Speciale 25 aprile /1. Verso (e contro) la democrazia autoritaria
Ambizione e revanche della Meloni
Un’ambizione gonfia le vele della Meloni e del suo governo in direzione delle elezioni europee del 2024. L’obbiettivo non è solo fare i conti all’interno della destra (dove la lotta è senza esclusione di colpi), ma soprattutto di affermarsi con lo schieramento conservatore nel Parlamento Europeo, rompere l’alleanza tra popolari e socialisti e impadronirsi delle istituzioni di Strasburgo. È un desiderio di revanche vecchio di 78 anni. È significativa la sua dedica del risultato del 25 settembre 2022 a “coloro che non ci sono più”, subito chiosata da La Russa con riferimento ad Almirante, la cui gigantografia grandeggia ancora nella sede di Fratelli d’Italia. Se non bastassero le foto e la fiamma della Repubblica Sociale mussoliniana nel simbolo del partito, il modello retorico è “il fascismo in doppio petto” di almirantiana memoria, che si presenta con tutta la paccottiglia nazionalista e razzista di affermazioni pesanti subito ritrattate parzialmente per richiamare nostalgici vecchi e nuovi. È appena accaduto nell’uscita televisiva di Lollobrigida (cognato della Meloni e ministro dell’agricoltura e della sovranità alimentare) sulla “sostituzione etnica”, che richiama una vecchia idea suprematista per cui esisterebbe un complotto internazionale teso a sostituire la razza bianca con i migranti di colore. Di fronte alla bufera che ha scatenato la precisazione di Lollobrigida è una toppa peggiore del buco: “ho sbagliato a parlare di sostituzione etnica, intendevo dire che dobbiamo preservare la razza bianca”. Sempre di razza si tratta in omaggio all’Almirante della Difesa della razza degli anni Quaranta. È un’idea così radicata nella sua testa che neppure sembra rendersene conto.
Il neo-liberismo che rassicura la grande borghesia
Nel Documento di Economia e Finanza appena varato dal governo si riconosce la necessità di avere alcune centinaia di migliaia di migranti in più per sostenere l’ economia italiana. Al sodo troviamo una sostanza neo-liberista, cioè la possibilità di avere manodopera a basso costo con pochi diritti. La Meloni continua a sbandierare i principi stantii della Scuola di Chicago per rassicurare la grande borghesia e l’Europa : “non è lo stato che produce lavoro”, “non bisogna disturbare chi produce ricchezza” ecc. Intanto va in Africa a sostenere un non precisato “piano Mattei”, che era appunto il fondatore dell’ENI, cioè un intervento robusto dello stato nel campo della politica energetica. Straparla di fare dell’Italia un hub del gas di una rete di distribuzione europea, senza dire dove andrebbero trovati i fondi per un progetto faraonico come il ponte sullo Stretto, quando il problema più urgente è lo sviluppo delle fonti energetiche pulite alternative al fossile e al nucleare.
Siamo appunto alla definizione di Eco del fascismo come retorica, che nella versione della Meloni e dei suoi ministri va alla ricerca di una sorta di “egemonia culturale”, che arruola il padre Dante, vuol reclutare le donne come madri e insieme come forza lavoro alternativa ai migranti, esalta il merito, associato al ministero dell’istruzione, che intanto promuove massicci tagli dell’offerta scolastica con gli accorpamenti degli istituti.
L’opposizione divisa
Sull’altro fronte assistiamo allo sfaldamento del cosiddetto “terzo polo”, che non può essere ridotto ad una rissa da pollaio tra i due galli, Calenda e Renzi, ma all’inesistenza di un blocco sociale di centro ridotto al lumicino dall’incalzare della crisi, quello che il potere democristiano foraggiava saccheggiando l’erario. Quel centro non è in grado di assicurare un ceto dirigente degno di questo nome. Nel frattempo nel valzer delle nomine delle grandi aziende a partecipazione statale le poltrone più importanti vanno ovviamente all’area di governo e soprattutto a una banda di grand commis de l’etat, anche inquisiti come Paolo Scarone, che sono uomini di fiducia dell’imprenditoria. È la dimostrazione plastica che la grande borghesia sta scegliendo questo governo come rappresentate dei propri interessi di classe. Come sappiamo bene, chi non trova da molto tempo una rappresentanza politica e istituzionale sono gli interessi della classe opposta, quella dei lavoratori, pur divisa dai processi che ha provocato al suo interno la terza rivoluzione industriale, quella elettronica e informatica.
Ho commentato qui nel recente passato i risultati elettorali che hanno penalizzato l’insipienza dei partiti del centro-sinistra: si sono presentati divisi alle elezioni del 25 settembre e sono stati puniti dall’astensionismo gonfiato dalla delusione dei loro elettori e da una legge elettorale truffaldina. L’errore continua nella divisione delle opposizioni parlamentari, soprattutto quella tra PD e 5S. Vi sono per fortuna alcuni segnali in controtendenza, in particolare nei grandi centri urbani, segnatamente nello schieramento unitario che ha vinto ad Udine, strappando il capoluogo della Regione Friuli Venezia-Giulia alla destra, che la amministra. Vanno nella stessa direzione sia, a livello di massa, la manifestazione unitaria dei 50.000 di Firenze del 4 marzo, a difesa della scuola e della Costituzione e contro i picchiatori neofascisti degli studenti del Liceo Michelangelo, sia, a livello parlamentare, la mozione di tutte le opposizioni sul 25 aprile, nonostante alcuni distinguo tra i 5S, che è passata all’unanimità al Senato con un pasticcio nel voto, volto ad intorbidare le acque ad opera della destra, che ha votato sia la mozione delle opposizioni che la propria.
Verso una democrazia autoritaria
Nella seduta del suo gabinetto del 16 marzo, la Meloni ha dato un’accelerata a tutti i progetti di riforma costituzionale, rompendo gli indugi precedenti, in particolare sul disegno di legge sull’autonomia differenziata, già puntualmente criticato su questo blog per le conseguenze nefaste che avrà sulla scuola già disastrate dalle precedenti spinte regionalistiche e burocratizzanti. Il capo del governo ha avallato con l’approvazione del nuovo disegno di legge Calderoli, precedentemente respinto, le richieste della Lega di secessione delle regioni ricche e ha ribadito la propria proposta di riforma costituzionale presidenzialista. È chiaro il messaggio di serrare le file e accelerare l’andatura in direzione del progetto di piegare l’Europa alla linea conservatrice con l’estromissione dei socialisti dal governo dell’Unione. L’autonomia differenziata, che si inserisce in un vulnus introdotto nell’articolo 116 della Costituzione dall’infausta riforma del titolo quinto (n. 1/1999), voluta dal centro-sinistra, permette la possibilità di intese separate tra Regioni e governo su tutte e 28 le materie cosiddette “concorrenti” (tutti i servizi relativi ai diritti esigibili: sanità, scuola, università, ricerca, trasporti, grandi opere, territorio, ambiente ecc.), sottraendole alla discussione parlamentare e alla possibilità di sottoporle a referendum popolare. In sostanza dividerebbe l’unità e la solidarietà nazionale in venti repubblichette inefficienti (come si è visto durante la pandemia per quanto riguarda il diritto alla salute), peggio degli staterelli preunitari quando l’Italia era una mera “espressione geografica”. A questa frammentazione la Meloni giustappone un presidenzialismo autoritario con l’accentramento dei “poteri forti” (forze armate, politica estera e politica economica) nelle mani di un unico uomo al comando. È lo stravolgimento dell’impianto della Costituzione, nata dalla sconfitta della dittatura fascista. È un pericolo attuale, stante i numeri che in maniera improvvida il centro-sinistra ha messo nelle mani della destra in entrambe le Camere, che rendono ardua la difesa referendaria, che pur bisogna allestire fin da ora. Come dimostrano i regimi di alcuni paesi dell’est europeo, l’Ungheria e la Polonia, non bastano le elezioni più o meno libere per far funzionare una democrazia vera. Per democrazia autoritaria o illiberale intendiamo l’accentramento dei poteri dello stato in poche mani e la mancata divisione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Il governo democratico autoritario o illiberale ritiene di avere un mandato superiore per agire in ogni materia, mandato che nelle declinazioni populiste deriverebbe dalle elezioni e che legittimerebbe anche le modifiche delle regole costituzionali.
Controtendenze
Le opposizioni fuori e dentro il Parlamento esprimono controtendenze ai progetti di democrazia autoritaria. In primo luogo è in corso una raccolta di firme contro i progetti di autonomia differenziata, promossa per una legge costituzionale di iniziativa popolare, che ha come primo firmatario il Professor Massimo Villone e un nutrito gruppo di costituzionalisti del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale. Tale legge mira a correggere il vulnus dell’articolo 116 e a mantenere saldamente nei processi di regionalizzazione il bandolo nella mani dello Stato (cosiddetta “clausola di priorità”) e a definire più chiaramente le competenze nelle materie concorrenti. Per il regolamento del Senato raggiunte le 50.000 firme necessarie (meglio 60.000 per aver certezza di superare il vaglio della Cassazione) la legge Villone dovrà essere obbligatoriamente discussa. È una piccola zeppa messa negli ingranaggi governativi. L’obbiettivo è vicino e si potrà continuare a firmare on line fino a i primi di maggio sul sito www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it.
Nel frattempo assistiamo ad un’auspicata inversione di tendenza con il recupero dei valori dell’antifascismo, inteso come l’insieme dei diritti e dei doveri sanciti nella Costituzione. Mentre l’antifascismo, ridotto a pura etichetta, era stato considerato da autorevoli commentatori “non spendibile”nella campagna elettorale delle ultime politiche con i risultati disastrosi che sono di fronte a tutti noi. Tali valori potevano essere il collante di uno schieramento largo della sinistra in grado di contrastare l’ascesa della destra. Vanno in questa direzione le dichiarazioni della nuova segretaria del PD, Elly Schlein, in difesa della memoria del 25 aprile e della mozione unitaria delle opposizioni parlamentari. Contemporaneamente gli organizzatori della più importante manifestazione antifascista per la Liberazione, quella di Milano, e la sindaca di Marzabotto, luogo della strage più efferata dei nazi-fascisti nel 1944, hanno dichiarato che non accetteranno sul palco delle celebrazioni le autorità istituzionali, compromesse con dichiarazioni neo-fasciste. È auspicabile una larga partecipazione di massa alle celebrazioni della Liberazione, che contesti pacificamente e civilmente la presenza degli esponenti pro tempore delle istituzioni “nostalgici” del passato fascista e rafforzi questi segnali in controtendenza alla linea autoritaria della destra.
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Se le controtendenze sono quelle indicate nell’articolo, c’è poco da stare allegri. Perfino la forma espositiva meramente postulatoria e manifestamente autocontraddittoria tradisce l’impaccio di chi lo ha scritto: “Nel frattempo assistiamo ad un’auspicata inversione di tendenza…”. Sennonché i fatti, che, come è noto, sono testardi, inducono a domandare come mai il governo più a destra degli ultimi 70 anni abbia goduto finora di una pace sociale quasi totale. E la risposta è quella che segue: una condizione fondamentale perché ci sia pace sociale è la divisione della classe operaia. Certo, le ragioni dell’attuale pace sociale, perfettamente rispecchiate dai tassi crescenti dell’astensione elettorale, affondano in almeno quattro decenni di offensiva capitalistica a tutto campo e di trasformazioni radicali nella divisione del lavoro, nel mercato del lavoro, nell’organizzazione del lavoro, nel contenuto del lavoro, nell’ideologia dei lavoratori. Né vanno tralasciati, nel passivo di un simile periodo, la sconfitta e il dissolvimento dei paesi socialisti, sconfitta e dissolvimento che hanno fiaccato ulteriormente la volontà di lotta di non pochi settori della classe operaia, i quali riponevano le loro speranze nella capacità di quei regimi di rappresentare un contrappeso alla potenza devastante dell’imperialismo. Sicché non aveva torto chi, considerando le conseguenze di lungo periodo di quella sconfitta storica, ebbe ad affermare che il mondo delle classi subalterne e delle loro residue espressioni politiche avrebbe dovuto “bere il calice fino all’ultima feccia”. Non desta perciò meraviglia che, per approfondire le divisioni già esistenti nella classe e accentuarne l’attuale paralisi, la manovra del governo Meloni si sia sviluppata in due direzioni: attacco ai nuovi migranti e attacco ai percettori del reddito di cittadinanza. Sul primo fronte, le misure contro le Ong sono servite a intimidire l’intero campo delle popolazioni lavoratrici immigrate. Sul secondo fronte, la decisione di segare il reddito di cittadinanza ha approfondito il solco tra chi un lavoro ce l’ha, ma è costretto a sopportare orari e ritmi di lavoro sempre più pesanti con paghe sempre più erose dall’inflazione, e chi è invece relegato ai margini del mercato del lavoro dalle più diverse ed avverse circostanze della propria esistenza. Questo doppio attacco, se da un lato con la politica dei respingimenti li riduce, dall’altro allarga i confini dell’esercito industriale di riserva, che in Italia, paese per eccellenza dell’economia sommersa, è storicamente amplissimo. Dopodiché l’opera di divisione, comunque e dovunque perseguìta, raggiungerebbe la sua acme se il governo riuscisse a varare l’istituzione delle “gabbie salariali” e dell’“autonomia differenziata”. Infine, riguardo alla Resistenza è opportuno sottolineare, insieme con il valore , i limiti di quel moto storico (ad esempio, rispetto alla guerra di popolo jugoslava). Eppure quei venti mesi costituiscono, nella storia del nostro paese, il punto più alto mai raggiunto dalle classi subalterne nella loro lotta di emancipazione. In questo senso, è doveroso riconoscere che il ruolo dei partiti operai, delle classi lavoratrici e di ampi settori delle masse popolari fu l’elemento decisivo della vittoria nella Resistenza e che quest’ultima era concepita, in quanto rivoluzione antifascista, come la prima tappa di una rivoluzione ininterrotta orientata verso il socialismo. Certo, “caduti per la libertà” è la dizione con cui vengono definiti quei 45.000 partigiani morti nella Resistenza, ma una parte grande di essi – anche questo va ricordato – caddero per conquistare la libertà più alta che possa esistere: quella che coincide con una società senza classi.