veniva invitata in giro per l’Italia, che venisse presentata così in pubblico” (p.8).
Dell’eredità di questa donna ora Ballestra si fa tramite: ha riportato la “sua” Sibilla, rivitalizzandone la biografia, in un’epoca in cui c’è bisogno di ricostruire argini alla politica sprezzante delle destre e alla cultura, ancora radicata, del patriarcato. Il suo essere stata “partigiana, poetessa, scrittrice, traduttrice, storica, politica, combattente, […] intellettuale, agitatrice culturale, saggista” e, aggiungerei, moglie e madre diventa oggi più che mai potente lezione di vita da leggere discutere con i più giovani:
Per me […] leggere Joyce è un percorso da continuare e ripetere anche a distanza di anni. Ripercorrere le sue tracce, rileggere di nuovo la sua storia, è come quando si sale alla Sibilla, magari portandoci degli amici, e guardare da lassù quel magnifico paesaggio, antico, umano, ricco di acqua e vegetazione, solido e composito, mosso da venti gentili e operoso. Sapendo che un tempo, lì attorno, ci sono state per secoli centinaia di comunanze governate pacificamente da donne che hanno prodotto, tramandato e conservato saggezza e conoscenza, modi di vita alternativi e giusti per tutti. (p.215)
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